Agire per Dio è meglio che pensare a Dio
Come pregare sempre, cap II: i principi
Autore: Padre Rodolphe Plus S.J.
In un eccellente opuscolo intitolato Regole per rassicurare nei loro dubbi le anime devote, il barnabita Quadrupani osserva: «Agire per Dio è meglio che pensare a Dio».
Bene intesa, questa proposizione è straordinariamente opportuna. Non si tratta ora di decidere se sia più perfetta la vita contemplativa o la vita attiva; la questione è da tempo risolta, e del resto esula completamente dal nostro studio.
Ecco, invece, il punto: in una vita qualsiasi – poco importa se contemplativa o no, se nel chiostro o nel mondo – oltre al tempo che dobbiamo consacrare agli esercizi di pietà, che cosa chiede Dio? Di pensare a Lui o piuttosto – e innanzi tutto – di agire per Lui? Dio esige la nostra mente o il nostro cuore? La nostra memoria o la nostra volontà?
Senza alcun dubbio la nostra volontà. Per prima cosa – a parte il tempo della preghiera in cui il nostro «agire per Dio» consiste nel «pensare a Lui» – Dio ci chiede in ogni occasione di agire per Lui, evitando anche, se necessario, di pensare a Lui qualora ciò recasse detrimento all’«agire per Lui». E il caso non è affatto ipotetico.Una madre di famiglia è carica di doveri di casa, con figli numerosi e ancora piccoli, e scarso aiuto da altri; è necessario quindi che provveda di persona al buon andamento della casa. Male istruita circa i suoi doveri, ecco che al mattino si reca a messa e s’intrattiene in lunghe e ferventi preghiere, quando il buon senso esigerebbe che restasse in casa per sbrigare le faccende domestiche.
Si trova proprio in linea con quanto Dio le chiede, con ciò che esige una prudente spiritualità?
Oppure, supponiamo che le sia possibile partecipare alla messa mattutina. Ritornata a casa, rimane tanto assorta nelle pratiche di pietà che non riesce a combinare nulla. I momenti di preghiera si moltiplicano, le orazioni o gli slanci si susseguono; moltiplicano, le orazioni o gli slanci si susseguono; ma si accumulano anche gli abiti da aggiustare, le dimenticanze e le negligenze di ogni tipo. Chi non le consiglierebbe meno esercizi di pietà e più fedeltà ai doveri di stato?
È chiaro che, nel caso in cui il dovere di stato esige da noi la preghiera, tutto lo sforzo deve essere rivolto a pensare a Dio nel miglior modo possibile.
A parte ciò, cosa richiede il dovere? Che l’azione presente sia fatta per Dio nel miglior modo possibile; che nell’agire io non ricerchi in nulla me stesso; che Dio solo sia l’oggetto ultimo a cui tendo.
Quest’ultima frase esprime, riassumendola, l’esatta teoria del «pregare sempre».
Pregare sempre non vuole assolutamente dire far seguire agli esercizi di pietà nuovi esercizi di pietà, a un rosario la recita di un piccolo ufficio, poi una lettura, un’orazione mentale e così di seguito; ma significa vivere in uno stato in cui tutto sia «elevazione dell’anima a Dio». Nessuno può, senza il rischio di impazzire rapidamente, trasformare la propria vita in una trama ininterrotta di esercizi di pietà! Tutti, invece, se non vogliono mettere troppo di umano nella loro esistenza, devono vivere facendo risalire ogni attività a Dio con la massima purezza d’intenzione.
Gli atti continui di preghiera sono impossibili; ma lo stato continuo di preghiera è sommamente desiderabile.
Ebbene, lo stato di preghiera consiste nella completa purezza d’intenzione nel corso dei doveri di stato. Non posso mantenere il pensiero incessantemente occupato da Dio, ma non devo mai avere la volontà orientata verso qualcosa di diverso da Dio, almeno come fine ultimo.
L’unione con Dio, in una forma contemporaneamente perfetta e molto facile da raggiungere, consisterà dunque nel riferire a Lui, dall’intimo della volontà, se non sempre esplicitamente, tuttavia effettivamente, tutto quello che noi facciamo.
La questione si riduce dunque a questo: come riferire a Dio, dall’intimo della volontà, tutte le nostre azioni?
È il problema della purezza dell’intenzione.
Vi sono diversi modi per indirizzare a Dio la propria intenzione:
– o pensando a Lui nel momento stesso in cui si agisce: intenzione attuale;
– oppure, senza pensarci in quell’attimo, agendo sotto l’influenza di un’intenzione precedentemente assunta e che dura ancora nel suo influsso: intenzione virtuale;
– alcuni propendono per l’opinione secondo cui l’intenzione abituale è sufficiente perché la nostra attività sia soprannaturalmente meritoria. Per il solo fatto che l’orientamento generale della vita non viene a essere capovolto da un atto positivo in senso contrario, la vita mantiene il suo corso, la sua tendenza verso Dio, il suo valore eterno.
Secondo quest’ultima ipotesi, ogni atto umano non cattivo s’incammina da sé verso Dio; è dunque un atto ascendente, un’elevazione verso Dio, un atto meritorio, che è nello stesso tempo una preghiera
Se si pretende l’intenzione virtuale, la questione rimane immutata, poiché in un’anima fervente tutta l’attività è regolata da motivi nettamente soprannaturali, e l’intenzione virtuale esiste quasi sempre.
Dunque, in una vita cristiana generosa, se si distinguono, da una parte gli atti di preghiera propriamente detti e le pie pratiche, e dall’altra le rimanenti manifestazioni coscienti dell’attività, ognuno di questi generi di azioni porta verso Dio: ciò che è formalmente preghiera, è chiaro; e ciò che formalmente non lo è, tuttavia, a buon diritto, si può considerare tale perché in accordo con la definizione di preghiera come «elevazione dell’anima a Dio».
Bossuet descrive così questa seconda forma di orazione: «È il desiderio di lodare Dio in tutte le creature e per mezzo di tutte le creature, utilizzandole bene e santificandole con quest’uso, affinché Dio sia glorificato. Buon uso della luce e delle tenebre; buon uso del bel tempo e della pioggia; buon uso del fuoco e del ghiaccio; buon uso di tutto ciò che esiste, e a maggior ragione di sé stessi, dei propri occhi, della lingua, della bocca, delle mani e dei piedi; del proprio cuore e, a maggior ragione ancora, della propria anima e della propria intelligenza…».
Altrove aggiunge: «Bisogna pregare durante il giorno, pregare durante la notte e tutte le volte che ci svegliamo; e questa continua preghiera non consiste affatto in una perpetua tensione dello spirito; ma piuttosto […], una volta recitate le abituali orazioni […], nel mantenersi il più possibile in uno stato di dipendenza da Dio, mostrandogli le nostre necessità, cioè ponendogliele davanti agli occhi, senza dir nulla. Allora, come la terra secca e inaridita sembra invocare la pioggia col solo mostrare al cielo la sua aridità, così l’anima, nello svelare a Dio i suoi bisogni sembra dire: “Signore, non occorre supplicarti: ti pregano la mia indigenza e la mia necessità” […]. In tal modo si prega senza pregare, e Dio comprende questo linguaggio».
Applicava mirabilmente questa dottrina l’anima amante che scrisse: «Ho sempre pensato che la notte la mia miglior preghiera fosse il sonno […]. Soltanto che non dormo di un sonno completo: il mio cuore veglia presso il tabernacolo e prego il mio buon Angelo di offrirne ogni battito a nostro Signore come un atto d’amore».
Sant’Agostino afferma la stessa cosa, spiegando ai fedeli di Ippona il versetto del salmo: La mia lingua celebrerà la tua giustizia, canterà la tua lode per sempre. «Se cantate un inno, voi lodate Dio (ammesso che il cuore segua le parole); quando, cessati i canti, è il momento della cena, guardatevi dagli eccessi e avrete lodato Dio. Vi ritirate per riposare? Non alzatevi per far del male e avrete sempre lodato Dio. Siete commercianti? Non frodate il prossimo e avrete lodato Dio. Siete contadini? Evitate le liti e avrete ancora lodato Dio. Ecco come, per l’innocenza delle vostre opere, sarete sempre in grado di lodare il Signore».
Riassumendo: è preghiera tutto ciò che sale verso l’Altissimo per adorarlo, ringraziarlo, domandargli perdono e implorare le sue grazie; tutto ciò che sale a Lui, sia tramite la preghiera esplicita e formale – gli atti di preghiera – , sia per mezzo della preghiera implicita e virtuale – il resto delle nostre attività soprannaturalizzate, cioè il dovere di stato soprannaturalmente compreso e vissuto -.
In altri termini: possiamo pregare o con il pensiero o con la volontà. Con il pensiero, e abbiamo gli esercizi di pietà; con la volontà, cioè con la nostra intera attività che sale verso Dio, e abbiamo i nostri obblighi ordinari eseguiti in modo soprannaturale
Questo è lo stato di preghiera: il culto del nostro dovere di stato.
La teoria è chiara; le conseguenze non sono meno evidenti.
Credere che durante le proprie attività, qualora siano pienamente soprannaturali, non viviamo uniti a Dio perché non pensiamo a Lui, è un errore grossolano. Diremo nel capitolo seguente come sia possibile, e augurabile, unire al proprio «agire per Dio» il «pensare a Dio». Ma bisogna, anzi tutto, ben comprendere che il «pensare a Dio» attuale non è per sé richiesto per agire soprannaturalmente.
Altrimenti bisognerebbe ammettere che solo gli atti ai quali si unisce esplicitamente un gesto formale di preghiera, permettono di «innalzarci a Dio»; il che ridurrebbe la nostra attività soprannaturale e orante ai soli «atti» di pietà. È fin troppo evidente che non possiamo rimanere tutto il giorno in un angolo, con le mani giunte, a pensare al Signore; del resto ciò non è neppure richiesto.
Più opportunamente, qualche volta, come abbiamo messo in chiaro, gli atti formali di preghiera dovranno cedere il passo a un obbligo più urgente. Senz’altro e innanzi tutto, ai doveri di stato.
La vera unione con Dio risulta dall’unione della nostra volontà con quella di Dio. Se la volontà di Dio o il suo desiderio, prudentemente valutato con una saggia riflessione e secondo un programma approvato, richiede che ora io preghi, il mio dovere è pregare. Se invece richiede che io abbandoni la preghiera per attendere ad altri compiti molto impegnativi, che non lasciano nel frattempo alcun riposo alla mente per salvaguardare l’unione del pensiero con Dio, la mia unione con Lui è tuttavia perfetta.
La santità si trova esattamente nell’unione della nostra volontà con il divino volere.
Così diceva di sé stesso nostro Signore: Il mio nutrimento (cioè la sostanza, l’essenza della mia vita, la mia ragion d’essere e d’agire) è fare la volontà del Padre. E Maria, la creatura più simile a Cristo, più «cristiana» nel senso profondo del termine, non dirà altrimenti: Ecce ancilla Domini.
Noi non abbiamo altro da fare: agire in tutto seguendo la volontà divina. Non ci è domandato di imitare, della vita di Cristo, la nascita in una mangiatoia o la crocifissione, ma di riprodurre totalmente la disposizione fondamentale della sua intera esistenza, cioè l’assoluta e radicale sottomissione a tutti i voleri e desideri del Padre.
Il Cristo è essenzialmente questo: una persona uguale al Padre che si sottomette per potere, con la sua obbedienza, riparare la disubbidienza originale. Come Verbo era uguale al Padre, come incarnato sarà inferiore.
Factus oboediens, oboediens usque ad mortem. Obbediente, obbediente fino alla morte: così si definisce tutta la sua vita. Per trent’anni ha obbedito, erat subditus: era sottomesso. Per il resto della vita, obbedì ancora. Christus non sibi placuit: il Cristo non ha mai seguito il proprio gusto; sarebbe stato far tornare a suo profitto qualche cosa di una attività che aveva il Padre per unico centro: «Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt, oportet me esse?». «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 3, 49). Si dedica, infatti, alle «cose del Padre» fino alla tragedia dell’agonia e del Calvario.
Non mea voluntas sed tua fiat. Non la mia volontà, ma la tua! Fino al momento in cui, risalendo al Padre, Gesù può smettere di obbedire: Consummatum est. Ho fatto tutto quello che dovevo fare.
Occorre sempre ritornare su questo concetto fondamentale. Per realizzare l’ideale cristiano, ciascuno di noi deve plasmare la propria vita su quella di nostro Signore; non agire mai prendendo i capricci personali per fine ultimo, ma avere sempre e unicamente di mira, in modo più o meno formale, ma effettivo, le «cose del Padre», la volontà di Dio.
Se tale è «il Cristo», ogni cristiano – per meritare realmente il titolo di «alter Christus» – dovrà trasformarsi in una copia di quel «supremo Obbediente» che fu il Maestro, talmente sottomesso alla volontà e ai desideri del Padre da vedere in ogni cosa soltanto ciò che il Padre domanda. «Di me è scritto – dice un salmo messianico – che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero» (Sal 39, 8-9). Ogni cristiano dovrebbe attuare per proprio conto tale ideale di vita di Gesù Salvatore.
Ma simile ideale, per verificarsi, suppone la morte dell’istintivo affanno naturale e dei propri gusti disordinati. Suppone l’«io» relegato all’ultimo posto, in modo tale che non abbia da dire sul governo della nostra vita o che parli solo dopo Dio e sempre sotto la sua luce; l’«io» ridotto a una ragionevole dipendenza, a quell’obbedienza interiore che è l’imitazione perfetta del Salvatore: «Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem eius qui misit me. Quae placita sunt ei, facio semper». «Non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. Io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 5, 30; 8, 29). È il consiglio che dava san Paolo a chi voleva veramente imitare Gesù crocifisso. Crocifiggersi con Gesù Cristo non consiste nel piantarsi dei chiodi nelle mani e nei piedi, ma nel piegarsi a questa rinuncia assoluta, che vale tutti i patiboli.
Agire a nostro capriccio, prendendo noi stessi come fine ultimo, non significa certo compiere un’azione «ascendente», ma un’azione «discendente»; significa ripiegare su sé stessi e sulla propria nullità qualche cosa del proprio agire, considerarsi come centro, uscire dalla perfetta imitazione di Gesù Cristo e cessare di essere uniti alla volontà di Dio; significa, insomma, tralasciare di pregare.
Questa dottrina non è altro che la messa in pratica del fondamento che sant’Ignazio pone all’inizio del suo libretto degli Esercizi; la stessa cosa ripetono tutti i catechismi quando precisano i nostri doveri verso Dio: «L’uomo è creato per Dio Dunque la sua vita, il suo essere, la sua attività devono avere solo Dio come fine ultimo». In tutto ciò che faccio, devo immettere il meno possibile di me stesso; non di me stesso come causa attiva – anzi, non si esegue mai abbastanza bene quello che si fa – ma di me stesso come fine ultimo del mio agire. E questa elevazione di tutta la mia attività verso Dio, senza mescolarvi il mio «io», cos’è se non la «preghiera» perfetta e l’omaggio perfetto reso, mediante la mia vita, a Colui che ha diritto all’omaggio assoluto di tutto ciò che esiste? Come si vede, fin dalle prime riflessioni del suo libretto, sant’Ignazio prepara l’esercitante all’unione con Dio, concepita nel modo più profondo.
Altra osservazione: la preghiera perfetta della Chiesa è l’offerta del pane consacrato. Ora, nell’Ostia, non c’è più nulla di pane; tutto è «Gesù Cristo». Similmente, la mia vita sarà perfetta orazione se in me non vi sarà più mescolanza, più nulla del mio «io», se tutto sarà «Gesù Cristo», cioè sottomissione piena ai voleri del Padre.
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