Obbedienza, povertà, digiuno e speranza
Lessico della Vita Interiore VIII : Le parole della spiritualità
Autore: Enzo Bianchi
OBBEDIENZA : «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti 5,29).
Questo grande principio biblico sull’obbedienza ha un carattere profondamente liberante.
Nella visione biblica,infatti, l’obbedienza è inscindibile dalla libertà: solo nella libertà si può obbedire, e solo obbedendo all’Evangelo si entra nella pienezza della libertà.
In modo lapidario si è espresso Bonhoeffer: «L’obbedienza senza libertà è schiavitù, la libertà senza obbedienza è arbitrio». Ma prima di cogliere il proprium cristiano dell’obbedienza occorre ricordare l’aspetto antropologico della stessa. Vi è un’obbedienza fondamentale che ogni uomo è chiamato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi,eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione.
Si tratta dei bagagli che la nascita fa trovare già pronti a chiunque viene al mondo e che lo accompagneranno nel cammino dell’esistenza.
Un credente legge questa obbedienza come «creaturale» e vi riconosce quell’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che consente all’uomo di diventare uomo fuggendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio.
Il senso del racconto genesiaco della proibizione di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male è esattamente questo: l’uomo è uomo nella misura in cui non ambisce il tutto. Il limite, il finito è l’ambito della sua relazione con Dio.
Secondo la Bibbia l’obbedienza va compresa all’interno di questa relazione, cioè all’interno della categoria dell’alleanza. È tale relazione con Dio che rende liberante e perfino gioiosa l’obbedienza alla Legge rivelata a Mosè sul Sinai.
Se laLegge è manifestazione della volontà di Dio, del partner contraente l’alleanza, l’obbedienza a tutti i suoi comandi è il desiderio stesso del credente che ama il suo Dioe trova la sua gioia nel fare la sua volontà. La formulazione usata in Esodo 24,7 per indicare l’accettazione della volontà di Dio espressa nella Legge da parte del popolo d’Israele è significativa: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo e lo ascolteremo». La prassi, la messa in pratica della parola, precede l’ascolto della parola stessa, quasi a suggerire che è più importante l’assenso fondamentale dato a Dio che la specificazione del contenuto dei singoli comandi. Inoltre il testo significa che solo mettendo in pratica la Parola, cioè obbedendola realmente, la si comprende veramente.
Questo radicamento dell’obbedienza all’interno dell’alleanza, dunque della relazione di ascolto del credente nei confronti del suo Dio, dà il tono anche all’obbedienza cristiana.
Per il NuovoTestamento l’ascoltare, inteso nel senso di percezione della volontà di Dio, si realizza veramente solo quando l’uomo, con la fede e l’azione, obbedisce a quella volontà.
Come coronamento dell’ascoltare (akouein/audire) nasce dunque l’obbedire (hypakouein/obaudire), quell’obbedire che consiste nel credere.
Paolo parla più volte dell’«obbedienza della fede», intendendo che la fede si configura come obbedienza e che l’obbedienza manifesta la fede. Ma il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’obbedienza del Cristo stesso.
Ora, i tre più significativi testi che ci parlano dell’obbedienza di Cristo (Romani 5,19: «per l’obbedienza di uno solo, tutti saranno costituiti giusti»; Filippesi 2,8: «Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte»; Ebrei 5,8: «Cristo imparò l’obbedienza dalle cose che patì») compiono di fatto una sintesi della vita, del ministero e dell’opera salvifica di Gesù ponendoli sotto la categoria dell’obbedienza. Al centro di essa vi è pertanto la relazione filiale vissuta daGesù con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli, gli uomini.
Il quarto Vangelo sottolinea questa dimensione obbedienziale di Gesù, presentandolo come il pienamente spossessato di sé che in ciò che dice, fa ed è sempre rinvia al Padre che l’ha mandato.
Questa obbedienza amorosa dà senso al vivere e al morire, anche alla morte di croce, e ne fa un atto di libertà!
Qui dunque si innesta l’obbedienza cristiana, qui trova la sua «misura» e la sua forma: una forma plasmata dallo Spirito santo, che obbliga dunque il credente a viverla creativamente, responsabilmente, non in modo legalistico. Sì, il criterio dell’obbedienza cristiana è lo Spirito santo che interiorizza in ciascuno le esigenze dell’Evangelo e lo porta a viverle come espressioni della volontà del Signore assunte fino a farle proprie.
Alla luce di questa obbedienza fondamentale, si possono comprendere, accettare e vivere le altre obbedienze alle istanze mediatrici della volontà di Dio. Sempre però tenendo presente che su tutto deve essere fatto regnare l’Evangelo e tutto deve essere sottoposto al criterio decisivo dell’Evangelo.
Quando le mediazioni della volontà di Dio (autorità ecclesiastiche, dottrine teologiche, regolemonastiche, riti cultuali ecc.) si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora devono essere criticate e ricondotte all’obbedienza evangelica.
Infatti«bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini».
POVERTÀ
Il discorso cristiano sulla povertà è molto delicato.
Si tratta di un argomento facilmente manipolabile: estrapolando alcuni testi evangelici si può fondare su di essi un rigorismo tanto radicale quanto irrealizzabile e perciò irreale. D’altro canto, nell’attuale clima diesaltazione del «mercato» si arriva perfino a cercare (e a pretendere di trovare) ilfondamento evangelico al sistema capitalistico. Denunciando in partenza il caratterefuorviante di qualunque forma di demonizzazione del «mercato», dell’«impresa» ecc.,che a volte è dato di riscontrare in ambienti cattolici – e riconosciuto che il giudizio datoin ambito cattolico a questioni e realtà economiche è spesso grossolano, assolutamenteinadeguato alla realtà, mosso da stereotipi arcaici che non rendono minimamenteragione della realtà economica odierna, e dunque risulta ideologico o semplicementeinutile – io vorrei rileggere la povertà a partire dal messaggio evangelico eneotestamentario per trarne indicazioni per il nostro oggi.Dall’insieme del Vangeloemerge che il discorso sulla povertà trova il suo senso solo se non viene isolato macontestualizzato all’interno del centro che ha mosso la vita e la predicazione di Gesù:l’annuncio dell’irruzione del Regno di Dio; la rivelazione che in lui Dio visita il suopopolo. Questo primato del Regno, che diviene primato di Cristo e della sua sequela,relativizza tutte le realtà umane e ordina il rapporto con esse. È così che l’irruzione delRegno nel Messia inviato ai poveri significa la beatitudine dei poveri (Luca 6,20-26),proclamati beati non perché poveri, ma perché nel Messia è loro data la caparra dellafine della loro povertà: il Regno che Dio instaurerà pienamente appartiene loro.
Altempo stesso, accanto a questa povertà negativa e multiforme, che abbraccia i mali, lemalattie, i peccati, la morte, cioè tutte le realtà che feriscono la pienezza di vitadell’uomo, e da cui l’uomo dev’essere liberato, il Cristo pone l’istanza di una povertàinteriore, la povertà in spirito (Matteo 5,3), che riguarda l’essere non l’avere. Èl’attitudine di fede e di umiltà di chi non confida in sé, nei propri beni o nella propriaforza, ma nel Signore.Il primato del Regno relativizza drasticamente le ricchezze: Gesùmette in guardia da esse, perché possono prendere possesso del cuore ed ergersi a idolo(«Mammona»), arrivando così a sostituirsi a Dio e a disumanizzare l’uomo. Del resto,già Aristotele aveva proclamato «contro natura» l’atteggiamento di chi cerca la felicitàaccumulando ricchezze: queste possono essere solo un mezzo, non un fine.
Vi è infattiuna dimensione antropologica della povertà, assolutamente da assumersi per obbedirealla propria chiamata creazionale, per divenire ciò che si è. La feroce critica allaricchezza e l’invettiva contro i ricchi presente nella lettera di Giacomo non esaurisconocerto il messaggio neotestamentario su povertà e ricchezza, ma significano unatteggiamento profetico e critico che la chiesa deve mantenére desto nella storia, a costodi scontrarsi con i poteri mondani costituiti. E, in effetti, Gesù pone l’istanza evangelicadella povertà anche nei termini di libertà dal potere: «Voi però non così» (Luca 22,26) èil categorico comando di Gesù costitutivo della chiesa come comunità eucaristicastrutturata in modo «altro» rispetto a quello dei poteri mondani. La povertà qui apparecome opposta al potere. La presenza evangelica della comunità cristiana porta con séuna valenza di contro-cultura, di critica del potere dominante: ma questa valenza èattiva solo quando all’interno della chiesa l’autorità è declinata non come potere macome servizio.
Ridurre la povertà a virtù privata significa disinnescarne un’evangelicapotenzialità critica. Non a caso nel periodo tardomedievale, in concomitanza con unamancanza di istanza critica nei confronti dell’evoluzione della società in campoeconomico, la chiesa arrivò a espungere la povertà dal proprio ideale canonico disantità. Solo con il Vaticano II si tornerà a parlare di chiesa povera e di poveri, e nonsolo per i poveri o con i poveri. In questa prospettiva si riprende il fondamentocristologico della povertà: «Cristo, da ricco che era, si fece povero per voi, perarricchirvi mediante la sua povertà» (2 Corinti 8,9). Fondamento che fa della povertànon un consiglio riservato ad alcuni, ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti icristiani. Essa però non è una legge che norma le forme storiche della povertà. Lo stessoNuovo Testamento presenta numerose e differenziate forme: esso parla di vendita deibeni, di rinuncia, di abbandono, di condivisione dei beni, di collette a favore di chiesepovere ecc. il fondamento cristologico diviene fondamento trinitario se pensiamo alCristo che è povero perché, secondo il quarto Vangelo, tutto ciò che egli ha, dice e fa loriceve dal Padre. Questa relazione intratrinitaria di ascolto e accoglienza reciproca delPadre e del Figlio diviene comunicazione all’uomo attraverso il dono dello Spirito.
Ed èproprio lo Spirito che può suscitare la creatività dei cristiani nella storia per guidarliall’obbedienza al Vangelo eterno nel rinnovato contesto storico. il fondamentocristologico e trinitario della povertà deve interrogare la chiesa almeno su due punti, cherappresentano una sfida che i prossimi anni riservano al cristianesimo: vivere lamissione come missione povera, traducendo nell’oggi le richieste esigentissime di Gesùcirca la povertà dell’inviato (cfr. Luca 9,1-6; 10,1-16). Solo una missione povera puòrivolgersi a destinatari poveri e può non smentire praticamente il Vangelo, parola dellacroce, che essa annuncia. il farsi povero di Cristo, infatti, trova nella donazione di sésulla croce l’apice’della sua manifestazione. Inoltre occorre pensare la povertà comedimensione comunitaria, ecclesiale, non solo come virtù individuale. Ma ciò richiede laripresa dell’orizzonte escatologico come plasmante le strutture ecclesiali e il modo diporsi della chiesa nella storia e anche l’ascolto del grido dei milioni di poveri che dallaterra sale a Dio e chiede giustizia.
DIGIUNO
Assistiamo oggi in Occidente a un’eliminazione de facto della pratica ecclesiale deldigiuno: così una prassi vissuta già da Israele, riproposta da Cristo, accolta dalla grandetradizione ecclesiale, è sempre meno presente, non più richiesta… Eppure, per ritrovarela propria verità, quella verità umana che con la grazia diventa la verità cristiana,occorre pensare, pregare, condividere i beni, conoscere il male che ci abita, ma anchedigiunare, inteso come disciplina dell’oralità. il mangiare appartiene al registro deldesiderio, deborda la semplice funzione nutritiva per rivestire rilevanti connotazioniaffettive e simboliche.
L’uomo, in quanto uomo, non si nutre di solo cibo, ma di parolee gesti scambiati, di relazioni, di amore, cioè di tutto ciò che dà senso alla vita nutrita esostentata dal cibo. il mangiare del resto avviene insieme, in una dimensione diconvivialità, di scambio.L’oralità è connessa alle dimensioni del «mangiare», del«parlare», del «baciare», dunque alle dimensioni biologica, comunicativa e affettivadell’esistenza umana, e per questo ci rinvia alla totalità della persona che «vive» diqueste dimensioni. il digiuno svolge così la fondamentale funzione di farci sapere qual èla nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo, e di ordinare i nostriappetiti intorno a ciò che è veramente centrale. E tuttavia sarebbe profondamenteingannevole pensare che il digiuno – nella varietà di forme e gradi che la tradizionecristiana ha sviluppato: digiuno totale, astinenza dalle carni, assunzione di cibi vegetalio soltanto di pane e acqua – sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione oprivazione. Il mangiare infatti rinvia al primo modo di relazione del bambino con ilmondo esterno: il bambino non si nutre solo del latte materno, ma inizialmente conoscel’in distinzione fra madre e cibo; quindi si nutre delle presenze che lo attorniano: egli«mangia», introietta voci, odori, forme, visi, e così, pian piano, si edifica la suapersonalità relazionale e affettiva. Questo significa che la valenza simbolica del digiunoè attinente alla globalità di questi aspetti e pertanto la sua peculiarità non può trovaredegli «equivalenti»in altre forme di ascesi che, rivestendo altre valenze simboliche, nonpossono svolgere la sua funzione.
Gli esercizi ascetici non sono interscambiabili!Con ildigiuno noi impariamo a conoscere e a moderare i nostri tanti appetiti attraverso lamoderazione dell’appetito fondamentale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare lenostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre tentate divoracità. Il digiuno è ascesi del bisogno ed educazione del desiderio. Solo uncristianesimo insipido e stolto che si comprende sempre più come morale sociale puòliquidare il digiuno come sostanzialmente irrilevante e pensare che qualsiasi privazionedi cose superflue (dunque non vitali come il mangiare) possa essergli sostituita. Questaè una tendenza docetica che rende «apparente» la creaturalità umana e che dimentica sialo spessore del corpo sia il suo essere tempio dello Spirito santo. In verità il digiuno è laforma con cui il credente confessa la fede nel Signore con il suo stesso corpo, è antidotoalla riduzione intellettualistica della vita spirituale o alla sua confusione con lopsicologico. Certamente, poiché il rischio di fare del digiuno un’opera meritoria, unaperformance ascetica è presente, la tradizione cristiana ricorda che esso deve avvenirenel segreto, nell’umiltà, con uno scopo preciso: la giustizia, la condivisione, l’amore perDio e per il prossimo (Isaia 58,4-7; Matteo 6,I-I8).
Ecco perché la tradizione cristiana èmolto equilibrata e sapiente su questo tema: «Il digiuno è inutile e anche dannoso perchi non ne conosce i caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «È megliomangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza i propri fratelli»(abba Iperechio); «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se perquesto vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne chegonfiarsi e vantarsi» (Isidoro Presbitero).
Sì, noi siamo ciò che mangiamo, e il credentenon vive di solo pane, ma soprattutto della Parola e del Pane eucaristici, della vitadivina: una prassi personale ed ecclesiale di digiuno fa parte della sequela di Gesù cheha digiunato (Matteo 4,2), è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli lapreghiera e il digiuno (Matteo 6,16-18; 9,15; Marco 9,29; cfr. Atti 13,2-3; 14,23), èconfessione di fede fatta con il corpo, è pedagogia che porta la totalità della personaall’adorazione di Dio (e si noti che l’etimologia di «adorare» contiene il rimando allabocca, os-oris, alla dimensione dell’oralità). In un tempo in cui il consumismo ottundela capacità di discernere tra veri e falsi bisogni, in cui lo stesso digiuno e le terapiedietetiche divengono oggetto di business, in cui pratiche orientali di ascesiripropongono il digiuno, e la quaresima è sbrigativamente letta come l’equivalente delramadan musulmano, il cristiano ricordi il fondamento antropologico e la specificitàcristiana del digiuno: esso è in relazione alla fede perché fonda la domanda: «Cristiano,di che cosa vivi?».
SPERANZA
Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di moltiche gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?».
Questa domanda deveessere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro.Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristianosa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere achiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere achiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi èdrammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti disenso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranzaa vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere edi morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitatadalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret?
Queste domande non possonoessere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticitàed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella«società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto ilsegno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, dellacristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranzeche si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di brevedurata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suonaormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce chel’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questapaurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili stradedi speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativasoprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.
L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso oquanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sullacarità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto delripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti delbisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata,che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è,cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve esserevisibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testodi Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città diDio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di unsenso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definirela speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro ladisperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa»(E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada dellavita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Roma viator, spe erectus: è lasperanza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.Ilcristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, lasperanza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzanteche si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto.
La vittoria di Cristo sulla mortediviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui sipossono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò lapropria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere dichiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uominisulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini(1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logicapasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con personeche non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, coluiche gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, leprove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedereoggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio allesituazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vitaeterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, maconcretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino hascritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi103,4,17).
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