Come si spiegano i miracoli di Gesù? Gesù volle realmente fondare una Chiesa? Cosa è il Santo Graal?
Tratto da "50 domande su Gesù" (VI)
Autore: Don Juan Chapa
26. Come si spiegano i miracoli di Gesù?
Fra le accuse più antiche dei giudei e dei pagani contro Gesù c’è quella di essere un mago. Nel secolo II, Origene confuta le imputazioni di magia che Celso fa del Maestro di Nazaret e alle quali alludono San Giustino, Arnobio e Lattanzio. Anche alcune tradizioni giudee che risalgono al secolo II contengono accuse di stregoneria. In tutti questi casi, non si afferma che lui non sia esistito né che non avesse realizzato prodigi, ma che i motivi che lo portavano a farli erano l’interesse e la fama personali. Sono affermazioni che si distaccano dalla realtà storica di Gesù e dalla sua fama di taumaturgo, così come appare nei vangeli. Per questo, oggi giorno, il fatto che operò esorcismi e guarigioni è tra i dati che si danno per certi sulla vita di Gesù.
Tuttavia, Gesù si distingue nettamente da altri personaggi dell’epoca ai quali vengono attribuiti prodigi. Si distingue per il numero molto maggiore di miracoli che operò e per il senso che dette loro, assolutamente diverso da quello dei prodigi che realizzarono questi personaggi (sempre che ciò sia vero). Il numero di miracoli attribuiti ad altri taumaturghi è molto ridotto, mentre nei vangeli abbiamo 19 racconti di miracoli in Mt 18, in Mc 20, in Lc e in Gv; inoltre nei sinottici e in Giovanni si fa cenno a molti altri miracoli che Gesù fece (cfr Mc 1,32-34 e par; 3,7 e par; 6,53-56; Gv 20,30). Anche il senso è differente da quello di qualsiasi altro taumaturgo: Gesù fa miracoli che implicano nei beneficiati un riconoscimento della bontà di Dio e un cambio di vita. La sua resistenza a farli mostra che non cercava la propria esaltazione o gloria, ma che ciascun miracolo aveva un significato proprio. I miracoli di Gesù si intendono nel contesto del Regno di Dio: “Ma se è con l’aiuto dello Spirito di Dio che io scaccio i demòni, è dunque giunto fino a voi il regno di Dio” (Mt 12,28). Gesù inaugura il Regno di Dio e i miracoli sono una chiamata a una risposta di fede.
Questo è fondamentale e specifico dei miracoli che operò Gesù. Regno e miracoli sono inseparabili. I miracoli di Gesù non erano frutto di tecniche (come un medico) o dell’azione di demoni o angeli (come un mago), ma il risultato del potere soprannaturale dello Spirito di Dio. Pertanto, Gesù fece miracoli per confermare che il Regno era presente in Lui, per annunciare la sconfitta definitiva di Satana e aumentare la fede nella sua Persona. Non possono spiegarsi come prodigi sorprendenti ma come manifestazioni di Dio stesso con un significato più profondo del fatto prodigioso. I miracoli sulla natura sono segni che dimostrano come il potere divino presente in Gesù si estenda più in là del mondo umano e si manifesti come potere di dominio anche sulle forze della natura.
I miracoli di guarigione e gli esorcismi sono segni che dimostrano come Gesù abbia manifestato il suo potere di salvare l’uomo dal male che minaccia l’anima. Gli uni e gli altri sono segni di altre realtà spirituali: le guarigioni del corpo – la liberazione dalla schiavitù della malattia – significano la guarigione dell’anima dalla schiavitù del peccato; il potere di scacciare i demoni indica la vittoria di Cristo sul male; la moltiplicazione dei pani allude al dono dell’Eucarestia; la tempesta calmata è un invito a confidare in Cristo nei momenti burrascosi e difficili; la resurrezione di Lazzaro annuncia che Cristo è la stessa resurrezione ed è figura della resurrezione finale, ecc.
27. Gesù volle realmente fondare una Chiesa?
La predicazione di Gesù si dirigeva in primo luogo a Israele, come lui stesso disse a quelli che lo seguivano: ”Non sono stato inviato se non alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 15,24). Dall’inizio della sua attività invitava tutti alla conversione: “Il tempo si è compiuto e il Regno di Dio sta per arrivare; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15). Però questa chiamata alla conversione personale non si concepisce in un contesto individualista, ma è indirizzato a riunire l’umanità dispersa per costituire il Popolo di Dio che era venuto a salvare. Un segnale evidente che Gesù aveva l’intenzione di riunire il popolo della Alleanza, aperto alla umanità intera, in compimento delle promesse fatte al suo popolo, è l’istituzione dei dodici apostoli, fra i quali mette Pietro a capo: ”I nomi dei dodici apostoli sono questi: primo Simone, chiamato Pietro, e suo fratello Andrea; Giacomo di Zebedeo e suo fratello Giovanni; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo, il pubblicano; Giacomo di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda Iscariote, che lo tradì” (Mt 10,1-4; Mc 3,13-16; Lc 6,12-16) (si veda la domanda Chi furono i dodici Apostoli?).
Il numero dodici fa riferimento alle dodici tribù di Israele e manifesta l’intenzione di riunire il popolo santo di Dio, la ekkesia Theou: essi sono le fondamenta della nuova Gerusalemme (cfr. At 21, 12-14). Un altro segno di questa intenzione di Gesù è che nell’ultima cena egli conferì il potere di celebrare l’Eucaristia da lui istituita in quel momento (vedasi la domanda Che successe nell’ultima cena?). In questo modo, trasmise a tutta la Chiesa, nella persona di coloro che costituì capi in essa, la responsabilità di essere segno e strumento della riunione cominciata da Lui e che doveva compiersi negli ultimi tempi. In effetti, la sua donazione sulla croce, anticipata sacramentalmente in questa cena, e attualizzata ogni volta che la Chiesa celebra l’Eucaristia, crea una comunità unita nella comunione con Lui stesso, chiamata a essere segno e strumento del compito da Lui iniziato. La Chiesa nasce, così, dalla donazione totale di Cristo per la nostra salvezza, anticipata nell’istituzione dell’Eucaristia e consumata sulla croce.
I dodici apostoli sono il segno più evidente della volontà di Gesù sulla esistenza e sulla missione della sua Chiesa, la garanzia del fatto che tra Cristo e la Chiesa non c’è contrapposizione: sono inseparabili, malgrado i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. Gli apostoli erano coscienti, perché così l’avevano ricevuto da Gesù, del fatto che la loro missione doveva durare nel tempo. Per questo si preoccuparono di trovare successori affinché la missione che era stata loro affidata continuasse dopo la loro morte, come testimonia il libro degli Atti degli Apostoli. Lasciarono una comunità strutturata attraverso il ministero apostolico, sotto la guida dei pastori legittimi, che la edificarono e la sostennero nella comunione con Cristo e con lo Spirito Santo, In essa tutti gli uomini sono chiamati a sperimentare la salvezza offerta dal Padre.
Nelle lettere di San Paolo si parla, pertanto, dei membri della Chiesa come “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, edificati sulle fondamenta degli apostoli e profeti, essendo pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Ef 2,19-20). Non è possibile trovare Gesù se si prescinde dalla realtà che Lui creò e nella quale Lui si rivela. Fra Gesù e la sua Chiesa c’è una continuità profonda, inseparabile e misteriosa, in virtù della quale Cristo si fa presente oggi al suo popolo.
28. Che successe nell’ultima cena?
Le ore che precedettero la Passione e la Morte di Gesù rimasero incise con singolare forza nella memoria e nel cuore di coloro che erano con lui. Per questo, negli scritti del Nuovo Testamento si conservano parecchi dettagli su quello che Gesù fece e disse nella sua ultima cena. Secondo Joachim Jeremias è uno degli episodi meglio testimoniati della sua vita. In questa occasione Gesù è solo con i dodici Apostoli (Mt 26,20; Mc 14,17 e 20; Lc 22,14).
Non lo accompagnavano né Maria sua madre, né le sante donne. Secondo il racconto di San Giovanni, all’inizio, con un gesto pieno di significato, Gesù lava i piedi ai suoi discepoli dando così un esempio di umile servizio (Gv 13,1-20). Successivamente ha luogo uno degli episodi più drammatici di questa riunione: Gesù annuncia che uno di loro lo andrà a tradire, e tutti restano stupiti a guardarsi l’un l’altro, mentre Gesù in modo delicato fa riferimento a Giuda (Mt 26,20-25; Mc 14,17-21; Lc 22,21-23 e Gv 13,21-22). Nella stessa celebrazione della cena, il fatto più sorprendente fu l’istituzione della Eucaristia. Di quello che è successo in questo momento si conservano quattro versioni – i tre dei sinottici (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14-20) e quello di San Paolo (1 Co 11,23-26) – molto simili fra di loro.
Si tratta in tutti i casi di narrazioni di pochi versetti, nei quali si ricordano i gesti e le parole di Gesù che dettero luogo al Sacramento e che costituiscono il nucleo del nuovo rito: “Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22,19 e par.). Sono parole che esprimono la radicale novità di quello che stava succedendo in questa cena, molto diversa dalle cene ordinarie. Gesù nella Ultima Cena non offrì il pane a quelli che stavano intorno alla tavola con lui, ma una realtà diversa sotto le apparenze del pane: Questo è il mio corpo. E trasmise agli Apostoli lì presenti il potere necessario per fare la stessa cosa: Fate questo in memoria di me. Anche alla fine della cena avviene qualcosa molto rilevante: “Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,20 e par.).
Gli Apostoli compresero che se prima avevano assistito alla donazione del suo corpo sotto le apparenze del pane, ora dava a loro da bere il suo sangue in un calice. La tradizione cristiana ha recepito in questo ricordo della donazione separata del corpo e del sangue di Gesù un segno efficace del sacrificio che poche ore dopo doveva consumarsi sulla croce. Inoltre, durante tutto questo tempo, Gesù parlava con affetto lasciando nel cuore degli Apostoli le sue ultime parole. Nel vangelo di San Giovanni si conserva la memoria di questo lungo e intimo dopo cena. In questi momenti appare il comandamento nuovo, il cui compimento sarà il segnale distintivo del cristiano: “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35).
29. Cosa è il Santo Graal? Che relazioni ha col Santo Calice?
La parola “graal” viene dal tardo latino “gradalis” o “gratalis”, che deriva dal latino classico “crater”, vaso. In alcuni libri di cavalleria del Medio Evo se ne parla come il recipiente o coppa in cui Gesù consacrò il suo sangue nell’ultima cena e che poi venne utilizzato da Giuseppe di Arimatea per raccogliere il sangue e l’acqua sparsi nel lavare il corpo di Gesù.
Anni dopo, secondo questi libri, Giuseppe se lo portò con sé nelle isole britanniche (vedere la domanda Chi fu Giuseppe di Arimatea?) e fondò una comunità di custodi della reliquia, che più tardi resterebbe legata ai Templari. Questa leggenda è probabile che sia nata nel Paese del Galles, ispirandosi a fonti antiche latinizzate, come potrebbero essere gli Atti di Pilato, un’opera apocrifa del secolo V. Con la saga celtica di Perceval o Parsifal, collegata al ciclo di re Artù e sviluppata in opere come Le Conte du Graal, di Chretien di Troyes, Percival, di Wolfram von Eschenbach, o Le Morte Darhur, di Thomas Malory, la leggenda si arricchisce e si diffonde.
Il Graal diventa una pietra preziosa, che curata per un certo tempo da angeli, fu affidata in custodia ai cavalieri dell’ordine del Santo Graal e del suo capo, il re del Graal. Tutti gli anni, il Venerdì Santo, scende una colomba dal cielo e, dopo aver deposto un dono sulla pietra, rinnova la sua virtù e forza misteriosa, che comunica una perpetua giovinezza e può saziare qualsiasi desiderio di mangiare e bere. Di tanto in tanto, alcune iscrizioni sulla pietra rivelano quelli che sono chiamati alla beatitudine eterna nella città del Graal, in Montsalvage.
Questa leggenda, per la sua tematica, è vincolata al calice che utilizzò Gesù nella ultima cena e sul quale esistono varie tradizioni antiche. Fondamentalmente sono tre. La più antica è del secolo VII, secondo la quale un pellegrino anglosassone afferma di aver visto e toccato nella Chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme il calice che fu utilizzato da Gesù. Era d’argento e aveva ai lati due manici. Una seconda tradizione dice che questo calice è quello che si conserva nella cattedrale di San Lorenzo a Genova. Si chiama il Santo catino.
È un cristallo verde simile a un piatto, che sarebbe stato portato a Genova dai crociati nel secolo XII. Secondo una terza tradizione, il calice dell’ultima cena è quello che si conserva nella cattedrale di Valencia (Spagna) e si venera come il Santo Calice. Si tratta di una coppa di calcedonio di colore molto scuro, che sarebbe stata portata da San Pietro a Roma e utilizzata lì dai suoi successori, fino al secolo III. A seguito delle persecuzioni, sarebbe stata consegnata alla custodia di San Lorenzo, che la portò a Huesca. Dopo essere stata in diversi luoghi di Aragona, sarebbe stato traslocata a Valencia nel secolo XV.
30. Cosa era il Sinedrio?
Il Sinedrio era la Corte Suprema della legge giudea, con il compito di amministrare la giustizia interpretando e applicando la Torah, tanto orale come scritta. Allo stesso tempo rappresentava il popolo giudeo di fronte all’autorità romana. D’accordo con una antica tradizione, aveva settantuno membri, che ereditavano, secondo le convinzioni di allora, i compiti svolti dai settanta anziani che aiutarono Mosè nella amministrazione della giustizia, oltre allo stesso Mosè. Si sviluppò integrando rappresentanti della nobiltà sacerdotale e delle famiglie più note, forse durante il periodo persiano, cioè a partire dal secolo V – IV a.C. Si menziona per la prima volta, sebbene col nome di gerousia (consiglio di anziani), al tempo del re Antioco III di Siria (223-187 a.C.). Con il nome di synedrion è citato dal regno di Hircano II (63-40 a.C.).
In quei tempi lo presiedeva il monarca asmoneo, che era anche sommo sacerdote. Erode il Grande all’inizio del suo regno comandò di giustiziare gran parte dei suoi membri – quarantacinque, secondo Flavio Giuseppe (Antiquitates iudaicae 15,6) -, perché il consiglio si era azzardato a ricordargli i limiti entro i quali doveva muoversi il suo potere. Li rimpiazzò con personaggi sottomessi al suo potere. Durante il suo regno, e poi ai tempi di Archelao, il Sinedrio ebbe poca importanza. All’epoca dei governatori romani, anche in quella di Ponzio Pilato, il Sinedrio esercitò di nuovo la sue finzioni giudiziali nei processi civili e penali, nell’ambito del territorio della Giudea.
In questi tempi le sue relazioni con l’amministrazione romana erano fluide, e il relativo ambito di autonomia che gli venne lasciato è in consonanza con la politica romana nei territori conquistati. Ciò nonostante, la cosa più probabile è che in tali momenti la potestas gladii, cioè la capacità di dettare una sentenza di morte, fosse riservata al governatore romano (praefectus) che, come era normale in quei tempi, avrebbe ricevuto dall’imperatore ampi poteri giudiziali, e fra questi tale potestà. Pertanto il Sinedrio, sebbene potesse occuparsi delle cause che le erano proprie, non poteva condannare a morte nessuno.
La riunione dei suoi membri durante la notte per interrogare Gesù non fu altro che una indagine preliminare per mettere a punto le accuse, per la mattina seguente, contro Gesù nel processo di fronte al prefetto romano.