Avvento: il Signore è vicino!
La pienezza del significato dell'Avvento, quarta e ultima parte
Autore: San Giovanni Paolo II
1. Il nostro incontro di oggi ci offre l’occasione per la quarta e ultima meditazione sull’Avvento. Il Signore è vicino, ce lo ricorda ogni giorno la liturgia dell’Avvento. Questa vicinanza del Signore la sentiamo tutti: tanto noi, sacerdoti, recitando ogni giorno le mirabili “antifone maggiori” dell’Avvento, quanto tutti i cristiani che cercano di preparare i loro cuori e le loro coscienze alla sua venuta. So che in questo periodo i confessionali delle chiese nella mia patria, la Polonia, sono assediati (non meno che durante la Quaresima). Penso che sia certamente così anche in Italia e ovunque un profondo spirito di fede fa sentire il bisogno di aprire l’anima al Signore che sta per venire. La gioia più grande di questa attesa dell’Avvento è quella che vivono i bambini. Ricordo che proprio loro più volentieri si affrettavano nelle parrocchie della mia patria per le messe che si celebrano all’aurora (cosiddette “Rorate…” dalla parola con cui si apre la liturgia, “Rorate coeli”: Stillate, cieli, dall’alto) (Is 45,8). Essi contavano ogni giorno quanti “gradini” rimanevano ancora sulla “scala celeste”, dalla quale Gesù sarebbe sceso sulla terra, per poterlo incontrare alla mezzanotte di Natale nel presepe di Betlemme.
Il Signore è vicino!
2. Già una settimana fa, abbiamo parlato di questo avvicinarsi del Signore. Esso era, infatti, il terzo tema delle considerazioni del mercoledì, scelte per l’Avvento di quest’anno. Abbiamo meditato successivamente, riportandoci agli inizi stessi dell’umanità, cioè al libro della Genesi, le verità fondamentali dell’Avvento: Dio che crea (Elohim) e in questa creazione rivela simultaneamente Se stesso; l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, “rispecchia” Dio nel mondo visibile creato. Questi sono stati i primi e fondamentali temi delle nostre meditazioni durante l’Avvento. Poi il terzo tema che può essere brevemente riassunto nella parola: “grazia”. “Dio vuole, che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). Dio vuole che l’uomo divenga partecipe della sua verità, del suo amore, del suo mistero, affinché possa prendere parte alla vita di Dio stesso. “L’albero della vita” simboleggia questa realtà già sin dalle prime pagine della Sacra Scrittura. Però sulle stesse pagine c’incontriamo anche con un altro albero: il libro della Genesi lo chiama “l’albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,16). Affinché l’uomo possa mangiare il frutto dell’albero della vita, non deve toccare il frutto dell’albero “della conoscenza del bene e del male”. Questa espressione può suonare come una leggenda arcaica. Più però penetriamo “la realtà dell’uomo”, come ci è dato di capirla dalla sua storia terrena – così come ne parla a ciascuno di noi la nostra umana interiore esperienza e la nostra coscienza morale – più avvertiamo di non poter restare indifferenti, scuotendo le spalle davanti a queste immagini bibliche primitive. Quanta carica di verità esistenziale sull’uomo esse contengono! Verità che ciascuno di noi sente come propria. Ovidio, l’antico poeta romano, pagano, non ha forse detto in modo esplicito: “Video meliora proboque, deteriora sequor”: Vedo ciò che è migliore, lo approvo, ma seguo ciò che è peggiore (Ovidio, Le Metamorfosi, VII, 20)? Le sue parole non si discostano molto da ciò che più tardi ha scritto San Paolo: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto” (cf. Rm 7,15). L’uomo stesso, dopo il peccato originale, sta tra “il bene e il male”.
“La realtà dell’uomo” – la più profonda “realtà dell’uomo” – sembra svolgersi continuamente tra ciò che fin dall’inizio è stato definito come l’“albero della vita” e quello che è stato definito “l’albero della conoscenza del bene e del male”. Perciò non si può nelle nostre meditazioni sull’Avvento, che riguardano le leggi fondamentali, le realtà essenziali, escludere un altro tema: quello cioè che si esprime con la parola: peccato.
3. Peccato. Il catechismo ci induce in modo semplice e facile a ricordare che esso è trasgressione al comandamento di Dio. Indubbiamente il peccato è trasgressione di un principio morale, violazione di una “norma”, e su questo sono d’accordo tutti, anche coloro che non vogliono sentir parlare di “comandamenti di Dio”. Anch’essi sono concordi nell’ammettere che le principali norme morali, i più elementari principi di comportamento, senza i quali la vita e la convivenza tra gli uomini non è possibile, sono proprio quelli che noi conosciamo come “comandamenti di Dio” (in particolare il quarto, il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo). La vita dell’uomo, la convivenza tra gli uomini, si svolge in una dimensione etica, ed è questa la sua essenziale caratteristica, ed è anche la dimensione essenziale della cultura umana.
Vorrei tuttavia che oggi ci concentrassimo su quel “primo peccato” che – malgrado quanto comunemente si pensa – è descritto nel libro della Genesi con tanta precisione che dimostra tutta la profondità della “realtà dell’uomo” in esso racchiusa. Questo peccato “nasce” contemporaneamente “dal di fuori”, cioè dalla tentazione, e “dal di dentro”. La tentazione è espressa nelle seguenti parole del tentatore: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Il contenuto della tentazione colpisce ciò che il Creatore stesso ha plasmato nell’uomo, perché, difatti, egli è stato creato a “somiglianza di Dio”, che vuol dire: “così come Dio”. Esso colpisce anche il desiderio della conoscenza che è nell’uomo, e il desiderio della dignità. Solo che l’uno e l’altro vengono falsificati, così che il desiderio della conoscenza come quello della dignità – cioè della somiglianza a Dio – sono nell’atto della tentazione adoperati per contrapporre l’uomo a Dio. Il tentatore mette l’uomo contro Dio suggerendogli che Dio è suo avversario, che cerca di mantenere lui, l’uomo, nello stato di “ignoranza”; che cerca di “limitarlo” per sottometterlo. Il tentatore dice: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che qualora voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Secondo l’antica traduzione: “sarete come dei”) (Gen 3,4-5).
Occorre, non una volta sola, meditare questa “arcaica” descrizione. Non so se anche nella Sacra Scrittura si possano trovare molti altri passi in cui la realtà del peccato sia descritta non soltanto nella sua forma d’origine, ma anche nella sua essenza, cioè dove la realtà del peccato sia presentata in dimensioni così piene e profonde, dimostrando come l’uomo abbia usato contro Dio proprio ciò che in lui era di Dio, ciò che doveva servire ad avvicinarlo a Dio.
4. Perché di tutto ciò ne parliamo oggi? Per meglio capire l’Avvento. Avvento vuol dire: Dio che viene, perché vuole che “tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). Viene perché ha creato il mondo e l’uomo per amore e ha stabilito con lui l’ordine della grazia.
Viene però “a causa del peccato”; viene “malgrado il peccato”; viene per togliere il peccato.
Non meravigliamoci perciò che, nella notte di Natale, non trovi posto nelle case di Betlemme e debba nascere in una stalla (nella grotta che serviva da riparo agli animali).
Tanto più però importante è il fatto che egli viene. L’Avvento di ogni anno ci ricorda che la grazia, e cioè la volontà di Dio di salvare l’uomo, è più potente del peccato.