Consolazioni e lotte di S.Teresa D'Avila - Le grandi tribolazioni
Libro della Vita, cap 30
Autore: Santa Teresa d'Avila
CAPITOLO 30
Riprende la narrazione della sua vita e dice come il Signore la soccorse nelle sue molte tribolazioni col far venire nella città dov’ella si trovava fra Pietro d’Alcántara, santo religioso dell’Ordine del glorioso san Francesco. Tratta anche delle grandi tentazioni e delle pene di cui talvolta soffriva.
1. Vedendo, dunque, il poco o nulla che potevo fare per non avere così grandi impeti, cominciavo anche a temerli, perché non riuscivo a capire come dolore e gioia potessero stare insieme. Sapevo già che se si fosse trattato di dolore fisico e di gioia spirituale era ben possibile, ma che una così estrema pena spirituale fosse congiunta a una così straordinaria gioia mi disorientava. Ancora non cessavo di sforzarmi di resistere, ma riuscivo a tanto poco che a volte mi stancavo. Mi rifugiavo nella croce con la quale volevo difendermi da chi si era servito di essa per difendere tutti noi. Vedevo che nessuno mi capiva, rendendomi di ciò perfettamente conto, ma non osavo dirlo che al mio confessore perché altrimenti sarebbe stato evidente che non avevo umiltà.
2. Il Signore si compiacque di rimediare in gran parte alla mia pena – anzi, per allora, del tutto – facendo venire in questa città il benedetto fra Pietro d’Alcántara del quale ho già parlato e delle cui penitenze ho detto qualcosa; fra l’altro, mi fu assicurato che per venti anni continui aveva portato un cilicio fatto di lamine metalliche. È autore di alcuni piccoli libri di orazione, scritti in volgare, che ora sono molto diffusi, essendo molto utili per coloro la praticano, in quanto chi scrive è persona di notevole esperienza nell’orazione. Osservò con assoluto rigore la prima regola del beato san Francesco, oltre ad adempiere quelle pratiche di cui ho già detto qualcosa.
3. La vedova, serva di Dio e mia amica, di cui ho parlato, venne a sapere che quest’uomo straordinario si trovava qui; ella conosceva il bisogno che ne avevo perché sapeva delle mie afflizioni e si adoperava molto per alleviarle; era così grande la sua fede che non poteva fare a meno di credere che fosse spirito di Dio quelli che tutti ritenevano opera del demonio. siccome è persona molto intelligente e segreta, alla quale il Signore faceva parecchie grazie nell’orazione, Sua Maestà volle illuminarla su ciò che i dotti non sapevano. I mie confessori mi permettevano di sfogarmi con lei circa alcune cose, perché per molti motivi aveva la capacità d’intenderle, a volte partecipava alle grazie che il Signore mi faceva, in quanto le trasmettevo avvertimenti assai utili per la sua anima. Appena, dunque, lo seppe, affinché potessi trattare con lui con maggiore libertà, senza dirmi nulla, mi ottenne dal provinciale il permesso di stare otto giorni a casa sua. Sia qui, sia in alcune chiese, gli parlai spesso questa prima volta del suo soggiorno in città, e poi comunicai con lui molte volte in tempi diversi. Lo misi al corrente in breve della mia vita e del mio modo di procedere nell’orazione con la maggior chiarezza possibile (perché questo l’ho fatto sempre: parlare con assoluta chiarezza e semplicità a coloro cui apro la mia anima: perfino i primi moti di essa vorrei che fossero loro noti, e le cose più dubbie e sospette le mettevo in chiaro con ragioni che erano a mio danno); pertanto, senza doppiezze e infingimenti, gli aprii la mia anima.
4. Quasi subito vidi che mi capiva per esperienza, e ciò era proprio quello di cui io avevo bisogno, perché allora non potevo comprendere me stessa come ora, per potermi spiegare; solo più tardi Dio mi ha concesso di poter intendere e riferire le grazie che egli mi fa, ed era quindi necessario esser passati attraverso quell’esperienza per capirmi in pieno e per spiegarmi di che si trattava. Egli m’illuminò moltissimo perché, non foss’altro nelle visioni che non erano immaginarie, io non riuscivo a capire di che cosa si trattasse, ma mi sembrava che nemmeno in quelle che vedevo con gli occhi dell’anima capivo come avvenissero, perché, come ho detto, credevo che si dovesse dare importanza solo a quelle che si vedono con gli occhi del corpo, e di queste non ne avevo.
5. Questo sant’uomo mi illuminò e mi spiegò tutto, esortandomi a non affliggermi, ma a lodare Dio ed essere certa che era il suo spirito ad agire in me perché, a parte le verità della fede, non poteva esserci cosa più vera né più degna di essere creduta. Ero per lui motivo di grande consolazione e mi favoriva con la sua protezione e la sua bontà in ogni cosa; sempre, in seguito, ebbe frequenti rapporti con me, confidandomi i suoi progetti e le sue attività. E vedendomi animata dai desideri che egli aveva già realizzato – poiché il Signore me li infondeva fortissimi – e da tanto coraggio, godeva di trattare con me, perché per colui che Dio fa giungere a questo stato non v’è piacere né consolazione pari a quella di incontrarsi con persone a cui sembra che il Signore abbia dato l’avvio ad esso. Infatti allora, a quanto mi sembra, non dovevo essere più in là degli inizi, e piaccia a Dio che ora sia andata avanti!
6. Ebbe per me grandissima compassione. Mi disse che era uno dei più grandi tormenti di questa terra quello che avevo patito, cioè il contrasto dei buoni, e che mi restava ancora molto da soffrire perché avevo sempre bisogno di assistenza e in questa città non c’era alcuno che mi potesse capire, ma che egli ne avrebbe parlato con il mio confessore e con uno di quelli che più mi davano motivo di soffrire, cioè quel cavaliere ammogliato di cui ho già parlato. Quest’ultimo, proprio perché nutriva per me maggior affetto, mi faceva tanta guerra, ed è un’anima timorata e santa che, avendomi vista poco prima tanto colpevole, non riusciva a persuadersi di quanto mi accadeva. Quel sant’uomo mantenne la sua promessa, parlando con entrambi, e adducendo ragioni e argomenti perché si rassicurassero e mi lasciassero in pace. Il confessore ne aveva poco bisogno; il cavaliere, invece, tanto, che neppure questo bastò a rassicurarlo del tutto, ma giovò perché non mi spaventasse più come prima.
7. Rimanemmo d’accordo che d’allora in poi gli avrei scritto quello che ancora mi fosse accaduto e che ci saremmo raccomandati molto a Dio, poiché era così grande la sua umiltà da tenere in qualche considerazione le preghiere di questa miserabile, ed io ne ero piena di confusione. Mi lasciò del tutto consolata e soddisfatta. Mi disse di continuare nell’orazione con assoluta fiducia, sicura che era opera di Dio; se mi sorgesse qualche dubbio, per maggior tranquillità informassi sempre di tutto il confessore e così vivessi sicura. Ma neanche in questo modo io riuscivo ad avere una sicurezza completa, perché il Signore mi conduceva per la via del timore, come era il credere d’essere vittima del demonio quando mi dicevano che lo ero. In conclusione, nessuno poteva ispirarmi timore o sicurezza tali che io potessi prestare fede più ad essi che a quanto il Signore mi infondeva nell’anima. Così, anche se egli riuscì a confortarmi e a rasserenarmi, non gli diedi ascolto a tal punto da liberarmi del tutto dei miei timori, specialmente quando il Signore mi lasciava nelle sofferenze spirituali di cui ora parlerò. Ciò nonostante, ripeto, rimasi molto consolata. Non mi stancavo di ringraziare Dio e il mio glorioso padre san Giuseppe, perché mi sembrava fosse stato lui a condurmi quell’uomo che era commissario generale della Custodia di San Giuseppe, a cui io molto mi raccomandavo, come pure a Nostra Signora.
8. Mi accadeva alcune volte – e anche ora mi accade, sebbene non di frequente – di essere in grandissime pene spirituali insieme a tormenti e dolori fisici così intensi da non sapere come darmi aiuto. Altre volte avevo mali fisici ancor più gravi ma, poiché ero esente da quelli spirituali, li sopportavo allegramente. Quando, invece, venivano tutti insieme, la sofferenza era così atroce da opprimermi indicibilmente. Dimenticavo allora tutte le grazie che il Signore mi aveva fatto; me ne restava solo un ricordo come di cosa sognata, che serviva a darmi pena; l’intelligenza mi si offuscava tanto da farmi sorgere mille dubbi e sospetti: mi sembrava di non aver saputo comprendere quanto mi era accaduto, che forse era frutto della mia fantasia. E pensavo che bastava che mi fossi ingannata io, senza dover ingannare anche i buoni. Mi pareva d’esser così perversa che ritenevo dovuti ai miei peccati tutti i mali e le eresie da cui era invaso il mondo.
9. Questa era una falsa umiltà creata dal demonio per turbarmi e provare se gli riusciva di trascinare la mia anima alla disperazione. Ormai ho acquistato tale esperienza nel riconoscere l’opera del demonio che egli, accorgendosi che ne ho la consapevolezza, non mi tormenta più, in questa forma, così spesso come una volta. Che sia un’umiltà diabolica si vede chiaramente dall’inquietudine e dal turbamento con cui comincia, dal tumulto che produce nell’anima per tutto il tempo che dura, dall’oscurità e dall’afflizione in cui la immerge, dall’aridità e dall’incapacità di attendere alla preghiera e a ogni opera buona. Sembra che soffochi l’anima e immobilizzi il corpo perché non possa trar vantaggio da nulla. Invece la vera umiltà – benché l’anima si riconosca spregevole e soffra di vedere cosa siamo ed esageri molto la propria perversità, nella stessa misura di cui si è detto nel caso precedente con assoluta convinzione – non è accompagnata da inquietudine, né turba l’anima né la getta nelle tenebre né l’inaridisce, anzi la solleva e, al contrario dell’altra, comporta quiete, soavità, luce. È una pena che, tuttavia, conforta l’anima per la costatazione di quale grande favore le faccia Dio nel dargliela e come sia giusta. Si rammarica di aver offeso Dio, ma d’altra parte le procura distensione la sua misericordia. Ha in sé quella luce che la fa sentire piena di confusione e lodare Sua Maestà per averla sopportata tanto tempo. Invece, nell’altra umiltà che viene dal demonio non c’è luce per alcun bene, e sembra che Dio metta tutto a ferro e a fuoco; le è presente la sua giustizia, e se anche conserva la fede nella sua misericordia, non avendo il demonio tanto potere da fargliela perdere, essa è tale da non offrirle conforto, anzi la considerazione di tanta misericordia è motivo di maggior tormento, perché sembra che imponga maggiori obblighi.
10. È, questo, un inganno del demonio tra i più penosi, sottili e dissimulati che ho visto tendere da lui; pertanto, ho voluto avvisare la signoria vostra affinché, se avesse a tentarla in tal modo, disponga di qualche lume per accorgersene, sempre che le lasci la capacità di poterlo fare. E non pensi, che per questo occorra esser letterati e sapienti perché io, sebbene sia del tutto digiuna di cultura, appena uscita dalla tentazione, ne vedo bene tutta la stoltezza. E mi rendo conto che ciò avviene perché lo vuole e lo permette il Signore, permettendo al demonio di tormentarci, come già fece con Giobbe, sebbene per me – miserabile qual sono – non faccia ricorso allo stesso rigore.
11. Ricordo di aver avuto una tentazione di questo genere l’antivigilia del Corpus Domini, festa di cui sono devota, anche se non come dovrei; allora, mi durò solo per quel giorno, mentre altre volte mi è durata otto, quindici giorni, e anche tre settimane, se non di più, specialmente nella settimana santa, in cui solevo darmi con particolare piacere all’orazione. Accade che d’improvviso il demonio mi irretisca l’intelletto in cose a volte tanto frivole, che in altre circostanze mi riderei di esse, e lo metta sottosopra come vuole, con l’anima incatenata lì, non più padrona di sé, incapace di pensare ad altro che alle balordaggini che egli le mette in mente: cose che non hanno, si può dire, alcun valore, alcun senso, e solo servono per soffocare l’anima in modo tale che non ci si raccapezza più. Così, a volte, mi sembrava che i demoni stessero come giocando a palla con l’anima mia, senza che essa potesse liberarsene. Non si può dire quanto si soffra in tale circostanza; l’anima va n cerca di un riparo, e Dio permette che non lo trovi; solo le rimane, sempre, la facoltà del libero arbitrio, ma non chiara. Io dico che è come se si avessero gli occhi bendati o come se una persona, essendo andata molte volte per una strada, ormai, data la facilità di rintracciarla, anche di notte e all’oscuro, sa dove potrebbe inciampare, perché lo ha visto di giorno, e si guarda da quel pericolo; allo stesso modo l’anima, per non offendere Dio, sembra che proceda in virtù dell’abitudine, prescindendo, beninteso, dall’aiuto che le offre il Signore, che è quanto occorre soprattutto in tale circostanza.
12. La fede, allora, è affievolita e addormentata come ogni altra virtù, anche se non del tutto perduta, perché l’anima ben crede a ciò che insegna la Chiesa, ma solo a parole, e le sembra, per altro verso, di essere così oppressa e intorpidita che la conoscenza di Dio è quasi come qualcosa udita da lontano. L’amore è così tiepido che, se ode parlare di Dio, ascolta e crede a quello che ode, perché lo dice la Chiesa, ma non c’è ricordo in essa di ciò che ha sperimentato in se stessa. Andare a pregare o stare in solitudine non è che una maggiore angoscia perché il tormento che sente, senza sapere di che, è insopportabile; a mio giudizio, è un facsimile di quello dell’inferno. Ciò accade, come il Signore mi ha fatto capire in una visione, perché l’anima arde in sé, senza capire da chi né da dove il fuoco sia acceso in essa, né come schivarlo o come soffocarlo. Anche cercare sollievo nella lettura è come se non si sapesse leggere: una volta mi accadde di mettermi a leggere la vita di un santo per vedere se ne assimilavo la verità e se riuscivo a consolarmi con l’esempio delle sue sofferenze. Ne lessi quattro o cinque volte altrettante righe ma, vedendo che, nonostante fosse scritto in volgare, l’ultima volta ne capivo meno della prima, la lasciai. Ciò mi è accaduto spesso, ma di questa volta ho particolare ricordo.
13. Peggio, poi, intrattenersi a conversare con qualcuno, perché il demonio mette addosso un sentimento di tale accesa irritazione, che sembra che io abbia voglia di mangiarmi vivi tutti e che altro non possa fare. Mi pare di far qualcosa nel cercare di dominarmi o, meglio, è il Signore a farlo, trattenendo con la sua mano chi, come me, si trova in questo stato, affinché non dica né faccia contro il suo prossimo nulla che sia ad esso causa di danno e di offesa di Dio. Quanto ad andare dal confessore, è fuor di dubbio che spesso mi accadeva quello che sto per dire: che i confessori da me allora frequentati e che ancora oggi frequento, pur essendo veramente santi, mi rivolgevano parole di rimprovero con una tale asprezza che, quando più tardi gliele ripetevo, ne rimanevano stupiti essi stessi e mi dicevano che non era dipeso dalla loro volontà perché, quantunque da parte loro si proponessero risolutamente di non farlo più, mossi ormai da compassione, e anche presi da scrupolo per avermi causato tante sofferenze fisiche e spirituali, e volessero consolarmi benevolmente, non ci riuscivano. Non già che dicessero parole cattive – voglio dire che suonassero offesa a Dio – ma le più sgradevoli che siano consentite a un confessore. Forse intendevano mortificarmi; mentre, però, in altre circostanze sarei stata disposta ad accettarle volentieri, allora tutto mi era causa di tormento. Inoltre talvolta credevo di ingannarli; allora andavo da loro e molto seriamente li avvertivo della possibilità d’inganni da parte mia. Sapevo bene che di proposito non l’avrei mai fatto né che mai avrei detto loro una bugia, ma tutto mi faceva paura. Uno di essi un giorno, conosciuta la mia tentazione, mi disse di non darmene pena perché, anche se avessi voluto ingannarlo, egli aveva sufficiente buon senso per non lasciarsi ingannare. Queste parole mi consolarono molto.
14. Alcune volte, anzi, quasi abitualmente – o almeno in generale –, appena fatta la comunione, mi calmavo e, talvolta anche solo accostandomi al sacramento, mi sentivo di colpo, all’istante, così riconfortata nell’anima e nel corpo da restarne sbigottita. Era come se in un attimo si dileguassero tutte le tenebre dell’anima e, levatosi il sole, vedessi chiaramente tutte le balordaggini che mi avevano irretita. Altre volte, come ho già detto precedentemente, bastava una sola parola che mi dicesse il Signore, come ad esempio: «Non ti affliggere! Non aver paura!», oppure avere una visione, per sentirmi perfettamente bene, come se non avessi avuto nulla. godevo di Dio, e mi lamentavo con lui chiedendogli come mai permettesse che io patissi tanti tormenti; ma ciò era ben compensato perché quasi sempre, dopo, ne seguivano abbondanti grazie. Sembra proprio che l’anima esca da un crogiolo come l’oro, più raffinata e depurata per contemplare il Signore in sé. Così, quelle sofferenze che prima sembravano insopportabili diventano in seguito cosa di poca importanza, e si desidera tornare a soffrirle, se così volesse il Signore perché, anche se ci opprimono maggiori tribolazioni e persecuzioni, sopportandole senza offendere il Signore, ma contenti di patire per lui, tutte servono a nostro maggior profitto. Io, però, non le sopporto come devono essere sopportate, ma con molta imperfezione.
15. Altre volte mi sopravvenivano, e mi sopravvengono tuttora, sofferenze di altro genere che sembravano togliermi completamente la possibilità di pensare e desiderare di fare alcunché di buono, oppressa com’ero da un’anima e da un corpo del tutto inutili, ridotti esclusivamente a un peso. Però non avevo, a causa di ciò, quelle tentazioni e inquietudini di cui ho parlato, ma solo un disgusto, non si di che, e l’anima insoddisfatta di tutto. Cercavo, in gran parte a viva forza, di darmi a qualche buona opera esteriore, per stare occupata, ma so bene quanto poco valga un’anima quando le si nasconde la grazia. Ciò non mi procurava, però, molta pena, perché il vedere la mia pochezza mi era causa di una certa soddisfazione.
16. A volte non mi sento per niente capace di concepire un pensiero sensato, né su Dio né su qualsiasi cosa buona, né di fare orazione, pur trovandomi in solitudine; solo sento di conoscere Dio. Mi rendo conto che tutto il male, qui, mi viene dall’intelletto e dall’immaginazione. La volontà mi pare, infatti, quieta e ben disposta, ma l’intelletto è talmente turbato da sembrare un pazzo furioso che nessuno è capace di immobilizzare. Non sono in grado di tenerlo fermo neppure per lo spazio di un Credo. Alcune volte ne rido, riconosco la mia miseria e, lasciandolo libero, lo sto a guardare, per vedere che cosa fa e, oh, meraviglia! – sia resa gloria a Dio – mai si rivolge a cose cattive, ma solo a cose senza alcun interesse: a quello che ci sia da fare qui, là, o altrove. Allora capisco meglio l’enorme grazie che mi fa il Signore quando immobilizza questo pazzo nella contemplazione perfetta. Penso cosa sarebbe se coloro che mi stimano santa mi vedessero in preda a tale delirio. E mi fa gran compassione veder l’anima in così cattiva compagnia. Vorrei fosse libera, pertanto dico al Signore: «Quando, o mio Dio, arriverò a vedere la mia anima tutta unita a lodarvi, in modo che le potenze tutte godano di voi? Non permettete, Signore, che io sia ormai più fatta a pezzi e che ognuno di essi, come sembra, se ne vada per conto suo!». Questo mi accade assai spesso; alcune volte vedo che molto vi contribuisce la mia poca salute. Mi torna di frequente in mente il danno che ci ha fatto il peccato originale perché mi sembra che da esso dipenda la nostra incapacità di godere durevolmente di tanto bene, ma anche i miei peccati debbono averci gran parte perché, se non ne avessi commessi tanti, non sarei così combattuta nella virtù.
17. Soffrii anche un altro gran tormento: siccome mi sembrava di capire tutti i libri di orazione che leggevo e di aver già avuto dal Signore quel lume che da essi potevo ricevere, ritenevo di non averne bisogno. Pertanto non leggevo altro che le vite dei santi perché, riconoscendomi così manchevole al loro confronto nel servizio di Dio, mi pareva che il loro esempio giovasse a incoraggiarmi. Credere di essere arrivata ad avere quel gradi di orazione mi sembrava segno di ben poca umiltà; e, poiché non riuscivo a pensare altrimenti, ne provavo molta pena, finché alcune persone dotte e il benedetto fra Pietro d’Alcántara non mi dissero di non curarmene. Vedo bene che, sebbene il Signore mi abbia dato le grazie di cui favorisce le anime sante, sono tutta un’imperfezione, tranne nei desideri e nell’amore in cui mi accorgo che il Signore mi ha concesso la grazia di poterlo servire almeno un po’. Mi sembra proprio di amarlo davvero; ma ciò che mi affligge sono le mie opere e le molte imperfezioni che vedo in me.
18. Altre volte sono presa, direi, da un intontimento spirituale in cui non mi sembra di fare né bene né male, di andare, come si dice, dietro agli altri, senza pena e senza gioia, indifferente alla vita e alla morte, al piacere e al dolore. Mi pare che l’anima faccia come un asinello che si pasce e si sostenta di ciò che gli danno da mangiare, nutrendosi quasi senza accorgersene. Infatti l’anima in questo stato non può non essere sostenuta da qualche sublime grazia di Dio, poiché non le pesa vivere una così misera vita e la sopporta serenamente, ma non ne sente moti interiori né effetti per rendersene conto.
19. Mi viene ora in mente che è come un navigare con un vento molto tranquillo e un fare molta strada senza accorgersene. Al contrario, negli altri stati gli effetti sono così notevoli che l’anima quasi subito vede il proprio miglioramento, poiché subito comincia ad essere agitata da desideri e non riesce a sentirsi mai soddisfatta. Questo comportano i grandi slanci d’amore di cui ho parlato, per chi li riceve da Dio. avviene come in certe piccole sorgenti, che io ho visto sgorgare da terra, dove lo zampillo della rena verso l’alto è continuo. Mi sembra che questo esempio o paragone ritragga in modo autentico lo stato delle anime arrivate fin qui: vibrando sempre d’amore, pensano di continuo a nuove imprese e non sono capaci di stare in sé, come quell’acqua sembra non riesca a star dentro la terra, ma ne sgorga fuori di getto. Questo è lo stato abituale di tali anime, che non hanno riposo né sanno contenersi, per l’amore che da esse trabocca. Ormai sono tutte impregnate di quest’acqua e vorrebbero che ne bevessero anche gli altri, visto che esse ne hanno d’avanzo, affinché le aiutassero a lodare Dio. Oh, quante volte mi sono ricordata dell’acqua viva di cui parlò il Signore alla samaritana! Quel brano del Vangelo mi è molto caro. E per certo ne ero devota fin da bambina quando, senza ancora capire questo bene come adesso, supplicavo spesso il Signore di darmi quell’acqua, e nella mia stanzetta avevo un quadro che rappresentava il Signore vicino al pozzo con sotto la scritta: Domine, da mihi aquam.
20. Si può anche paragonare questo amore a un gran fuoco che ha bisogno di aver sempre di che ardere per non spegnersi. Così è per le anime di cui parlo, le quali, anche a costo di grandi loro sacrifici, vorrebbero gettare continuamente legna su questo fuoco perché non si spegnesse. Da parte mia, mi accontenterei di poterci gettare anche qualche fuscello, come talora mi accade di fare, e anche spesso; a volte ne rido, altre me ne affliggo molto. L’impulso interiore mi incita a servire Dio in qualche modo e io, non essendo capace di altro, lo faccio mettendo mazzolini di fiori davanti alle immagini sacre, spazzando, riordinando un oratorio, attendendo a certi lavoracci così meschini che mi fanno vergognare. Se faccio un po’ di penitenza, si tratta di ben poca cosa, e di tal specie che, se non fosse perché il Signore guarda alla mia buona volontà, so che non avrebbe alcun valore, e io stessa mi burlo di me. Non è certo poco il tormento delle anime a cui Dio dà per sua bontà in esuberanza questo fuoco del suo amore, nel sentirsi forze fisiche inadeguate per far qualcosa in suo onore. È una pena assai grande perché, mancando loro le forze di gettare un po’ di legna su questo fuoco e morendo dalla paura che si spenga, mi pare che si consumino in se stesse e brucino fino a ridursi in cenere e si struggono in lacrime: un tormento indicibile, anche se gioioso.
21. Renda grandi lodi a Dio l’anima che è giunta fin qui, ricevendo da lui le forze fisiche necessarie per far penitenza, o dottrina, talento e libertà per predicare, confessare e avvicinare i peccatori a Dio. Non può capire il bene che possiede se non ha provato che cosa voglia dire non riuscire a far nulla al servizio del Signore e ricevere da lui sempre molto. Sia benedetto di tutto e gli angeli tutti gli rendano gloria! Amen.
22. Non so se faccio bene a raccontare tanti piccoli particolari. Poiché la signoria vostra mi ha ripetuto l’ordine di non badare a non dilungarmi e di non omettere nulla, dico man mano con chiarezza e verità quello che ricordo. Ma non potrò fare a meno di tralasciare molte cose perché ciò richiederebbe troppo tempo, e probabilmente non sarebbero di alcuna utilità.