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50 domande su Gesù (VII)

Chi fu Caifa? Chi fu Ponzio Pilato? Come si spiega la resurrezione di Gesù?

Autore: Don Juan Chapa

31. Chi fu Caifa?
Caifa (Joseph Caiaphas) fu un sommo sacerdote contemporaneo di Gesù. È citato varie volte nel Nuovo Testamento (Mt 26,3; 26,57; Lc 3,2; 11,49; 18,13-14; Gv 18,24-28; At 4,6). Lo storico giudeo Flavio Giuseppe dice che Caifa ascese al sommo sacerdozio attorno all’anno 18, nominato da Valerio Grato, e che fu deposto da Vitellio attorno all’anno 36 (Antiquitates iudaicae, 18.2.2 e 18.4.3). Era sposato con una figlia di Anna. Anche secondo Flavio Giuseppe, Anna era stato il sommo sacerdote fra gli anni 6 e 15 (Antiquitaes iudaicae, 18.2.1 e 18.2.2). D’accordo con questa datazione, e in conformità con quanto raccontato dai vangeli, Caifa era il sommo sacerdote quando Gesù fu condannato a morte in croce.
La sua lunga permanenza nel ruolo di sommo sacerdote è un indizio più che significativo del fatto che manteneva relazioni molto cordiali con l’amministrazione romana, anche durante l’amministrazione di Pilato. Negli scritti di Flavio Giuseppe sono menzionati in varie occasioni gli insulti di Pilato alla identità religiosa e nazionale dei giudei, e le voci di personaggi che si sollevano protestando contro di lui. L’assenza del nome di Caifa – che era il sommo sacerdote proprio in quel momento – fra coloro che si lamentavano degli abusi di Pilato, fa pensare che tra i due i rapporti erano buoni. Questo stesso atteggiamento di vicinanza e collaborazione con l’autorità romana si riflette anche nei racconti evangelici in riferimento al processo a Gesù, alla sua condanna a morte sulla croce. Tutti i racconti evangelici concordano nel fatto che, dopo l’interrogatorio di Gesù, i príncipi del sacerdoti si accordarono di consegnarlo a Pilato (Mt 27,1-2; Mc 15,1; Lc 23,1 e Gv 18,28).
Per conoscere come i primi cristiani si spiegassero la morte di Gesù, è significativo quello che racconta San Giovanni nel suo vangelo circa le decisioni precedenti alla sua condanna: “Uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla;
e non considerate che conviene per noi che un sol uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione». Or egli non disse questo da se stesso; ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesú doveva morire per la nazione, e non solo per la nazione, ma anche per raccogliere in uno i figli di Dio dispersi” (Gv 11,49-52).
Nel 1990 apparirono nella necropoli di Talpiot in Gerusalemme dodici ossari, uno dei quali porta la iscrizione “Joseph bar Kaiapha”, con lo stesso nome che Flavio Giuseppe attribuisce a Caifa. Si tratta di alcuni ossari del secolo I, e i resti contenuti in questo recipiente potrebbero essere dello stesso personaggio menzionato nei vangeli.

32. Chi fu Ponzio Pilato?
Ponzio Pilato esercitò la carica di prefetto della provincia romana di Giudea dall’anno 26 d.C. fino al 36 o inizio del 37 d.C. La sua giurisdizione si estendeva anche alla Samaria e all’Idumea. Non sappiamo niente di sicuro della sua vita precedente a queste date. Il titolo della sua carica fu quello di praefectus, che corrisponde a quelli che ricevettero questo incarico dall’imperatore Claudio e che è confermato da una iscrizione scoperta a Cesarea. Il titolo di procurator, utilizzato da alcuni autori antichi, è un anacronismo. I vangeli lo chiamano con il titolo generico di “governatore”. Come prefetto gli spettava di mantenere l’ordine nella provincia e amministrarla giuridicamente ed economicamente. Pertanto, doveva essere a capo del sistema giudiziario (e così risulta che agì nel processo di Gesù) e raccoglieva tributi e imposte per sovvenire alle necessità della provincia e di Roma. Di quest’ultima attività non ci sono prove dirette, quantunque l’incidente dell’acquedotto che narra Flavio Giuseppe (vedere più in basso) è sicuramente una prova indiretta. Inoltre, sono state trovate monete coniate a Gerusalemme negli anni 29, 30 e 31, senza dubbio su ordine di Pilato. Egli è comunque passato alla storia per essere stato colui che ordinò l’esecuzione di Gesù di Nazaret; ironicamente, in tal modo il suo nome è entrato nel simbolo della fede cristiana: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto…”.
Le sue relazioni con i giudei, secondo quanto riferiscono Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe, non furono in assoluto buone. Secondo Giuseppe, gli anni di Pilato furono molto turbolenti in Palestina, e Filone dice che il governatore si caratterizzava per la “sua venalità, la sua violenza, i suoi furti, i suoi assalti, la sua condotta fuori legge, le frequenti esecuzioni di prigionieri che non erano stati giudicati, e la sua ferocia senza limite” (De Legatione ad Caium, 302). Quantunque in questi giudizi sicuramente si rifletta l’opinione personale di questi due autori, la crudeltà di Pilato sembra fuori di dubbio, come suggerisce Lc 13,1, dove racconta l’incidente di alcuni galilei il cui sangue venne mescolato con quello dei sacrifici. Giuseppe e Filone narrano anche che Pilato introdusse in Gerusalemme alcune insegne in onore di Tiberio, che originarono un grande tumulto fino a che non le portò a Cesarea. Giuseppe riferisce inoltre che Pilato utilizzò fondi destinati ad opere sacre per costruire un acquedotto. La decisione originò una rivolta che fu sedata in maniera sanguinosa. Alcuni pensano che questo avvenimento è quello a cui si riferisce Lc 13,1. Un ultimo episodio riferito da Giuseppe è la violenta repressione di samaritani sul monte Garizim verso l’anno 35. A seguito di quella, i samaritani inviarono una delegazione al governatore della Siria, L. Vitellio, che sospese Pilato dalla carica. Questi fu chiamato a Roma per dare spiegazioni, però arrivò dopo la morte di Tiberio. Secondo una tradizione raccolta da Eusebio, cadde in disgrazia sotto l’impero di Caligola e morì suicida.
Nei secoli successivi nacque ogni tipo di leggenda su questa persona. Alcune gli attribuivano una fine spaventosa nel Tevere o a Vienne (Francia), mentre altre (soprattutto gli Actas di Pilato, che nel Medio Evo formavano parte del Vangelo di Nicodemo) lo presentano come convertito al cristianesimo insieme a sua moglie Procula, che viene venerata come santa nella Chiesa Ortodossa per la sua difesa di Gesù (Mt 27,19). Inoltre lo stesso Pilato si trova tra i santi della chiesa etiope e copta. Ma al di sopra di queste tradizioni, che fondamentalmente riflettono l’intento di mitigare la colpa del governatore romano in tempi in cui il cristianesimo incontrava difficoltà nei rapporti con l’impero, la figura di Pilato che conosciamo dai vangeli è quella di un personaggio indolente, che non vuole confrontarsi con la verità e preferisce accontentare la folla.
La sua presenza nel Credo è comunque di grande importanza perché ci ricorda che la fede cristiana è una religione storica e non un programma etico o una filosofia. La redenzione si operò in un luogo concreto del mondo, Palestina, in un tempo preciso della storia, e cioè quando Pilato era prefetto di Giudea.

33. Come avvenne la morte di Gesù?
Gesù morì inchiodato ad una croce il giorno 14 di Nisan, venerdì 7 aprile dell’anno 30. Così si può dedurre dall’analisi critica delle relazioni evangeliche, contrastati dalle allusioni alla sua morte trasmesse nel Talmud (cfr.TB, Sanhedrin VI,1 ; fol, 43°).
La crocifissione era una pena di morte che i romani applicavano a schiavi e sediziosi. Aveva un carattere infamante, e quindi non poteva applicarsi a un cittadino romano, ma soltanto a stranieri. Esistono numerose testimonianze sul fatto che da quando l’autorità romana si impose nella terra di Israele questa pena venne applicata con relativa frequenza. Il procuratore di Siria Quintilio Varo nell’anno 4 a.C. crocifisse duemila giudei come rappresaglia per una sommossa.
Per ciò che riguarda il modo con cui venne crocifisso Gesù sono molto interessanti le scoperte fatte nella necropoli di Givat ha-Mivtar appena fuori di Gerusalemme. Lì si trovò la sepoltura di un uomo che fu crocifisso nelle prima metà del secolo I d.C., cioè a dire contemporaneo di Gesù.
L’iscrizione sepolcrale permette di conoscere il suo nome: Giovanni, figlio di Haggol. Alto 1 metro e 70, al momento della morte dovrebbe aver avuto venticinque anni. Non c’è dubbio che si tratta di un crocifisso, giacché i becchini non poterono staccare il chiodo che univa i suoi piedi, e dovettero seppellirlo con il chiodo, che a sua volta conservava parte del legno. Questo ha permesso di sapere che la croce di questo giovane era di legno di ulivo. Sembra che avesse una leggera sporgenza di legno fra le gambe, che serviva forse per appoggiarsi un poco, utilizzandolo come sedia, in modo che il reo potesse recuperare un poco le forze e si prolungasse l’agonia. Con questo piccolo sollievo si evitava una morte immediata per asfisia, che sarebbe avvenuta se tutto il peso del corpo fosse stato retto soltanto dalle braccia. Le gambe sembra fossero leggermente aperte e piegate. I resti trovati nella sua sepoltura mostrano che le ossa delle mani non erano perforate né rotte. Quindi, la cosa più probabile è che le braccia di quest’uomo fossero state semplicemente legate con forza alla traversa della croce (a differenza di Gesù, che fu inchiodato). I piedi invece erano stati perforati dai chiodi. Uno di questi continuava a conservare fissato un chiodo grande e abbastanza lungo. Per la posizione in cui si trova si può pensare che lo stesso chiodo attraversò i due piedi nel seguente modo: le gambe erano un poco aperte attorno al palo, la parte sinistra della caviglia destra e la parte destra della sinistra erano appoggiate ai lati del palo trasversale, il lungo chiodo attraversava prima un piede da caviglia a caviglia, dopo il palo di legno e poi l’altro piede. Il supplizio era tale che Cicerone qualificava la crocefissione come il “maggior supplizio”, “il più crudele e terribile supplizio”, “il peggiore e l’ultimo dei supplizi, che si infligge agli schiavi” (In Verrem II, lib. V, 60-61).
Tuttavia, per avvicinarsi alla realtà di quello che fu la morte di Gesù sulla croce non basta soffermarsi sui dolorosi e tragici dettagli che la storia è capace di illustrare, giacché la realtà più profonda è quella che confessa “che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture” (1 Co 15,3). Nella sua donazione generosa della morte in Croce manifesta la grandezza dell’amore di Dio verso ogni essere umano: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, essendo noi peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8).

34. Chi fu Giuseppe di Arimatea?
Giuseppe di Arimatea viene menzionato nei quattro vangeli nel contesto della passione e morte di Gesù.Era oriundo di Arimatea (Armathajim in ebraico), un paese di Giuda, l’attuale Rentis, a 10 km a nordest di Lydda, probabilmente il luogo di nascita di Samuele (1 S 1,1). Uomo ricco (Mt 27,57) e membro illustre del sinedrio (Mc 15,43; Lc 23,50), aveva un sepolcro nuovo scavato nella roccia, nei pressi del Golgota, in Gerusalemme. Era discepolo di Gesù, però, come Nicodemo, teneva nascosto questo fatto per timore delle autorità giudee (Gv 19,38). Luca dice che aspettava il Regno di Dio e non aveva approvato la condanna di Gesù da parte del sinedrio (Lc 23,51). Nei momenti crudeli della crocifissione non teme di dare la faccia e chiede a Pilato il corpo di Gesù (nel Vangelo di Pietro 2,1; 6,23-24, un apocrifo del secolo II, Giuseppe lo sollecita prima della crocifissione). Concesso il permesso dal prefetto, tira giù il crocifisso, lo avvolge in un lenzuolo pulito e, con l’aiuto di Nicodemo, deposita Gesù nel sepolcro di sua proprietà, che mai nessuno aveva utilizzato. Dopo averlo rinchiuso con una grande pietra se ne vanno (Mt 27,57-60, Mc 15,42-46, Lc 23,50-53 e Gv 19,38-42). Fino a qui i dati storici.
A partire dal secolo IV sorsero tradizioni leggendarie di carattere fantastico in cui veniva esaltata la figura di Giuseppe. In un apocrifo del secolo V, gli Atti di Pilato, chiamato anche Vangelo di Nicodemo, si narra che i giudei disapprovano il comportamento di Giuseppe e Nicodemo a favore di Gesù e che, per questo motivo, Giuseppe viene messo in prigione. Liberato miracolosamente appare in Arimatea. Da lì ritorna a Gerusalemme e racconta come fu liberato da Gesù. Più fantasiosa è l’opera Vindicta Salvatoris (secolo IV ?), che ebbe una grande diffusione in Inghilterra e Aquitania. In questo libro si narra la marcia di Tito al comando delle sue legioni per vendicare la morte di Gesù. Al momento della conquista di Gerusalemme trova in una torre Giuseppe, che vi era stato rinchiuso perché morisse di fame. Nel frattempo, però, era stato alimentato con cibo che arrivava dal cielo.
Nei secoli XI-XIII, la leggenda su Giuseppe di Arimatea fu colorita di nuovi dettagli nelle isole britanniche e in Francia, innestandosi nel ciclo del santo Graal e del re Artù. Secondo una di queste leggende, Giuseppe lavò il corpo di Gesù e raccolse l’acqua e il sangue in un recipiente. Dopo, Giuseppe e Nicodemo ne divisero il contenuto (vedere la domanda Che cosa è il santo Graal?). Altre leggende dicono che Giuseppe, portando questo reliquiario, evangelizzò la Francia (alcuni racconti dicono che sarebbe sbarcato a Marsiglia con Marta, Maria e Lazzaro), la Spagna (dove San Giacomo lo avrebbe consacrato vescovo), il Portogallo e l’Inghilterra. In questa ultima regione, la figura di Giuseppe divenne molto popolare. La leggenda ne fa il fondatore della prima chiesa sul suolo britannico, in Glastonbury Tor, dove, mentre stava dormendo, dal suo bastone pastorale sarebbero usciti radici e fiorì. Glastonbury Abbey divenne un luogo di peregrinazione fino a che questa tradizione fu eliminata con la Riforma nel 1539. In Francia, una leggenda del secolo IX riferisce che il patriarca Fortunato di Gerusalemme, ai tempi di Carlo Magno, fuggì in occidente portandosi le ossa di Giuseppe di Arimatea, fino ad arrivare al monastero di Moyenmoutier, dove arrivò ad essere abate.
Tutte queste leggende, senza alcun fondamento storico, mostrano l’importanza che si dava ai primi discepoli di Gesù. Lo sviluppo di questi racconti può essere legato a polemiche circostanziali di alcune regioni (come Inghilterra e Francia) con Roma. Sarebbe cioè un tentativo di dimostrare che determinate regioni erano state evangelizzate da discepoli di Gesù e non da missionari inviati da Roma. In qualsiasi caso, non ha niente a che vedere con la verità storica.

35. Come si spiega la resurrezione di Gesù?
La resurrezione di Cristo è un avvenimento reale che ebbe manifestazioni storicamente comprovate. Gli Apostoli dettero testimonianza di quello che avevano visto e udito. Verso l’anno 57 San Paolo scrive ai Corinzi: “Perché vi trasmisi in primo luogo lo stesso che io ricevetti: che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito e che resuscitò il terzo giorno, secondo le Scritture; e che apparì a Cefa, e dopo ai dodici” (1 Co 15, 3-5).
Quando ci avviciniamo a questi fatti per cercare il più obbiettivamente possibile la verità di quello che successe, può sorgere una domanda: da dove deriva l’affermazione che Gesù è resuscitato? È una manipolazione della realtà che ha avuto un’eco straordinaria nella storia umana, o è un fatto reale che continua a risultarci così sorprendente e incredibile così come risultò allora ai suoi storditi discepoli?
A queste domande è possibile cercare una risposta ragionevole indagando su quali potevano essere le credenze di quegli uomini sulla vita dopo la morte, per valutare se l’idea di una resurrezione come quella che raccontavano fosse una possibilità logica nei loro schemi mentali.
Per cominciare, nel mondo greco ci sono riferimenti a una vita dopo la morte, però con alcune caratteristiche singolari. L’Ade, motivo ricorrente già dai poemi omerici, è il domicilio della morte, un mondo di ombre che è come un vago ricordo della dimora dei viventi. Però Omero mai immaginò che nella realtà fosse possibile un ritorno dall’Ade. Platone, da una prospettiva diversa, aveva speculato attorno alla reincarnazione, ma non pensò come qualcosa reale una rivitalizzazione del proprio corpo, una volta morto. Cioè a dire, sebbene si parlasse a volte della vita dopo la morte, mai veniva in mente l’idea della resurrezione, cioè a dire di un ritorno alla vita corporale nel mondo presente da parte di qualcuno.
Nel giudaismo la situazione è in parte diversa e in parte comune. Lo sheol di cui parla l’Antico Testamento e altri testi giudei antichi non è molto diverso dell’Ade omerico. Lì la gente è come addormentata. Però, a differenza della concezione greca, ci sono porte aperte alla speranza. Il Signore è l’unico Dio, tanto dei vivi come dei morti, con potere tanto nel mondo di sopra come nello sheol. È possibile un trionfo sulla morte. Nella tradizione giudaica si manifestano alcune credenze in una certa resurrezione, almeno da parte di alcuni. Si attende inoltre l’arrivo del Messia, ma entrambi gli avvenimenti non appaiono collegati. Per qualsiasi giudeo contemporaneo di Gesù si tratta, almeno di principio, di due questioni teologiche che si muovono in ambiti molto diversi. Si confida nel fatto che il Messia sconfiggerà i nemici dei Signore, ristabilirà in tutto il suo splendore e purezza il culto del tempio, stabilirà il dominio del Signore sul mondo, però mai si pensa che risusciterà dopo la sua morte: è qualcosa che non passava proprio nella immaginazione di un giudeo pio e istruito.
Rubare il suo corpo e inventare che fosse resuscitato con quel corpo, per dimostrare così che era il messia, risulta impensabile. Nel giorno di Pentecoste, secondo quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli, Pietro afferma che “Dio lo resuscitò rompendo i vincoli della morte”, e in conseguenza conclude: “Sappia con sicurezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36).
La spiegazione di tali affermazioni è che gli Apostoli avevano contemplato qualcosa che mai avrebbero immaginato e che, malgrado le loro perplessità e le burle che con ragione supponevano andassero a suscitare, si vedevano in dovere di testimoniare.