Dalle labbra di Gesù
Tratto da "Conoscerlo e conoscerti" (II)
Autore: Nicolás Álvarez de las Asturias
I primi discepoli di Gesù erano del tutto affascinati e stupiti dal loro Maestro: insegnava con autorità, i demoni gli stavano sottomessi, affermava di avere la potestà di perdonare i peccati, faceva miracoli perché non dubitassero…
Un uomo così sorprendente doveva racchiudere in sé un mistero. Uno di quei giorni, all’alba, quando stanno per cominciare un’altra faticosa giornata, i discepoli non trovano Gesù. Escono di casa preoccupati e perlustrano la piccola città di Cafarnao. Gesù non si vede. Finalmente, in un pendio di montagna in riva al lago, lo scoprono… mentre prega! (cfr. Mc 1, 35).
L’evangelista ci fa pensare che in un primo momento non lo capirono, ma ben presto poterono verificare che l’episodio di Cafarnao non era un fatto isolato. La preghiera faceva parte della vita del Maestro così come la predicazione, la preoccupazione per le necessità delle folle o il riposo. Tuttavia, mentre tutte queste attività erano per loro comprensibili e anche ammirevoli, quel periodo di tempo passato in silenzio li affascinava, benché non lo comprendessero per nulla. Soltanto dopo essere rimasti per un certo tempo accanto al Maestro, ebbero il coraggio di chiedergli: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (Lc 11, 1).
Non multa…
Conosciamo la risposta di Gesù a questa richiesta: la preghiera del Padrenostro. Qualcuno potrebbe pensare che i discepoli ne fossero rimasti delusi: soltanto queste poche parole? Questo faceva il Maestro durante lunghe ore? Ripeteva sempre le stesse cose? Possiamo anche immaginare che la risposta di Gesù non dovette soddisfarli del tutto; avrebbero preferito che Gesù continuasse i suoi insegnamenti. In questo senso, il vangelo di san Matteo, a differenza di quello di san Luca, ci può illuminare un po’ meglio, in quanto situa l’insegnamento del Padrenostro nel contesto del Sermone della Montagna: là Cristo aveva indicato le condizioni principali dell’orazione, di un’autentica relazione con Dio. Quali sono queste condizioni?
La prima è la rettitudine d’intenzione: occorre rivolgersi a Dio in quanto Dio, e non per altri motivi; naturalmente, non bisogna farlo soltanto perché ci vedano, né per simulare una bontà che non abbiamo (cfr. Mt 6, 5). Ci rivolgiamo a Dio perché egli è un essere personale, che non deve essere strumentalizzato Ci ha dato tutto quello che possediamo, esistiamo grazie al suo amore, ci ha fatto suoi figli, si prende cura di noi con tenerezza e ha dato la propria vita per salvarci. Egli non merita la nostra attenzione soltanto, né soprattutto, perché può farci ottenere cose. La merita… perché è Lui! San Giovanni Paolo II, quando era ancora vescovo di Cracovia, lo ricordava ai giovani: «Perché pregano tutte le persone (cristiani, musulmani, buddisti, pagani)? Perché pregano? Perché pregano anche quelli che credono di non pregare? La risposta è assai semplice. Prego perché c’è Dio. So che c’è Dio. Per questo prego».
La seconda è la familiarità: ci rivolgiamo a chi è Padre, Abbà. Dio non è un essere lontano, né ancor meno un nemico dell’uomo, che è necessario tenere buono, cercando di placare continuamente la sua ira e di accontentarlo nelle sue esigenze. Egli è il padre che si preoccupa dei suoi figli, che sa ciò di cui hanno bisogno, che dà loro ciò che è più conveniente (cfr. Mt 6, 8), che «pone le sue delizie fra loro» (cfr. Pro 8, 31).
Così si comprende meglio la terza delle condizioni dell’orazione, che è quella che introduce la rivelazione del Padrenostro: non sprecate troppe parole (cfr. Mt 6, 7). In tal modo potremo sperimentare quello che ci ricordava papa Francesco: «Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi!». Troppe parole possono frastornarci e deviare la nostra attenzione. Così, invece di guardare Dio e riposare nel suo amore, si corre il pericolo di finire prigionieri delle nostre necessità urgenti, delle nostre pene o dei nostri progetti; in altre parole, possiamo finire chiusi in noi stessi, senza che l’orazione ci apra veramente a Dio e al suo amore che trasforma.
Esiste un adagio latino, non multa, sed multum, che san Josemaría usava quando si riferiva al modo di studiare poiché ricorda l’importanza di non disperdersi in molte cose – non multa –, ma di approfondire l’essenziale – sed multum –. È un consiglio che serve anche per comprendere l’insegnamento di Gesù sulla preghiera. Il Padrenostro, nella sua brevità, non è una lezione deludente, ma un’autentica rivelazione del modo in cui è possibile la connessione autentica con Dio.
…sed multum
«Alla fine ti esamineranno sull’amore; impara ad amare come Dio vuole essere amato e cambia la tua condizione». Queste parole di san Giovanni della Croce ci ricordano che amare vuol dire adattarsi all’altro, intuire i suoi gusti e godere nel soddisfarli, imparare – alcune volte con qualche sofferenza – che non basta la nostra buona intenzione, ma bisogna imparare a indovinare.
Ma, per amare Dio, come riusciremo a indovinare? Come sapremo i suoi gusti? Il libro di Giobbe mette in evidenza questa difficoltà quando, alla fine, umilmente dice: «Io t’interrogherò e tu istruiscimi» (Gb 42, 4). È la stessa richiesta che secoli dopo i discepoli rivolsero a Gesù: «Insegnaci a pregare». Imparare a pregare, dunque, non è soprattutto una questione di tecnica o di metodo. Anzitutto è apertura a un Dio che ci ha mostrato il suo vero volto e che ha aperto per noi l’intimità del suo cuore. Soltanto conoscendo quello che c’è nel cuore di Dio potremo amarlo come egli vuol essere amato. E alla luce di questa conoscenza, cambiare l’indole della nostra orazione, imparare a pregare nel modo migliore.
Il Padrenostro è, dunque, il grande insegnamento di Gesù per farci entrare in sintonia con il cuore del Padre. Perciò si è parlato del carattere performativo di questa preghiera: sono parole che compiono in noi quello che significano, sono parole che ci cambiano. Non soltanto semplici frasi da ripetere: sono parole per educare il nostro cuore, per insegnargli a pulsare con quei palpiti d’amore che faranno piacere a nostro Padre del cielo.
Dire Padre e dire nostro mi colloca esistenzialmente nella relazione che definisce la mia vita. Ripetere sia fatta la tua volontà mi insegna ad amare i progetti di Dio e recitare rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori mi aiuta ad avere verso gli altri un cuore più misericordioso. «Le parole ci istruiscono e ci permettono di capire quello che noi dobbiamo desiderare e chiedere. E non come se con esse noi dovessimo convincere il Signore a concederci quello che chiediamo». Recitando questa preghiera impariamo a rivolgerci a Dio mettendo l’accento su ciò che è veramente importante.
Meditare le diverse richieste del Padrenostro, magari con l’aiuto di qualche grande commento antico – quello di san Cipriano o quello di san Tommaso –, o di altri più recenti come quello del Catechismo della Chiesa Cattolica, può essere un buon modo di cominciare a rinnovare la nostra vita di preghiera, e così vivere con maggior intensità la storia d’amore che deve essere la nostra vita.
Con parole ispirate
I discepoli, testimoni dell’orazione di Gesù, notarono anche che egli spesso si rivolgeva a suo Padre con le parole dei salmi. Lo avrà imparato da sua madre e da san Giuseppe. I salmi alimentarono la sua preghiera fino al momento supremo del suo sacrificio sulla croce: «Elì, Elì, lamma sabachtani?» recita il primo versetto del salmo 22 in aramaico, così come lo pronunciò Gesù nel momento in cui si consumava la nostra redenzione. Anche san Matteo riporta che nell’Ultima Cena, «dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mt 26, 30). Quali sono gli inni con i quali Cristo pregava?
Durante il pranzo di Pasqua i giudei bevevano quattro bicchieri di vino, che rappresentavano le quattro promesse di benedizione di Dio al suo popolo quando furono liberati dall’Egitto: «Vi sottrarrò», «vi libererò», «vi prenderò» e «diventerò» (Es 6, 6-7). Si bevevano in quattro diversi momenti durante la cena. Nello stesso tempo cantavano gli inni del Hallel, così chiamati perché cominciavano con la parola «hallel» («alleluia»). Sicuramente Gesù li recitò tutti pieno di gratitudine e lodando Dio, suo Padre, come un vero israelita, consapevole del carattere ispirato di queste preghiere, nelle quali sono condensate sia la storia dell’amore di Dio per il suo popolo, sia le disposizioni naturali del cuore dell’uomo nei confronti di un Dio sempre più amabile: la lode, l’adorazione, la supplica. la richiesta di perdono…
Non appare strano, dunque, che i primi cristiani seguissero questo modo di pregare di Gesù, sostenuti anche dal consiglio di san Paolo: «Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5, 18-20). Come quelle del Padrenostro, le parole dei salmi educavano i loro cuori, disponendoli a un rapporto autentico con Dio. Scoprivano, con meraviglia e gratitudine, che quei versetti avevano sempre prefigurato la vita di Cristo. E soprattutto comprendevano che il suo cuore di uomo vero era quello che meglio aveva saputo fare proprie le lodi, le richieste e le suppliche in essi contenuti. Da allora, «pregati e pienamente attuati in Cristo, i Salmi sono un elemento essenziale e permanente della preghiera della sua Chiesa. Sono adatti agli uomini di ogni condizione e di ogni tempo». Anche noi troveremo in essi «il nutrimento solido» (Eb 5, 14) per la nostra orazione.
E non solo i salmi. A questi si unirono ben presto diverse composizioni – «inni e cantici spirituali» – per lodare Dio tre volte santo, che si era rivelato come comunione di persone: Padre, Figlio e Spirito. Cominciò così l’elaborazione delle preghiere che saranno utilizzate nella liturgia o che alimenteranno la pietà al di fuori di essa; il proposito era quello di aiutarci a rivolgerci a Dio con parole adeguate, che esprimessero la nostra fede in lui. Queste preghiere, frutto dell’amore della Chiesa per il suo Signore, costituiscono inoltre un tesoro nel quale possiamo educare il nostro cuore. Proprio per questo san Josemaría scriveva: «La tua preghiera deve essere liturgica. Magari ti affezionassi a recitare i salmi e le preghiere del messale, invece delle preghiere private o particolari!».
Al soffio dello Spirito Santo
Tutti noi abbiamo imparato studiando dei testi scritti; perciò possiamo capire che le parole del Padrenostro, dei salmi e di altre preghiere della Chiesa ci hanno educato nel nostro rapporto con Dio, anche se finora non ci avevamo pensato. Tuttavia la parola di Dio ha una propria caratteristica: è viva, e proprio per questo può produrre novità impensate. La lettera agli Ebrei ci ricorda che «la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12).
Per questo le medesime parole, considerate più di una volta, non suonano sempre alla stessa maniera. Alcune volte davanti ai nostri occhi si aprono prospettive nuove, senza riuscirne a spiegare bene perché: è l’azione dello Spirito Santo che parla in noi. Lo spiegava, con precisione, sant’Agostino: «Il suono delle nostre parole percuote le orecchie, ma il vero maestro sta dentro. […] Ne volete una prova, o miei fratelli? Ebbene, non è forse vero che tutti avete udito questa mia predica? Quanti saranno quelli che usciranno di qui senza aver nulla appreso! Per quel che mi compete, io ho parlato a tutti; ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito Santo non istruisce internamente, se ne vanno via senza aver nulla appreso».
Si percepisce così la stretta relazione tra lo Spirito Santo, la parola ispirata e la nostra vita di preghiera. Ha ragione la Chiesa a invocarlo come il «Maestro interiore», che educa il nostro cuore con le parole che lo stesso Gesù ci ha insegnato, facendoci scoprire in esse prospettive sempre nuove, per conoscere meglio Dio e così amarlo ogni giorno di più.
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«Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19). L’orazione di nostra Madre si nutriva della sua stessa vita e della meditazione assidua della Parola di Dio; vi trovava la luce per vedere più in profondità le cose che le accadevano. Nel suo cantico di lode – il Magnificat – avvertiamo fino a che punto la Sacra Scrittura fosse il nutrimento continuo della sua preghiera. Il Magnificat è intessuto di riferimenti ai salmi e ad altre parole della Sacra Scrittura come, fra i tanti, il «cantico di Anna» (1 Sam 2, 1-11) o la visione di Isaia (Is 29, 19-20). Con questo nutrimento lo Spirito Santo preparava il suo sì incondizionato al messaggio dell’angelo. Affidiamoci a lei perché anche noi permettiamo alla parola divina di educare il nostro cuore e di renderci capaci di rispondere fiat! – avvenga! Lo voglio! – ai tanti progetti che Dio ha per la nostra vita.
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