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Le parole della spiritualità: sensi e spirito, vigilanza, lotta spirituale, idolatria

Lessico della vita interiore

Autore: Enzo Bianchi

SENSI E SPIRITO:

Appare problematica, oggi, l’integrazione della dimensione sensoriale nell’esperienza spirituale. Ha ancora senso l’espressione «esperienza di Dio»? O bisogna rassegnarsi alla sua diluizione in una dimensione puramente intellettuale (esperienza di Dio intesa come parlare di o scrivere su Dio) o alla sua riduzione all’attività sociale caritativa e filantropica (esperienza di Dio intesa come relazione altruista) o a farne l’appannaggio del mondo della mistica? L’incontro con Dio avviene sì nella fede e non nella visione, ma si impone a tutto l’uomo, corpo e sensi compresi. Agostino lo proclama: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace» (Confessioni X, 27,38). Il testo di Agostino echeggia quella dottrina dei «sensi spirituali» che ha in Origene il suo iniziatore. Scrive l’alessandrino: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo” perché l’anima si diletti dell’odore del Logos, egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita» (Commento al Cantico II,167,25).

Il Dio fattosi uomo ha affermato, una volta per sempre, l’eminente dignità spirituale del corpo. È vero che la dottrina tradizionale dei sensi spirituali si fonda a volte sulla contrapposizione e rottura fra sensi corporei e sensi spirituali, ma in certe sue modulazioni (per esempio in Bonaventura) si percepisce la continuità fra i due livelli di sensi e comunque, al di là delle antropologie – oggi forzatamente impraticabili – che sottostavano alle antiche formulazioni dottrinali, è essenziale recuperare e riformulare l’istanza profonda che esse esprimevano. Il sensus fidei non è un sapere dottrinale, ma è connesso a un vissuto, a una conoscenza «pratica» di Dio che porta ad assumere «il senso delle cose divine», cioè il discernimento. Magistero di questo discernimento è la liturgia eucaristica, dove il mistero celebrato è il mistero della fede: ma la liturgia eucaristica è esperienza che coinvolge tutti i sensi del credente: ascoltare la Parola di Dio proclamata, vedere le icone, le luci, i volti dei fratelli, gustare il pane e il vino eucaristici, odorare i profumi, l’incenso, toccare l’altro con l’abbraccio di pace… Nell’incarnazione, la rivelazione è entrata nell’uomo attraverso tutti i sensi; nell’economia sacramentale la celebrazione del mistero coinvolge sì tutti i sensi dell’uomo, ma esigendo anche un loro affinamento e una loro trasfigurazione: si tratta di cogliere la realtà «in Cristo».

I sensi non sono aboliti, ma ordinati dalla fede, allenati dalla preghiera, innestati in Cristo, trasfigurati dallo Spirito santo: il battezzato può così manifestarsi quale nuova creatura che «”vede” realmente il Figlio di Dio; “ode” e “ascolta” la sua parola; lo “tocca” e si nutre di lui; lo “gusta”; respira la vita nello Spirito santo». Così si esprime l’esegeta Donatien Mollat mostrando l’emergere dei sensi spirituali nel quarto Vangelo. E non si pensi che si tratti di un’esperienza «mistica», inaccessibile ai più. L’«ascolto» della Parola di Dio attraverso la lettura orante delle Scritture porta il credente a «vedere» il volto del Cristo, a «toccare» la sua presenza che gli si impone, a «gustare» la consolazione dello Spirito, a piangere preso da compunzione… È la concretissima esperienza spirituale. L’esperienza di fede è esperienza di bellezza, di un incontro tanto reale quanto indicibile, di una presenza più intima a noi del nostro stesso intimo. Ed è esperienza che investe anche il corpo e i sensi. In Oriente, il santo è l’uomo con il volto luminoso, il cui corpo esala profumo, la cui somaticità è ormai evento di bellezza e di comunione. Certo, guai a confondere lo psicologico e l’emozionale con lo spirituale, ma lo spirituale traversa lo psichico e investe i sensi del corpo. E allora i «sensi spirituali» non sono solo metafore, ma connotano l’esperienza della comunione con il Signore nei vari aspetti in cui si può manifestare all’animo umano: dolcezza, forza, intimità, adesione amorosa, obbedienza, presenza intensa. È la sobria ebrietas; è l’esperienza dell’amore. Quando Agostino afferma che l’occhio vede a partire dal cuore e che solo l’amore è capace di vedere, ci suggerisce che i sensi spirituali sono i sensi permeati dall’esperienza profonda dell’amore di Dio. Amore che purifica, ordina e rende intelligente l’amore umano. Ma chi oggi sa farsi «iniziatore alla vita spirituale del corpo, in un mondo che confondendo o separando corpo e spirito li ha perduti entrambi e va morendo di questa perdita?» (Cristina Campo).

VIGILANZA

«Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante.» Questo apoftegma di Abba Poemen, un padre del deserto, esprime bene l’essenzialità che la vigilanza riveste nella vita spirituale cristiana. In che consiste?

Il Nuovo Testamento, opponendola allo stato di ubriachezza e a quello della sonnolenza, la definisce come la sobrietà e il «tenere gli occhi ben aperti» di colui che ha un fine preciso da conseguire e da cui potrebbe essere distolto se non fosse, appunto, vigilante. E poiché lo scopo da conseguire per un cristiano è la relazione con Dio attraverso Gesù Cristo, la vigilanza cristiana è totalmente relativa alla persona di Cristo che è venuto e che verrà. Basilio di Cesarea termina le sue Regole morali affermando che lo «specifico» del cristiano consiste proprio nella vigilanza in ordine alla persona di Cristo: «Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene». La sottolineatura della dimensione temporale presente in questo testo non è casuale. Tipo del vigilante è il profeta, colui che cerca di tradurre lo sguardo e la Parola di Dio nell’oggi del tempo e della storia. La vigilanza è dunque lucidità interiore, intelligenza, capacità critica, presenza alla storia, non distrazione e non dissipazione. Unificato dall’ascolto della Parola di Dio, interiormente attento alle sue esigenze, l’uomo vigilante, diviene responsabile, cioè radicalmente non indifferente, cosciente di doversi prendere cura di tutto e, in particolare, capace di vigilare su altri uomini e di custodirli. «Essere episcopus, vescovo» scrive Lutero «significa guardare, essere vigilante, vigilare diligentemente.» È dunque, la vigilanza, una qualità che richiede grande forza interiore e produce equilibrio: si tratta di attivare la vigilanza non solo sulla storia e sugli altri, ma anche su di sé, sul proprio ministero, sul proprio lavoro, sulla propria condotta, insomma su tutta la sfera delle relazioni che si vivono. Affinché su tutto regni la signoria di Cristo.

La difficoltà della vigilanza consiste proprio nel fatto che anzitutto è su di sé che occorre vigilare: il nemico del cristiano è in lui stesso, non fuori di lui. «Vegliate su voi stessi e pregate in ogni tempo: che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita», dice Gesù nel Vangelo di Luca. La vigilanza è al prezzo di una lotta contro se stessi: il vigilante è il resistente, colui che combatte per difendere la propria vita interiore, per non lasciarsi trascinare dalle seduzioni mondane, per non farsi travolgere dalle angosce dell’esistenza, insomma, per unificare fede e vita e per mantenersi nell’equilibrio e nell’armonia; vigilante è colui che aderisce alla realtà e non si rifugia nell’immaginazione, nell’idolatria, che lavora e non ozia, che si relaziona, che ama e non è indifferente, che assume con responsabilità il suo impegno storico e lo vive nell’attesa del Regno che verrà. La vigilanza è dunque alla radice della qualità della vita e delle relazioni, è al servizio della pienezza della vita e combatte le seduzioni che la morte esercita sull’uomo. Così Paolo ammonisce i cristiani di Tessalonica: «Non dormiamo come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri».

Per la simbolica biblica, ma anche per altre culture (si pensi alla mitologia greca che fa di Hypnos, Sonno, il gemello di Thanatos, Morte), cadere nel sonno significa entrare nello spazio della morte. Vigilare, invece, non è solo un atteggiamento proprio dell’uomo attento e responsabile, ma acquisisce un significato particolare per il cristiano che pone la sua fede nel Cristo morto e risorto. La vigilanza è assunzione intima e profonda della fede nella vittoria della vita sulla morte. Così il vigilante diviene non solo uomo sveglio, che si oppone all’uomo addormentato, intontito, che ottunde i suoi sensi interiori, che rimane alla superficie delle cose e delle relazioni, ma diviene anche uomo di luce e capace di irradiare luce. «Illuminati» tramite l’immersione battesimale, i cristiani sono «figli della luce» chiamati a illuminare: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini affinché, vedendo il vostro operare la bellezza, rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5,16). Non si tratta di esibizionismo spirituale, anzi, dell’effetto traboccante della luce che, abitando un cuore vigilante, non può rimanere nascosta, ma di per sé emerge e si diffonde. In certo senso, la vigilanza è l’unica cosa assolutamente essenziale al cristiano: essa è la matrice di ogni virtù, è il sale di tutto l’agire, la luce del suo pensare e parlare. Senza di essa tutto l’agire del cristiano rischia di essere in pura perdita. Disse Abba Arsenio: «Bisogna che ognuno vigili sulle proprie azioni per non faticare invano».

LOTTA SPIRITUALE

Movimento essenziale della vita spirituale cristiana è la lotta spirituale. Già la Scrittura esige dal credente tale atteggiamento: chiamato a «dominare» all’interno del creato, l’uomo deve esercitare tale dominio anche su di sé, sul peccato che lo minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo»(Genesi 4,7).

Si tratta dunque di una lotta interiore, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla consumazione del male. Paolo, servendosi di immagini belle e sportive (la corsa, il pugilato), parla della vita cristiana come di uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore dell’uomo per poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall’antropologia biblica, dell’organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell’intelligenza è della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l’unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento. La lotta spirituale mira, secondo la tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Se il suo fine è l’apatheia, questa va intesa non nel senso dell’impassibilità, ma dell’assenza di patologie. Così la lotta spirituale mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev’essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Sia l’Occidente che l’Oriente cristiano hanno codificato gli ambiti, gli spazi, in cui va esercitata tale lotta per mantenere il credente in un atteggiamento sano, cioè di comunione e non di consumo. La tradizione monastica ha sempre affermato con grande forza che la vita di fede assume la forma di un’incessante lotta contro le tentazioni. Antonio, il «padre dei monaci», ha detto: «Questa è la grande opera dell’uomo: gettare su di sé il proprio peccato davanti a Dio, e attendersi tentazioni fino all’ultimo respiro».

Ma che significa «tentazione»? Con questa espressione si indica un pensiero (i Padri greci parlano di loghismoi), una suggestione, uno stimolo che muove dall’esterno dell’uomo (ciò che si vede, che si ascolta, che ci sta intorno ecc.) oppure dal suo stesso interno, dalla sua struttura personale, dalla sua storia, dalle sue peculiari fragilità, e che insinua nell’uomo la possibilità di un’azione malvagia, contraria all’Evangelo. Dal catechismo frequentato in fanciullezza molti ricorderanno la lista dei «sette peccati capitali», diffusasi nel mondo cattolico soprattutto nell’epoca della Contro riforma, ma risalente a Gregorio Magno, il quale parlava di vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria. A sua volta questa lista di sette era un rifacimento dell’elenco degli otto pensieri malvagi formulato da Evagrio Pontico nel IV secolo e volgarizzato in Occidente da Giovanni Cassiano. Rileggere oggi questi «peccati» uscendo dalla griglia moralistica e dalla casistica con cui sono giunti fino a noi e interpretarli come «rapporti» può mostrare la loro sconcertante modernità (molti vi hanno visto una forma di psicoanalisi ante litteram) e aiutarci a raggiungere il nucleo profondo ed estremamente semplice da cui sgorgava noal di là delle forme più o meno maldestre con cui ci sono stati fatti conoscere. Evagrio parlava anzitutto di gastrimarghía, la quale non investe solo il rapporto con il cibo (né va banalizzata nel «peccato di gola»), ma ogni forma di patologia orale (si pensi alle articolate implicazioni della bulimia e dell’anoressia). La porneía designa poi gli squilibri nel rapporto con la sessualità, soprattutto la tendenza a cosificare il corpo proprio e dell’altro, ad assolutizzare le pulsioni e a ridurre a oggetto di desiderio chi è chiamato a essere soggetto di amore. La philarghyria designa sì l’avarizia, ma più profondamente ci rinvia al rapporto con le cose e denuncia la tendenza dell’uomo a lasciarsi definire da ciò che possiede.

L’orghé (ira) indica il rapporto con gli altri, che può essere stravolto fino alla violenza con la collera, e in cui il credente è chiamato al paziente e faticoso esercizio (cioè, etimologicamente, all’ascesi) dell’accettazione dell’alterità. La lype indica la tristezza, ma anche la frustrazione di chi non vive in modo equilibrato il rapporto con il tempo e resta incapace di arrivare all’unificazione del tempo della propria vita. Lacerato tra nostalgia del passato e fughe irreali in avanti, l’uomo preda dello spiritus tristitiae è incapace di aderire all’oggi, al presente. L’akedia (accidia; scomparso nella lista occidentale di Gregorio Magno probabilmente perché fatto confluire nella tristezza) designa una pigrizia, un taedium vitae, una demotivazione radicale che diviene pulsione di morte e financo tendenza suicidaria. Si manifesta come instabilità radicale, disgusto di ciò che si vive, volontà di azzeramento della propria esistenza, e rivela l’incapacità di vivere armonicamente il rapporto con lo spazio. Lakenodoxia, vanagloria, è la tentazione di definirsi a partire da ciò che si fa, dal proprio lavoro, dalla propria opera: essa investe dunque l’ambito del rapporto con il fare, con l’operare. Infine, la yperephania (superbia) designa la hybris nel rapporto con Dio. È l’orgoglio, l’affermazione dell’ego, la sostituzione di «io» a «Dio». Non è difficile vedere come il combattimento spirituale, che individua questi ambiti – riassuntivi di tutti i rapporti costitutivi della vita – come «campi di battaglia», voglia guidare il credente alla maturità personale e al dispiegamento della piena libertà. Vigilanza e attenzione sono la «fatica del cuore» (Barsanufio) che consente al credente di operarne la purificazione: è dal cuore, infatti, che escono le intenzioni malvagie ed è il cuore che deve divenire dimora del Cristo grazie alla fede. In questo senso la «custodia del cuore» (phylakè tes kardias) è l’opera per eccellenza dell’uomo spirituale, la sola veramente essenziale. Ma come avviene tale lotta? La sconfinata letteratura ascetica sull’argomento, dal De agone Christiano di Agostino alle opere di Evagrio Pontico e di Giovanni Cassiano fino al celebre trattato Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli(1530-1610), consente di individuare un itinerario preciso, un dinamismo attraverso cui si sviluppa la tentazione nel cuore umano e che occorre disarticolare con la lotta interiore. È un dinamismo in quattro momenti fondamentali: la suggestione, il dialogo, l’acconsentimento, la passione (o vizio). La suggestione è l’insorgere nel cuore dell’uomo della possibilità di un’azione malvagia, peccaminosa. Questo carattere negativo del pensiero è discernibile dal fatto che provoca turbamento nel cuore, toglie la pace e la serenità.

Questo momento è assolutamente universale: nessuno ne è esente. Se con questo pensiero ci si intrattiene e si dialoga, se si neutralizza, ricorrendo a espedienti autogiustificatori, il disagio e il turbamento che esso ingenera nel profondo dell’uomo, allora esso diviene, pian piano, una presenza prepotente nel cuore, presenza non più dominabile, ma che domina l’uomo. E allora che avviene l’acconsentimento, cioè una presa di posizione personale che contraddice la volontà di Dio. Se gli acconsentimenti si ripetono perché non si mostra alcuna capacità di lotta, allora si diventa schiavi di una passione, di un vizio. Questo processo elementare può invece essere spezzato da una lotta che si eserciti subito, alloro nascere, contro i pensieri e le suggestioni. Ma di nuovo: quali sono, molto concretamente, le modalità di tale lotta? Anzitutto l’apertura del cuore all’interno di una relazione con un padre spirituale; quindi, la preghiera e l’invocazione del Signore; l’ascolto e l’interiorizzazione della Parola di Dio; una vita di relazione, di carità, intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, cioè la possibilità dell’idolatria. Le forme che la tentazione può rivestire sono molteplici e abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici fondamentali. li rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose (in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l’operare e, infine, con Dio.

Tutti questi ambiti del nostro vivere, che definiscono la nostra identità umana e spirituale, devono essere ordinati e disciplinati attraverso una lotta. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. E per questo la lotta contro la tentazione trova il suo magistero eminente nell’eucaristia, che appunto è celebrazione della vita come comunione con Dio e con gli uomini. A questa lotta occorre esercitarsi: bisogna anzitutto saper discernere le proprie tendenze di peccato, le proprie fragilità, le negatività che ci segnano in modo particolare, quindi chiamarle per nome, assumerle e non rimuoverle, e infine immettersi nella lunga e faticosa lotta volta a far regnare in sé la Parola e la volontà di Dio! Organo di questa lotta è infatti il cuore, inteso biblicamente come organo della decisione e della volontà, non tanto dei sentimenti. La capacità di lotta spirituale, l’apprendimento dell’«arte della lotta» (Salmo 144,1; 18,35) è essenziale per l’accoglienza della Parola di Dio nel cuore umano. Se essa manca, allora «le preoccupazioni mondane, l’inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie soffocano la Parola» nel cuore dell’uomo e questa «rimane senza frutto» (Marco 4,19). Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne, ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa produce. È grazie ad essa che la fede diviene fede che rimane, perseveranza. È grazie ad essa che l’amore viene purificato e ordinato. Ha testimoniato il Patriarca ecumenico Atenagora: «Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”. Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”». Sì, la tentazione, come ha scritto Origene, «fa del credente un martire o un idolatra».

IDOLATRIA

Cosa evoca in noi il termine «idolatria»? Ormai abbandonata – o, meglio, confinata alle estreme terre delle sempre più esigue popolazioni rimaste «pagane» – l’accezione «feticistica», trasposta in ambito di popolarità sportiva o musicale la dimensione di «adorazione» incantata di un personaggio, messa in crisi una certa idealizzazione politica con il relativo culto della personalità, non si può però certo dire che gli idoli siano scomparsi dalla nostra esistenza, con tutto il loro carico di asservimento e di appiattimento dell’uomo e della sua libertà. Gli idoli, infatti, continuano a essere opera dell’uomo, e la loro creazione, sopravvivenza, trasformazione e funzionamento rispondono a precise istanze e bisogni antropologici. Non dimentichiamo che l’idolo –inteso come «simulacro», «feticcio» – non è la personificazione del dio, e in questo non inganna l’adoratore che è perfettamente consapevole di trovarsi di fronte non al dio in persona bensì a un’opera delle proprie mani, un «manufatto» che egli stesso offre al dio come «immagine visibile» affinché questi acconsenta ad assumerne il volto. Così, chi adora una statua sa benissimo che il dio non coincide con quell’idolo: in essa trova il volto accettato dal divino che sta prima di ogni immagine. In questo senso si può dire che l’esperienza umana del divino precede il volto che quel divino assume in essa, l’elaborazione umana del divino anticipa il volto idolatrico e così l’idolo restituisce all’uomo, sotto la forma del volto di un dio, la sua stessa esperienza del divino. Così quello che emerge a livello di «simulacro», di oggetto, si rivela autentico anche allivello più profondo (o più alto) dell’immagine: l’idolo, che sia esso statua o realtà immateriale o ideologia, non inganna ma fornisce certezze riguardo al divino. Anche quando appare nel suo aspetto terribile, l’idolo è rassicurante perché identifica il divino nel volto di un Dio. Forse da questo aspetto nasce la sua sorprendente efficacia «politica»: anticamente esso rendeva vicino, a portata di mano il dio che, identificandosi con la polis, le assicurava un’identità. Ecco perché, anche dopo il tramonto del paganesimo, la politica non ha cessato di suscitare degli idoli: che siano «il grande condottiero» o «l’uomo della Provvidenza» o «il più amato dalla gente», questi uomini, divinizzati, scongiurano il divino o, se si preferisce, il destino umano. È l’idolatria a conferire dignità al culto della personalità, a trasformarla in una figura «vicina», familiare, addomesticata del divino.

Qui si coglie la dimensione politica dell’idolatria, il suo essere un attentato alla libertà umana, e si comprende anche come la lotta ant-idolatrica richieda adesione alla realtà e l’attivazione dell’interiorità, di uno spazio interiore, della capacità critica, affinché la libertà non sia solo libertà di reagire, ma di agire, di proporre, di progettare. Non solo, ma questo annullamento della distanza, questa «familiarità» che rende schiavi (non dimentichiamo che il termine familia indicava all’origine l’insieme dei servitori di una casa), la si ritrova anche negli idoli «immateriali» così potenti ai giorni nostri: non è un caso che il mito oggi più affascinante – il successo in termini di potere, di denaro e di sesso – venga incontro e dia sfogo a tre libidines insite in ogni essere umano: la libido dominandi, la libido possidendi e la libido amandi. Così, opera non delle mani ma delle pulsioni dell’uomo, queste tre forze si ergono di fronte a lui, gli chiedono adorazione e servizio, gli rubano la libertà promettendogli partecipazione al «divino», accesso al sovraumano, protezione contro le forze mortifere. Ora, quando il cedimento ai richiami delle tre libidines passa dalla sfera personale a quella sociale, assume connotati idolatrici che nella nostra società occidentale si possono identificare sul piano economico con l’adorazione di tutto ciò che si può calcolare, dalla quotazione di un’azione in borsa al saldo di un conto corrente, al numero di esecutori della propria volontà. In particolare, potremmo affermare, echeggiando il Benjamin di Capitalismo e religione, che, in una società in cui il paradigma dell’homo oeconomicus ha preso il posto dell’homo religiosus, sempre di più il denaro e le istituzioni del mercato tentano di appagare quelle preoccupazioni e quelle ansie a cui un tempo davano risposta le religioni. Forse la miglior raffigurazione dell’idolo si trova nella moneta, nella banconota: lo «spirito» del denaro si incarna nella moneta e le immagini delle banconote sono le icone che rivelano ed emanano tale spirito.

Nel denaro si «crede» e, certo, la maggior parte degli uomini pone la fiducia nel denaro: il denaro dà sicurezza, fiducia. Eppure esso, ci ricorda il filosofo Vittorio Mathieu nella sua Filosofia del denaro, non è una cosa fisica e non è neppure legato alla materia se non come simbolo. Sul piano etico e sociologico l’attitudine idolatrica si identifica invece con l’adeguarsi al comportamento della «massa»: giusto è quello che fanno tutti, in una sorta di dedizione demagogica dell’adagio vox populi, vox Dei. Ma questa «massa», la tanto decantata «gente», non è un’entità autonoma, libera, non è un corpo le cui membra interagiscono per il bene comune, bensì un agglomerato indefinito, un accostamento di individualità pesantemente manipolato: così i sondaggi non registrano l’orientamento degli intervistati ma lo determinano, così le opere della finzione – letteraria, cinematografica, teatrale – non testimoniano i sentimenti e i comportamenti di un’epoca e di una cultura ma li condizionano, così le immagini non garantiscono l’autenticità di un fatto ma lo creano. La realtà virtuale non solo supera, ma scaccia la realtà effettiva: allora vero, oggettivo è ciò che appare; lecito è ciò che tecnicamente è possibile; encomiabile è ciò che suscita invidia. In fondo la strada verso l’idolatria resta sempre la stessa: un’affascinante strada di schiavitù, le cui catene e la cui gabbia appaiono sempre più dorate ma si rivelano sempre più rigide. È la strada dell’operare umano svincolato da un’istanza superiore – la dimensione del «divino» –che sola è capace di far emergere tutta la grandezza dell’uomo e di conferirgli unità e pienezza. È significativo che per la Bibbia non esistano gli atei, i senza-Dio: esistono invece gli idolatri ed esiste soprattutto la tentazione dell’idolatria che colpisce tutti, il credente come chi credente non può definirsi. L’uomo abbandonato a sé, l’uomo che ignora o disprezza l’immagine di Dio che abita in se stesso e nel proprio simile, l’uomo che pretende di costruire la propria vita da se stesso non è ateo, è idolatra, schiavo di quelle «emanazioni», di quelle forze oscure che penetrano nel cuore umano e ne mettono in moto gli elementi deteriori.

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