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Dacci oggi il nostro “grazie” quotidiano

Chi sa ringraziare non torna mai come prima - Omelia a partire da Lc 17,11-19 - XXVIII Domenica Tempo Ordinario anno C

Autore: Don Flavio Maganuco

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)

2Re 5,14-17; Sal 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

DACCI OGGI IL NOSTRO GRAZIE QUOTIDIANO
Perchè chi sa ringraziare non torna mai come prima

Mi è capitato a volte – e sarà capitato anche a te – di vedere o di vivere delle scene veramente belle; un automobilista che si ferma e dà la precedenza dovuta a un pedone e gli segnala pure che può passare senza problemi, facendo un sorriso. Oppure, quando in coda alla cassa una persona a pochissime cose in mano e chi gli sta davanti col carrello pieno, lo lascia passare, senza farsi troppi problemi. Sono quei momenti nel quale sorridi e balbetti velocemente un “grazie”, di quelli automatici, mentre riparti di corsa a fare le tue cose. Ma poi, quanto ti fermi, rivivi quei momenti: non sono soltanto “cortesie”, sono promemoria che, in mezzo al caos quotidiano, c’è qualcuno che sceglie di fermarsi, di essere gentile. E quel “grazie” detto velocemente si trasforma in qualcosa di più grande, un filo che ti lega al senso di comunità che forse avevi perso.

Ecco il punto. C’è gratitudine e gratitudine: quella che si esaurisce nel gesto, e quella che invece ti cambia la vita; una che nasce dalle circostanze, e un’altra che nasce dalla grazia. Tutti noi, almeno una volta, abbiamo detto grazie per buona educazione, ma ci sono “grazie” che ci fanno resuscitare: perché ti accorgi che il bene ricevuto non è un favore, ma una rivelazione; di te, del mondo, di Dio.

Naaman, il generale siro che ci è stato raccontato nella prima lettura, sperimenta proprio questa logica. È un uomo potente, ma segnato da una lebbra che non riesce a nascondere. Una volta guarito dalla lebbra, si rivolge al profeta Eliseo e desidera riempirlo di denaro e doni, come se la guarigione fosse una transazione. Ma Dio non si compra: si accoglie.

L’acqua del Giordano non è magica, è umile. È la porta attraverso cui Naaman passa dalla presunzione alla fede. E quando Eliseo rifiuta i doni e loda il Signore, accade un’altra guarigione: dopo la pelle, guarisce anche il cuore: “Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”. È il grido di un uomo che ha scoperto la gratuità.

La guarigione non è più solo pelle sana: è libertà interiore. Da quel momento Naaman non vuole più vivere con nessun altro dio.

Perché quando il cuore è guarito, nasce spontaneo un canto nuovo.

Non un canto di rito, ma di vita.

Perché la gratitudine non è un’emozione: è una forma di fede.
Chi è stato toccato dalla grazia non dice semplicemente “grazie” per dovere, ma addirittura “lo

canta” perché non può farne a meno.

È il canto di gioia di chi ha scoperto la fedeltà di Dio: un amore che non si stanca mai di cercarci, che attraversa ogni distanza, che supera ogni confine.

Anche Paolo, nella seconda lettura, ci mostra questa verità. È in catene, abbandonato, eppure scrive con una libertà che non può essere incatenata.

Perchè può essere prigioniero il corpo, ma non la speranza.

Perchè può mancare la forza, ma non la grazia.

“La Parola di Dio non è incatenata”, dice Paolo. Quella parola che risana, che vivifica, che salva.

Nelle sue catene eleva una preghiera, e la sua prigione diventa altare.

E lì scopre che Dio resta fedele anche quando noi, a causa delle catene della vita, smettiamo di esserlo, perché Dio “Non può rinnegare se stesso”.

Questa fedeltà è la radice di ogni gratitudine: sapere che, qualunque cosa mi accada, Dio non smette di credere in noi. È lì che possiamo scoprire ancora chi è Dio. E tornare da Lui.

Come quel particolare lebbroso protagonista del vangelo di oggi;

Erano dieci i lebbrosi guariti, ma lui solo torna indietro. Gli altri forse erano felici, ma non trasformati.

Lui, invece, torna. Non per restituire qualcosa, ma per riconoscere Qualcuno.
Il suo ringraziamento non è un debito da pagare, ma l’inizio di una relazione; perché la gratitudine

vera non chiude un conto: apre una storia.

E in quel ritorno, Gesù gli dice: “Alzati e va’”. È come dire: “Ora puoi vivere da risorto”.

Perché ogni volta che ringrazi, qualcosa in te risorge.

Perché ogni “grazie” autentico, è una Pasqua quotidiana.

Penso a certe giornate in cui torni a casa e senti addosso catene invisibili: la fretta, la stanchezza, la delusione, o semplicemente quella voce che ti sussurra “non ce la fai più”.

In quelle circistanze capita che anche il bene ti scivoli addosso, che non vedi più motivo per dire grazie.

Ma poi succede qualcosa di piccolo: un abbraccio, una parola che non ti aspettavi, una luce che filtra tra le nuvole. E lì capisci che non tutto è perduto. Ti accorgi che puoi ancora tornare. Tornare a respirare, tornare a essere te stesso, tornare a Dio.

La gratitudine nasce quando smetti di fissarti su ciò che manca e torni a vedere ciò che c’è. L’Eucaristia è proprio questo movimento: ritornare.
Non solo a Dio, ma anche a quella parte di noi che sa ancora stupirsi.

Tornare a quel punto interiore dove magari nessuna catena si scioglie, ma possiamo dire lo stesso: “Nonostante tutto, io sono amato”.

In questa celebrazione Eucaristica, portiamo i nostri “confini”, tutto ciò che siamo: i frammenti, le paure, i desideri. Con la certezza che Dio, sull’altare, non scarta nulla, anzi! Ci raggiunge, raccoglie tutto, lo benedice, lo spezza e ce lo restituisce come vita nuova.

E noi possiamo ripartire da qui, da quei “confini” in cui il Signore mette pace: liberi, guariti, riconoscenti; come quel lebbroso.

Perché la vera guarigione non è non avere più ferite,
ma saperle guardare alla luce della fedeltà di Dio.
Perché chi sa ringraziare non torna mai come prima:
torna più vivo, più vero, più vicino a Dio e a sé stesso. Amen.

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