Chiuso per paura. Itinerari personali di risurrezione
Meditazione per la Seconda domenica di Pasqua (anno C)
Autore: Gaetano Piccolo
«Signore mio e Dio mio!
Vedeva e toccava l’uomo,
ma confessava Dio che non vedeva né toccava.
Attraverso ciò che vedeva e toccava,
rimosso ormai ogni dubbio,
credette in ciò che non vedeva».
Sant’Agostino, Omelia 121, 5
La fede non è automatica
Nella vita reale non ci sono automatismi: non ci si fida immediatamente, non si crede senza esitazione, non si comincia ad amare accedendo un interruttore. Tutto passa attraverso dubbi, domande e incertezze. La fiducia è un cammino che comincia con il rischio, l’affetto è il frutto di un cammino che passa anche attraverso vie secondarie, smarrimenti e ritorni.
Persino la fede, anche quella dei primi discepoli, non è un evento automatico o immediato. I racconti delle apparizioni del Risorto descrivono discepoli che sperimentano la fatica di credere, presi dalla paura e dal dubbio. Forse è proprio questo lo scopo dei racconti delle apparizioni: mostrarci degli esempi in cui rivederci. Tant’è vero che, stranamente, i Vangeli non raccontano l’apparizione di Gesù a sua Madre, dal momento che, credo, Maria non ha mai dubitato della risurrezione del Figlio. È così insolita questa assenza, se non inquadrata in questo contesto, che sant’Ignazio la inserisce comunque nelle contemplazioni della quarta settimana degli Esercizi spirituali.
Porte chiuse
Come ben sappiamo è la paura che frena di solito i nostri slanci sia affettivi che spirituali. Il brano del Vangelo di questa domenica condensa queste paure attraverso l’immagine delle porte chiuse del Cenacolo, un luogo che somiglia molto al nostro cuore. È infatti il luogo in cui Gesù ha consegnato la sua vita e l’ha consegnata anche all’amico che lo tradiva. È il luogo in cui Gesù ha parlato e insegnato nell’intimità della relazione. Ora quel luogo sembra paradossalmente un sepolcro abitato dalla morte, proprio mentre il sepolcro di Gesù, al contrario, è vuoto ed è diventato spazio di vita.
Il posto di Gesù
Gesù non si rassegna davanti alla nostra paura e davanti alle porte chiuse del nostro cuore. Entra nonostante le porte chiuse e sta in mezzo, al centro, nel luogo che gli spetta e che tante volte gli abbiamo tolto. Sta nel mezzo della comunità, in mezzo alla Chiesa, riappropriandosi di quel posto che tante volte abbiamo invece dato ad altri o di cui ci siamo appropriati.
Accogliere la pace
In quel luogo, in quei cuori abitati dalla paura, Gesù porta la pace. Sembra però che i discepoli facciano fatica ad accoglierla, perché quel saluto è ripetuto, in questa pericope, per tre volte. E, guardandoci intorno, ci rendiamo conto quanto sia difficile e non scontato accogliere questo dono, perché la pace impegna, impegna al perdono. Dal dono della pace, nasce l’impegno per la Chiesa a portare il perdono: una comunità che non è capace di perdono è prima di tutto una comunità che non trova pace in se stessa. Un cuore che non è capace di perdono è un cuore che non trova pace.
Testimonianza e responsabilità
Nonostante l’incontro con il Risorto, nonostante Gesù abbia attraversato le porte chiuse del cuore, dopo otto giorni quelle porte sono ancora chiuse. Il Cenacolo è ancora abitato dalla paura e dalla sfiducia: c’è ancora un cammino da fare, una conversione da intraprendere, la fede non è automatica.
Chi vede questa comunità spaventata, chi osserva questo Cenacolo con le porte chiuse, perché dovrebbe credere che quelle persone hanno davvero incontrato il Risorto? La comunità, il credente, ha una grande responsabilità. Tommaso non ha infatti tutti i torti: perché dovrebbe credere che i suoi compagni hanno incontrato Gesù Risorto se li vede ancora pieni di paura e chiusi dentro?
Increduli e credenti
Tommaso è detto ‘didimo’ che possiamo tradurre come doppio o gemello. Entrambe le parole ci aiutano a capire qualcosa in più. Tommaso infatti è doppio perché alterna fede e incredulità: un po’ non crede, un po’ crede, un po’ si allontana dalla comunità, un po’ ritorna. Ma è anche gemello, cioè ha un altro che gli somiglia e quell’altro sono io: nella mia incredulità, nella mia esitazione, sono come lui!
Le ferite non sono inutili
Questo cammino di riconoscimento, di scoperta e di apertura, avviene non attraverso l’immagine migliore più riuscita, ma attraverso le ferite: Gesù si fa riconoscere attraverso le sue ferite. E ci insegna così che le ferite della nostra vita non sono inutili, ma costituiscono la nostra identità, dicono chi siamo, raccontano la nostra storia. E l’amore deve partire da lì: dal contemplare e riconoscere le ferite dell’altro. Quando si ama, non si cercano le prove, ci si fida: perciò sono beati, cioè felici, coloro che non hanno bisogno continuamente di mettere il dito nella piaga dell’altro per potergli credere! Tommaso, come noi, sta imparando ad amare.
Leggersi dentro
In che condizioni sono le porte del mio cuore? Chiuse per la paura? Socchiuse o spalancate?
Come potrei descrivere la mia relazione con Gesù in questo momento della mia vita?