"A me lo avete fatto"
Le opere di misericordia corporali
Autore: Don Carlos Ayxelà
“A me lo avete fatto”: le opere di misericordia corporali
In questo articolo si tratta delle opere di misericordia corporale suggerite da Gesù. Un cristiano non può disinteressarsi delle necessità degli altri, anche se sconosciuti, perché in loro c’è Cristo che ci chiede aiuto.
Il nostro Dio non si è limitato a dire che ci ama. Egli stesso ci ha plasmati «con polvere del suolo»[1]; «sono state le mani di Dio che ci hanno creato: il Dio artigiano»[2]. Ci ha creati a sua immagine e somiglianza, e ha persino voluto farsi «uno di noi»[3]: il Verbo si è fatto carne, ha lavorato con le sue mani, ha caricato sulle proprie spalle tutte le miserie di secoli, e ha voluto conservare per tutta l’eternità le piaghe della sua passione, come segno permanente del suo amore fedele. Per tutto questo, non soltanto noi cristiani ci chiamiamo figli di Dio, ma «lo siamo realmente»[4]: per Dio, e per i suoi figli, l’amore «non potrà mai essere una parola astratta. Per sua stessa natura è vita concreta: intenzioni, atteggiamenti, comportamenti che si verificano nell’agire quotidiano»[5]. Così san Josemaría metteva in guardia dalla «la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l’urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie. Direi che chi ha questa mentalità non ha ancora compreso che cosa significa che il Figlio di Dio si sia incarnato, abbia preso corpo, anima e voce umana, abbia condiviso il nostro destino, fino a sperimentare la suprema dilacerazione della morte»[6].
Chiamati alla misericordia
Nella scena del giudizio finale che Gesù presenta nel Vangelo, sia i giusti che gli ingiusti si domandano perplessi, e domandano al Signore, quando lo hanno veduto affamato, nudo, malato e lo hanno soccorso o non lo hanno soccorso[7]. E il Signore risponde loro: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Non è un bel modo di dire, come se il Signore ci incoraggiasse solamente a ricordarci di Lui e a seguire il suo esempio di misericordia; Gesù dice solennemente: «in verità vi dico […], l’avete fatto a me». Egli «si è unito in certo modo a ogni uomo»[8], perché ha portato l’amore fino in fondo: «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Essere cristiano significa entrare in questa totalità dell’amore di Dio, lasciarsi attirare dall’ «amore sempre più grande di Dio»[9].
In questo passo del Vangelo il Signore parla di fame, sete, pellegrinaggio, nudità, malattia e carcere[10]. Le opere di misericordia seguono la stessa falsariga; i Padri della Chiesa le hanno commentate spesso, e hanno iniziato a sdoppiarle in opere corporali e spirituali, ovviamente senza la pretesa di comprendere tutte le situazioni di indigenza. Con il passare dei secoli, alle prime si è aggiunto il dovere di seppellire i morti, con la corrispondente opera spirituale: la preghiera per i vivi e per i morti. Nei prossimi due articoli esamineremo queste opere nelle quali la sapienza cristiana ha sintetizzato la nostra vocazione alla misericordia. Perché di vocazione si tratta – e vocazione universale –, quando il Signore dice ai suoi discepoli di tutti i tempi: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36). Le opere di misericordia rispondono a questa chiamata. «Sarebbe bello che le imparaste a memoria – suggeriva il Papa non molto tempo fa –, così è più facile farle!»[11].
Solidarietà in diretta
Quando, nel ripassare le opere di misericordia corporali, ci guardiamo attorno, in parecchie parti del mondo constateremo forse in un primo momento che non sono frequenti le situazioni per esercitarle. Nei secoli passati la vita umana era molto più esposta alle forze della natura, all’arbitrio degli uomini e alla fragilità del corpo; oggi, invece, in molti paesi raramente si presenterà – salvo nel caso di emergenze o catastrofi naturali – la necessità immediata di dare sepoltura a un defunto o di dare rifugio a un senzatetto, perché gli organismi statali provvedono a questo servizio. E tuttavia non sono pochi i luoghi della terra nei quali ognuna di queste opere di misericordia è all’ordine del giorno. Anche nei paesi più sviluppati, insieme a efficienti servizi di assistenza sociale, esistono molte situazioni di grande precarietà materiale: il cosiddetto quarto mondo.
Tutti noi dobbiamo prendere coscienza di queste realtà e pensare in che misura possiamo contribuire a porvi rimedio. «Dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo guardare attorno a noi e riconoscere gli appelli che Dio ci rivolge attraverso il nostro prossimo. Non possiamo volgere le spalle alla gente e rinchiuderci nel nostro piccolo mondo. Ben altro è lo stile di vita di Gesù. I Vangeli ci parlano insistentemente della sua misericordia, della sua partecipazione al dolore e alle necessità degli altri»[12].
Un primo gesto delle opere di misericordia corporale è la solidarietà con tutti quelli che soffrono, anche se non li conosciamo: «Non soltanto dobbiamo preoccuparci dei problemi di ognuno, ma dobbiamo essere pienamente solidali con gli altri cittadini nei casi di calamità e sciagure pubbliche, che ci riguardano nello stesso modo»[13]. A prima vista potrebbe sembrare che questo atteggiamento sia un sentimento lodevole ma inutile. Eppure tale solidarietà è l’humus nel quale può crescere con vigore la misericordia. Dal latino solidum, il termine solidarietà denota la convinzione di appartenere a un tutto, in modo tale che sentiamo come nostre le vicissitudini altrui. Anche se questo termine ha senso già a livello semplicemente umano, per un cristiano acquista tutta la sua forza. «Non appartenete a voi stessi», dice san Paolo ai Corinti (1 Cor 6, 19). Una tale affermazione potrebbe apparire inquietante all’uomo contemporaneo, come una minaccia alla sua autonomia. E tuttavia, quello che ci dice è semplicemente, secondo un’espressione frequente negli ultimi pontefici, che l’umanità, e in particolare la Chiesa, è una «grande famiglia»[14].
«Perseverate nell’amore fraterno. […] Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, in quanto anche voi siete in un corpo mortale» (Eb 13, 1.3). Anche se non è possibile essere aggiornati sulle contrarietà di ogni uomo, né è possibile porre materialmente rimedio a tutti questi problemi, un cristiano non se ne disinteressa, perché li ama con il cuore di Dio: Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3, 20). Quando nella Santa Messa chiediamo al Padre che, nutriti «del corpo e sangue del tuo Figlio e nella pienezza dello Spirito Santo, diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito»[15], aspiriamo alla pienezza di ciò che già è una realtà che cresce silenziosamente, «come un bosco, dove gli alberi buoni apportano solidarietà, comunione, fiducia, sostegno, sicurezza, sobrietà felice, amicizia»[16].
La solidarietà in un cristiano si concretizza, dunque, in primo luogo nella preghiera per coloro che soffrono, anche se ci sono sconosciuti. La maggior parte delle volte non vedremo i frutti della nostra preghiera, fatta anche di lavoro e sacrifici, ma siamo convinti che «tutto ciò circola attraverso il mondo come una forza di vita»[17]. Per questo stesso motivo il Messale romano riunisce un gran numero di Messe per varie necessità, che riguardano tutte le opere di misericordia. La preghiera dei fedeli alla fine della liturgia della Parola risveglia anche in noi «l’impegno per tutte le chiese» e per tutti gli uomini, e così possiamo dire con san Paolo: «Chi è debole, che io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11, 29).
La solidarietà si dimostra anche in «semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo» nei confronti del «mondo del consumo esasperato», che «è al tempo stesso il mondo del maltrattamento della vita in ogni sua forma»[18]. Anticamente in molte famiglie c’era l’abitudine di baciare il pane quando cadeva a terra; in tal modo si riconosceva la fatica che costava ottenerlo e si ringraziava per avere la possibilità di avere qualcosa da portare alla bocca. «Dar da mangiare agli affamati» si può concretizzare, dunque, nel mangiare quello che ci mettono davanti, evitando capricci superflui, utilizzando con creatività gli avanzi del pranzo; «dar da bere agli assetati» forse ci porterà a evitare l’inutile spreco dell’acqua, che in tanti luoghi è un bene assai scarso[19]; «vestire gli ignudi» si realizzerà anche nell’aver cura degli indumenti, passarli da un fratello all’altro, senza badare all’ultimo grido della moda… Da queste piccole – o non tanto piccole – rinunce potranno uscire elemosine capaci di dare un po’ di gioia ai più bisognosi, come insegnava san Josemaría ai giovani; o anche donativi per venire incontro alle emergenze umanitarie. Qualche mese fa il Papa ci diceva a tal proposito che, «se il giubileo non arriva alle tasche, non è un vero giubileo»[20].
L’ospitalità: non abbandonare il debole
I genitori, prima di tutto con il loro esempio, possono fare molto per «insegnare ai figli a vivere così […]; insegnare loro a superare l’egoismo e a usare parte del proprio tempo generosamente al servizio delle persone meno fortunate, partecipando a lavori, adeguati alla loro età, in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà umana e divina»[21]. Dato che la carità è ordinata – perché sarebbe una falsa carità dedicarsi a chi vive lontano e disinteressarsi di chi ci sta vicino –, abitualmente l’egoismo si comincia a sconfiggere in casa propria. Tutti, piccoli e grandi, dobbiamo imparare a levare lo sguardo per scoprire i piccoli bisogni quotidiani di coloro che vivono con noi. In particolare, è necessario stare con i parenti e gli amici colpiti da qualche malattia, senza considerare le loro sofferenze semplicemente come un problema da risolvere soltanto con accorgimenti tecnici. «“Non mi respingere nel tempo della vecchiaia, non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70[71], 9). È il grido dell’anziano, che teme l’oblio e il disprezzo»[22]. Sono molti i progressi della scienza che permettono di migliorare le condizioni dei malati, ma nessuno di essi può sostituire la vicinanza umana di chi, invece di considerarli un peso, scorge in essi «Gesù che passa», Gesù che ha bisogno delle nostre cure. «I malati sono Lui»[23], ha scritto san Josemaría, con un’espressione audace, che rispecchia la chiamata esigente del Signore: «in verità vi dico […], l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). «Quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». Certe volte può costare vedere Dio dietro la persona che soffre, perché costui è di malumore o incollerito, o perché dimostra di essere esigente o egoista. Però la persona malata, proprio perché è debole, è ancora più meritevole di essere amata. Una luce divina illumina l’aspetto dell’uomo malato che somiglia a Cristo dolente, tanto sfigurato che «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere» (Is 53, 2).
L’assistenza dei malati, degli anziani, dei moribondi, richiede perciò buone dosi di pazienza e di generosità con il nostro tempo, specialmente quando si tratta di malattie che si prolungano nel tempo. Il buon samaritano «aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare»[24]. Però a coloro che, come lui, fanno dell’assistenza ai malati un compito irrinunciabile, senza rifugiarsi nelle gelide soluzioni che in fin dei conti consistono nel mettere da parte coloro che umanamente possono dare poco, il Signore dice: «Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13, 17). A coloro che hanno saputo prendersi cura dei deboli, Dio riserva una beatitudine piena di tenerezza: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25, 34).
«La misura dell’umanità – ha scritto Benedetto XVI – si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e con il sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana»[25]. Per questo i malati ci restituiscono quell’umanità che a volte il ritmo agitato del mondo spazza via: ci ricordano che le persone sono più importanti delle cose, che l’essere è più importante della funzione.
Alcune persone, perché Dio le ha portare per questa strada o perché lo hanno scelto da sé, finiscono per dedicare una parte importante delle loro giornate a prendersi cura di coloro che soffrono, senza aspettarsi che qualcuno riconosca il loro lavoro. Anche se non appaiono sulle guide turistiche, fanno parte dell’autentico patrimonio dell’umanità, perché insegnano a tutti noi che siamo nel mondo a prenderci cura dei più fragili[26]: questo è il significato perenne dell’ospitalità, dell’accoglienza.
Raramente toccherà a noi seppellire un morto, ma possiamo fare compagnia a lui e ai suoi familiari negli ultimi momenti della sua vita. La partecipazione a un funerale è sempre più che un’attenzione sociale. Se andiamo al fondo di questi gesti, ci accorgeremo che rivelano il polso della genuina umanità, che si apre all’eternità. «Anche qui la misericordia dona la pace a chi parte e a chi resta, facendoci sentire che Dio è più grande della morte, e che rimanendo in Lui anche l’ultimo distacco è un “arrivederci”»[27].
La creatività: lavorare con quello che c’è
Famiglie che emigrano fuggendo dalla guerra, persone che non lavorano, «prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna»[28], come la tossicodipendenza, l’edonismo, la ludopatia… Sono molte le necessità materiali che possiamo individuare attorno a noi. Possiamo non sapere da dove e come cominciare; e tuttavia l’esperienza dimostra che molte piccole iniziative, volte a risolvere una carenza assai vicina a noi, iniziate con ciò che si ha, e con chi può – la maggior parte delle volte con più buonumore e creatività che tempo, risorse economiche o agevolazioni da parte degli enti pubblici –, finiscono per fare molto bene, perché la gratuità genera la gratitudine, motore di nuove iniziative: la misericordia trova misericordia[29], la contagia. Si adempie la parabola evangelica del granellino di senapa: «è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Mt 13, 32).
Le necessità di ogni luogo e le possibilità di ciascuno variano molto. La cosa migliore è puntare su qualcosa a portata di mano, e mettersi a lavorare. Con il tempo – spesso meno di quel che pensiamo –, si apriranno porte che si riteneva non dovessero aprirsi mai. E allora si arriva ai carcerati, ai prigionieri di tante altre avversità, che sono abbandonati come nella cloaca di un mondo che li ha messi al bando quando hanno fatto un passo falso.
C’è chi, per esempio, è stracarico di lavoro, e anche se non credeva di aver tempo per queste attività, scopre il modo di dedicare una parte del suo impegno a realtà capaci di occupare altri e li tira fuori dalla fossa di chi vive senza una meta. Nascono sinergie: uno dedica poco tempo, ma ha la capacità di gestire e ha relazioni; mentre un altro, con minori capacità organizzative, dispone di più ore di lavoro. Per i pensionati, per esempio, si apre così il panorama di una seconda gioventù, nella quale possono trasmettere gran parte della loro esperienza di vita: «indipendentemente dal proprio livello d’istruzione o di ricchezza, ognuno possiede qualcosa per contribuire alla costruzione di una civiltà più giusta e fraterna. In sostanza, credo che tutti possono imparare molto dall’esempio di generosità e di solidarietà delle persone più semplici; quella sapienza generosa che sa “aggiungere più acqua ai fagioli”, della quale il nostro mondo ha tanto bisogno»[30].
* * *
Nell’evocare i suoi primi anni di sacerdote a Madrid, nostro Padre ricordava che veniva spesso «in questi luoghi non ancora urbanizzati, ad asciugare lacrime, a soccorrere chi aveva bisogno di aiuto, a trattare con affetto i bambini, i vecchi, i malati; ed ero contraccambiato con affetto… e anche con qualche sassata»[31]. E pensava alle iniziative che oggi, insieme a tante altre promosse dai cristiani e da altre persone, sono una realtà in molte parti del mondo, e che devono continuare ad aumentare «quasi fluvium pacis»[32], come un fiume di pace: «Oggi per me tutto questo è un sogno, un sogno benedetto, che è divenuto vita in tanti quartieri periferici delle grandi città, dove trattiamo la gente con affetto, guardandoli negli occhi, di fronte, perché siamo tutti uguali»[33].
Carlos Ayxelá
[1] Gn 2, 7; Sap 7, 1.
[2] Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 12-XI-2013.
[3] Conc. Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 7-XII-1965, n. 22.
[4] 1 Gv 3, 1.
[5] Papa Francesco, Bolla Misericordiae vultus, 11-IV-2015, n. 9.
[6] È Gesù che passa, 98.
[7] Cfr. Mt 25, 36.44.
[8] Conc. Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 7-XII-1965, n. 22.
[9] Papa Francesco, Es. Ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 6; Cfr. San Giovanni Paolo II, Enc. Redemptor hominis, 4-III-1979, n. 9.
[10] Cfr. Mt 25, 35-36.
[11] Papa Francesco, Angelus, 13-III-2016.
[12] È Gesù che passa, n. 146.
[13] Lettera 14-II-1950, n. 20; citato da E. Burkhart y J. Lόpez, Vida cotidana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, vol. II, Rialp, Madrid 2011, p. 314.
[14] Cfr., per es., Beato Paolo VI, Messaggio all’Assemblea delle Nazioni Unite, 24-V-1978; San Giovanni Paolo II, Enc. Dives in misericordia, 30-XI-1980, nn. 4.12; Benedetto XVI, Messaggio per la XLI Giornata mondiale della pace, 8-XII-2007.
[15] Messale Romano, Preghiera Eucaristica III.
[16] Papa Francesco, Discorso, 28-XI-2014.
[17] Papa Francesco, Es. Ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 279.
[18] Papa Francesco, Enc. Laudato si’, 24-V-2015, n. 230.
[19] Cfr. ibid., 27-31.
[20] Papa Francesco, Udienza, 10-II-2016.
[21] Colloqui, n. 111.
[22] Papa Francesco, Es. Ap. Amoris laetitia, 19-III-2016, n. 191.
[23] Cammino, n. 419.
[24] Papa Francesco, Udienza, 27-IV-2016.
[25] Benedetto XVI, Enc. Spe salvi, 30-XI-2007, n. 38.
[26] Cfr. Papa Francesco, Es. Ap. Evangelii gaudium, 24-XI-2013, n. 209.
[27] Papa Francesco, Udienza, 10-IX-2014.
[28] Papa Francesco, Bolla Misericordiae vultus, 11-IV-2015, n. 16.
[29] Cfr. Mt 5, 7.
[30] Papa Francesco, Videomessaggio, 1-I-2015.
[31] San Josemaría, Appunti di una riunione di famiglia, 1-X-1967 (citato in S. Bernal, Monsignor Josemaría Escrivá. Appunti sulla vita del Fondatore dell’Opus Dei, Ares, Milano 1977, p. 189).
[32] Is 66, 12.
[33] San Josemaría, Appunti di una riunione di famiglia, 1-X-1967 (citato in S. Bernal, Monsignor Josemaría Escrivá. Appunti sulla vita del Fondatore dell’Opus Dei, Ares, Milano 1977, p. 189).
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