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Amore umano e vita cristiana - Il bene dei figli: la paternità - II

Testi sull'amore nel fidanzamento e nel matrimonio

Autore: José Manuel Martín Q.

L’articolo precedente era centrato sulla grandezza di ogni persona e, più
esattamente, di coloro che sono protagonisti nella nascita e nello sviluppo
dell’essere umano.
Ora, volendo restringere il tema alla procreazione, conviene porre in
primissimo piano la realtà del figlio, che di solito determina i diversi
comportamenti al riguardo.
Così, nell’atteggiamento incondizionato a favore della vita umana è
presente la capacità di rendersi conto che il figlio – per la sua sublime
condizione personale e al di là di qualsiasi altra circostanza – gode di un
valore inestimabile, di una grande indiscutibile bontà costitutiva.
Analogamente, nel caso del ripudio di una nuova vita, si nasconde,
sottilmente e inconsapevolmente, la considerazione – imprecisa, vaga,
ma operativa – che un figlio sia un male.
Una convinzione la cui enunciazione esplicita provoca stupore e rifiuto,
ma facile da comprendere se consideriamo i valori che dominano la
nostra cultura.
Un attento sguardo a ciò che è reale permette di distinguere tre tipi di
beni o, meglio, tre aspetti o dimensioni del bene.
I beni utili sono quelli di infima categoria; la loro bontà sta doppiamente
al di fuori di se stessi: nella realtà per cui servono e, in maniera definitiva,
in coloro che vogliono ciò che questi strumenti rendono possibile.
Da qui che, senza subire alcuna pur minima alterazione, smettono di
valere quando non esiste più – o quando nessuno vuole – ciò a cui
servivano: senza cambiare né deteriorarsi, il migliore dei cacciavite
perderebbe ogni sua utilità se venissero a mancare i manufatti tenuti
assieme dalle viti; e tutto il denaro del mondo non varrebbe nulla se
nessuno fosse disposto a muovere un dito per ottenerlo o per scambiarlo.
Anche i beni dilettevoli godono di scarsa bontà, perché neppure loro
riescono ad averla in sé: alla fin fine, il loro valore dipende dal fatto che
qualcuno li voglia e decida di servirsene.
Per questo, la bontà di ciò che è apprezzato solamente a causa del piacere o godimento che genera, svanisce se nessuno vuole goderne.
In sostanza, tutte le cose utili o piacevoli non sono buone in sé e per sé. Il
loro valore sta, piuttosto, nelle persone che le richiedono, in funzione
delle quali esse valgono o sono buone: si tratta di una bontà relativa,
dipendente.
La persona, invece, è un bene degno o assoluto. La sua bontà ha radici in
se stessa, nel suo essere persona, con una completa indipendenza da
qualunque circostanza: età, sesso, salute, comportamento, efficacia,
posizione sociale.
Di conseguenza, dev’essere amata e apprezzata : per se stessa o in
assoluto, al di là di ogni altra condizione.
Non c’è dubbio che i beni degni possono generare soddisfazione o
risultare utili, ma non è questa la loro bontà fondamentale o primaria.
L’amicizia, per esempio, è sorgente di gioie incomparabili e produce molti
benefici. Però non è soprattutto e radicalmente buona per il piacere e i
servizi che genera, ma si pone ad anni luce al di sopra di essi.
Si potrebbe dire che in sé e per sé è così straordinariamente buona che
apporta anche soddisfazioni e benefici che nessun’altra realtà può dare.
Però avere amici soltanto per questi vantaggi aggiuntivi degrada o
prostituisce l’amicizia: la relativizza, dimenticando che la sua è una bontà
assoluta.
Tuttavia, nella nostra civiltà i beni relativi si sono imposti a tal punto che
la nozione stessa di bene degno o assoluto è scomparsa.
Anno dopo anno i miei alunni del primo anno di filosofia discutono se
essa è utile o meno, ma finiscono con il concordare a favore della sua
utilità. La loro sorpresa è massima quando spiego loro che, proprio per
manifestare la sua superiorità e nobiltà, Aristotele dichiara la filosofia
radicalmente inutile: termine che, per farmi capire, traduco come sovrautile,
cercando di riparare all’assenza di significato di “degno”.
In modo simile, dopo aver spiegato loro nei dettagli che la filosofia non si
subordina a uno scopo successivo, che il filosofo è alla ricerca del sapere
per il sapere, quasi tutti lo traducono affermando che il filosofo conosce
per il piacere di sapere.
Come molti nostri contemporanei, a volte sembrano incapaci di concepire
ciò che è buono in sé e per sé, e non in virtù del beneficio o soddisfazione
che genera. In una situazione del genere, non essendo possibile
comprenderla, la bontà di ciò che è degno “non esiste”.
Per ciò che riguarda la procreazione, il problema sorge quando, senza
piena coscienza, la bontà del figlio tende a essere misurata con i
parametri dei beni inferiori, cosa per nulla infrequente.
Durante gli interventi pubblici, quando dico che ho sette figli, non
raramente qualcuno del pubblico mi domanda: «A te i bambini piacciono
molto, dunque». Di solito faccio una pausa, lo guardo fissamente per
alcuni secondi e poi dico in modo amabile: «Se mi piacciono…; per la
verità se debbo dire che cosa davvero mi piace allora dico il prosciutto. I
miei figli li amo con tutta l’anima».
La reazione di solito è cordiale, e non mi costa troppo far loro capire che
un figlio – una persona – non deve mai diventare una questione di gusti,
capricci o desideri soggettivi.
Il punto è che ciò che è degno sta anni luce al di sopra di ciò che è
piacevole e di ciò che è utile. A rigore, si tratta di beni incommensurabili,
che non si dovrebbero mai pesare sulla stessa bilancia. Ciò che è degno si giustifica da se stesso e per se stesso dev’essere amato; ciò che è utile e piacevole, no.
Di conseguenza, ancor più che conoscere i criteri che reggono la
procreazione responsabile – che indubbiamente bisogna conoscere –,
oggi appare indispensabile perfezionare la capacità, spesso atrofizzata o
inesistente, di cogliere in profondità la bontà propria del figlio; rendersi
conto che, per metterlo al mondo, non occorre altro motivo che quello
della sua sublime grandezza; e che ciò che ha bisogno di altri motivi, seri
e adeguati, è il non cercare di metterlo al mondo.
Per impedire la procreazione o per eliminare il suo frutto, no. Sì, certe
volte, per tralasciare di adoperare i mezzi da cui potrebbe scaturire la
procreazione.
Il figlio costituisce un bene assoluto, nell’accezione più propria del
termine. Però assoluto non è sinonimo di infinito. E proprio a causa della
sua limitatezza, implica sempre alcuni mali – quelli dovuti alla necessità
di prendersene cura –, che si potrebbero considerare ordinari.
Di fronte ad essi, se si ignora o non si riconosce la bontà assoluta della
persona, il figlio finisce automaticamente per essere ritenuto un male.
Ma, per lo stesso motivo, lo saranno anche il coniuge, i genitori, i fratelli,
gli amici…
Andiamo a cozzare con la logica tremendamente individualista di Sartre,
secondo il quale «l’inferno sono gli altri», e l’unica risposta è
l’isolamento: vale a dire, la solitudine, il più autentico inferno.
Se si esclude ciò che è degno, si finisce inevitabilmente in un’aporía, in un
vicolo cieco, senza via d’uscita. Viceversa, il riconoscimento del figlio
come un bene assoluto relativizza questi mali inevitabili e li trasforma in
occasione di crescita personale.
Sono quelli che mettono in gioco un’altra o altre persone: un pericolo
serio per la madre gestante o per l’esistenza della famiglia, pesi che la
salute fisica o psichica dei genitori consiglia di non assumersi…
In tali circostanze, la situazione cambia… e deve essere modificato anche
l’atteggiamento e il comportamento dei possibili genitori.
Il criterio di fondo è quello che sostiene tutta la condotta morale: fa’ il
bene ed evita il male, secondo le esigenze proprie delle due parti di questo enunciato.
Fare il bene costituisce il più elementare, fondamentale e gioioso dovere
dell’essere umano. Però nessuno è obbligato a mettere in atto tutti i beni
che, in astratto, potrebbe realizzare. Fra gli altri motivi perché, optando
per uno di essi – una professione, uno stato civile… –, dovrà per forza
non realizzare, fare a meno di tutti i beni alternativi che, in tali
circostanze, potrebbe scegliere e praticare.
Invece non è mai permesso volere positivamente un male. L’imperativo di
evitare il male, con il quale si completa l’aspetto affermativo dell’etica,
non ammette eccezioni.
Abbiamo fatto queste riflessioni tenendo presente, soprattutto, la
grandezza della persona dei figli, i quali, come afferma il Catechismo
della Chiesa cattolica (n. 1652), citando a sua volta il Vaticano II, “sono il
preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene
degli stessi genitori”.
Basandoci proprio su questa bontà intima e costitutiva, che è assoluta,
per ciò che riguarda la procreazione conviene distinguere due
comportamenti opposti e conoscere il principio che permette di
distinguerli.
a) Se esistono cause proporzionate, è moralmente lecito non voler fare il
necessario per un nuovo concepimento, benché mai con una intenzione
anti-concezionale, ma semplicemente non-concezionale: in altre parole, è
permesso non volere la procreazione di un nuovo figlio e non agire a
favore di essa.
b) Però non sarà mai moralmente legittimo mettere attivamente
impedimenti perché il figlio venga alla vita (anti o contraccettivi), perché
questo equivarrebbe a volere positivamente un male – che non esista una
nuova creatura – e operare di conseguenza.
È la profonda differenza che separa la contraccezione dall’uso adeguato
dei metodi naturali. Una differenza che, malgrado la denominazione
abituale, non è assolutamente soltanto una questione di metodi.
In definitiva, il criterio di fondo è sempre la bontà assoluta del figlio.
Coloro che per gravi motivi decidono di evitare un nuovo concepimento,
devono continuare a considerare il figlio che dovesse comunque arrivare
come un gran bene, bene che però non cercano a causa della loro attuale
condizione.
Non fanno nulla di positivo che si opponga al concepimento, ma si
astengono dall’adoperare i mezzi perché un nuovo essere umano riceva
l’esistenza. Se poi, contrariamente alla loro volontà, Dio li benedice con
un altro figlio, lo accetteranno senza riserve, confidando nell’infinita
Bontà e Onnipotenza divine.
Infine, la considerazione della grandezza costitutiva di ogni figlio aiuta a
capire, come ricorda il Catechismo, perché “ la Sacra Scrittura e la pratica
tradizionale della Chiesa vedono nelle famiglie numerose un segno della
benedizione divina e della generosità dei genitori”.
È vero, esistono coniugi ai quali Dio concede pochi figli o altri ai quali
non concede discendenza, e in questi casi chiede loro di indirizzare verso
il bene di altre persone la loro capacità di amare insieme; però, anche per
la generosità che richiede, la creazione e la cura di una famiglia
numerosa, se questa è la volontà di Dio, è una garanzia di felicità e di
efficacia soprannaturale (cfr. È Gesù che passa, n. 25).
Come ha affermato Benedetto XVI, e forse in modo particolare nel
momento presente, le famiglie “con molti figli costituiscono una
testimonianza di fede, di coraggio e di ottimismo” (Udienza Generale, 2-
XI-2005) e “danno un esempio di generosità e di fiducia in Dio”
(Discorso, 18-I-2009). A sua volta Papa Francesco esclamava: “Dà gioia e
speranza vedere tante famiglie numerose che accolgono i figli come un
vero dono di Dio” (Udienza generale, 21-I-2015).
D’altra parte, in parecchie occasioni Dio benedice la generosità di questi
genitori, suscitando fra i loro figli decisioni di piena donazione a Cristo
oppure desideri di mettere anche loro al mondo numerosi figli. Sono
famiglie piene di vitalità umana e soprannaturale. Inoltre, arrivati alla
vecchiaia, di solito i genitori si vedranno circondati dall’affetto dei figli e
dei figli dei loro figli.

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