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Fai di tutta la vita un'orazione

Seminare con la preghiera

Autore: Padre Rodolphe Plus S.J.

Fare accuratamente l’orazione quotidiana; fare di tutta la propria vita un’orazione. Sono le condizioni richieste per giungere a una vera e profonda unione con Dio.

C’è ancora qualcosa da aggiungere: la preoccupazione di seminare durante la giornata il maggior numero possibile di aspirazioni verso Dio, cioè l’abitudine delle orazioni giaculatorie.
Spieghiamo meglio di cosa si tratta e i relativi vantaggi.

È evidente che la maggior parte delle anime desiderose di giungere a una vera pietà, non domanda di meglio che pensare spesso a Dio. Come fare per arrivarci?
Abituiamoci innanzi tutto a pensare a Dio di tanto in tanto. Cominciamo con ciò che è più facile: un atto di offerta a Dio, per esempio, ogni volta che mutiamo occupazione. Santa Teresa d’Avila consiglia, qualora non si riesca a praticare costantemente l’esercizio della presenza di Dio, di ricordare il Signore almeno qualche volta: «Se può, lo ricordi spesso ogni giorno, o almeno di tanto in tanto; e, fattane l’abitudine, presto o tardi ne caverà profitto. Dopo aver ottenuto questa grazia, non vorrà cambiarla con alcun tesoro».

Fénelon fornisce consigli più particolareggiati: «Approfittate dei ritagli di tempo in cui siete meno occupati nelle cose esteriori per occuparvi di Dio nell’intimo del cuore; per esempio, rimanere semplicemente e familiarmente alla presenza di Dio nello sbrigare un lavoro. Solamente quando conversiamo con il prossimo è più difficile mantenere la presenza di Dio; anche in questi casi potremo tuttavia innalzare la mente al Signore: uno sguardo generale, e vero, ma che aiuterà a regolare le parole e a reprimere le delicatezze dell’amor proprio.
«Non conviene interessarsi troppo, fino a esserne sazi, a quanto si dice o si fa intorno a noi. Una volta compreso ciò che Dio esige in una data situazione, limitiamoci a quello e lasciamo perdere il resto. Così conserveremo sempre libero e immutato il fondo dell’anima nostra […].

«Un eccellente mezzo per mantenere la solitudine interiore è la libertà di spirito consiste in questo: conclusa un’azione, evitiamo di tornarci sopra con pensieri di vanità o di tristezza, perché ci danneggerebbero molto. Beato chi conserva nello spirito lo stretto necessario e pensa a ogni cosa solo al momento opportuno!».
Dopo altri eccellenti consigli, conclude: «Rinunciamo a tutte le soddisfazioni che non provengono da Dio; liberiamoci dai pensieri e dalle fantasticherie inutili e non pronunciamo alcuna parola vana».
Ancora un dettaglio prezioso: «Un po’ di presenza di Dio quando si è a tavola, specialmente se il pranzo è lungo e piacevole, servirà a mantenervi nei limiti della sobrietà e a fortificarvi contro le eccessive raffinatezze. Si può pensare un po’ a Dio nei momenti in cui l’appetito modera la loquacità dei commensali; ma tutto ciò si deve fare solo nella misura in cui si possa fare senza impaccio».

Queste ultime parole sono da sottolineare e ricordare. Un’importante norma della vita spirituale vuole che si eviti con cura tutto quanto può limitare in qualche modo «la santa libertà dei figli di Dio», tutto ciò che possa comprimere o impedire la dilatazione e lo slancio dello spirito, che possa provocare la tensione dell’animo a danno della pace e della serenità.

Nella vita di alcuni Padri del deserto e di certi santi contemporanei, si legge come si esercitavano nel rinnovare il ricorso a Dio, raggiungendo nella giornata cifre straordinarie di giaculatorie. San Leonardo da Porto Maurizio, per esempio, aveva preso la risoluzione di ripetere l’invocazione Gesù mio, misericordia mille volte al giorno, mentalmente o vocalmente. San Luigi Gonzaga -attesta una rivelazione di santa Maria Maddalena de’ Pazzi- non smetteva di lanciare verso il cielo frecce infuocate di amore di Dio, San Francesco Saverio ripeteva cosi spesso l’invocazione O Santissima Trinitas!, che gli idolatri avevano preso l’abitudine di ripeterla senza comprenderne il significato. Padre William Doyle, sei mesi prima della tragica morte scriveva nel suo diario: «Il Signore vuole che io raggiunga il numero di centomila aspirazioni quotidiane. Gesù mi chiede questo in riparazione per i sacerdoti».

Per raggiungere l’unione con Dio è forse necessario rivaleggiare con queste anime privilegiate, aspirare a simili sforzi, sottostare ad una matematica che può diventare opprimente? No.
Può convenire, in linea di principio, cercare di rendere sempre più numerose e frequenti le preghiere giaculatorie; è tuttavia opportuno che la loro assiduità obbedisca a due regole raccomandate con insistenza dai maestri di spiritualità, in particolare da padre Alvarez de Paz, che dona preziosi consigli per stabilire il rapporto esatto tra gli sforzi generosi e il riposo dovuto all’anima . Le regole sono: evitare l’eccessiva stanchezza della mente, che porterebbe presto al disgusto; seguire le ispirazioni della grazia, giacche lo Spirito Santo non domanda a tutti le stesse cose.

In ogni caso, non meravigliamoci mai e soprattutto non scoraggiamoci se, nonostante le risoluzioni prese con prudenza -consideriamo infatti quest’unica ipotesi- non riusciamo a raggiungere, specialmente all’inizio, il numero prefissato di giaculatorie; oppure se ci accorgiamo di avere raggiunto oggi un numero inferiore a quello di ieri. Siamo, per definizione, esseri incostanti, e sulla terra non si avanza di vittoria in vittoria, ma piuttosto di rivincita in rivincita.

Il padre de Caussade osserva in merito: «Non dobbiamo mai meravigliarci se un giorno di grande raccoglimento è seguito da un altro pieno di dissipazione; è la nostra condizione nella vita presente. Tale incostanza è necessaria anche nella vita spirituale per mantenerci nell’umiltà e nella dipendenza da Dio. Persino i santi sono passati per queste fasi alterne».
Sono perfettamente d’accordo -dirà qualche anima buona- ma la mia difficoltà non è l’assenza di prudenza pratica e neppure la mancanza di generosità. Non chiedo di meglio che pensare a Dio. Ma come ricordarsi di pensare a Dio? Come svincolarmi per un attimo soltanto dal mondo sensibile -nel quale sono immerso e che mi domina- e scoprire, fosse anche per un baleno, l’Invisibile?

Facilitano il contatto con l’Invisibile -ripetiamo- la pratica della meditazione quotidiana, il fare bene la propria preghiera, l’esercizio del continuo distacco, il trasformare tutto in preghiera, cioè l’elevarsi a Dio con la purezza dell’intenzione, e non discendere su noi stessi con l’obbedienza ai nostri capricci. Ma può succedere che, fatta con cura la meditazione e praticato con buona volontà il distacco, l’anima, attratta dalle cose esteriori e vittima delle circostanze, incontri molte difficoltà nel ritrovare la presenza esplicita di Dio. Si passeranno ore, persino una mattinata o un giorno intero, senza pensare una volta all’ospite divino, senza una sola giaculatoria. Come comportarsi in questi casi?

Poiché lo scoglio principale è il mondo sensibile, il rimedio consiste nel cercare di unire il ricordo delle realtà spirituali a un qualsiasi dato d’ordine sensibile. Trasformare il nemico in alleato; utilizzare un particolare della vita materiale per risvegliare in noi l’idea del mondo spirituale; servirsi del corpo per aiutare l’anima. Sant’Ignazio, da buon psicologo, nella sua teoria sull’esame particolare sfrutta questa realtà del composto umano e consiglia di combinare insieme gesto materiale e idea divina.

Si potrà, per esempio, stabilire di provocare in noi il ricordo della presenza di Dio ogni volta che si passa davanti ad un’immagine sacra, a un crocifisso, a una statua; o quando si compie un’azione anche comune: uscire di casa, entrare in una camera, iniziare una certa occupazione, ecc. Le persone semplici fanno un nodo al fazzoletto per non dimenticare quello che si propongono di compiere. Il padre Maunoir concludeva le missioni al popolo della Bretagna invitando gli uditori a cucire sulle maniche un «distintivo» della presenza di Dio -un cuore di panno rosso per gli uomini e di panno blu per le donne- affinché in mezzo alle fatiche dei campi e di casa quel vistoso pezzetto di stoffa rappresentasse un salutare richiamo alla preghiera. La pratica dell’Angelus è nata dal medesimo desiderio cristiano.

Dobbiamo forse temere che frequenti ritorni «dentro di noi» danneggino l’adempimento dei nostri doveri di stato? Certamente no. Anzi, se praticati con giudizio, non mancheranno di dare impulso alle opere e rendere più coscienzioso e generoso il nostro impegno. «Questo esercizio non è difficile -scrive san Francesco di Sales.- Esso si può benissimo fare durante le faccende e le occupazioni; tanto nel raccoglimento spirituale, quanto negli slanci interiori; basta volgere un momento altrove la mente; il che non solo non intralcia, ma aiuta a compiere l’opera intrapresa».

D’altronde è chiaro che più l’occupazione è manuale, minore è il rischio di disturbarla con l’esercizio esplicito della presenza di Dio; al contrario, più l’occupazione è di ordine intellettuale e richiede l’impegno di tutte le nostre facoltà, tanto meno si deve esigere uno sforzo violento per interromperla di quando in quando, al fine di rivolgere il pensiero o la parola al Signore.
In molti casi, non osservare questo principio significa aver capito male il proprio dovere. Se le orazioni giaculatorie intralciano il lavoro, è opportuno trascurarle a vantaggio della sua buona riuscita. Prima di tutto, come abbiamo gia detto, c’è il dovere di stato. Sant’Ignazio di Loyola, studente all’università di Parigi, durante le lezioni si sentiva dominato dal pensiero per le cose divine: dal suo cuore erompevano atti d’amore che si succedevano ininterrottamente; era al «settimo cielo», si, ma non seguiva le lezioni. Comprese presto che gli studi ne avrebbero risentito e supplico umilmente Dio di frenare quelle aspirazioni d’amore, per potere condurre in porto gli studi. È un esempio di spiritualità rettamente intesa.

Ma quali sono le migliori orazioni giaculatorie? Quali preferire ?
Rispondiamo subito: ciascuno si abbandoni all’inclinazione che sente in cuore, ecco la grande regola! Vi sono momenti in cui per le disposizioni interiori, per i suggerimenti dell’orazione o gli inviti della liturgia, prorompono spontanei i sentimenti della via purgativa: «Pietà Signore! Miserere! Fiat! Gesù mio, misericordia!». Altre volte le aspirazioni si riferiscono alla via illuminativa: «Gesù, siatemi Gesù!» -ripeteva san Filippo Neri- o la popolare invocazione «Sacro Cuore di Gesù, confido in Voi!». Altri preferiscono le orazioni della via unitiva, che sono in se le migliori e tendono efficacemente a mantenere l’unione con Dio: «O beata Trinitas!» di sant’Ignazio, «Mio Dio e mio tutto» di san Francesco d’Assisi e altrettante simili

Senza pregiudizio di quanto finora spiegato, nel caso di un’anima senza inclinazioni o indicazioni speciali, suggeriamo quale orazione giaculatoria di singolare valore il segno di croce e il Gloria Patri. In generale conviene avere una spiritualità disinvolta, senza accumulare troppe pratiche avventizie. Prima di andare in cerca di formule e devozioni particolari, sfruttiamo quelle che usiamo ordinariamente. Nella giornata capita tante volte di fare il segno di Croce o, specialmente se siamo tenuti all’ufficio divino, di recitare il Gloria Patri.
Quale migliore richiamo della presenza di Dio?!

Segnaliamo a questo proposito l’immenso beneficio per chi ha incentrato la vita spirituale non solamente sulla presenza di Dio in generale, al di fuori di noi, ma sulla presenza di Dio in noi.
Ricercare Dio presente fuori di noi richiede un certo sforzo immaginativo, quindi un lavoro faticoso che finisce per stancare. Rivolgersi a Dio presente in noi, invece, richiede un semplice sguardo di fede.
L’inabitazione divina nell’anima in stato di grazia e, infatti, una realtà, per cui non devo immaginarmi grandiosi scenari e neppure -quando voglio occuparmene- intraprendere viaggi avventurosi e fantastici fino ai confini dello spazio. Devo fare una cosa sola: entrare in me stesso. Qui trovo il Signore.

Le parole: Nel nome del Padre non mi fanno pensare a un padre lontano mille miglia da me, oppure che mi domina con tutta la sua immensità, davanti alla quale il mio cuore batte trepidante di paura invece d’intenerirsi; ma un padre vicinissimo, nascosto nell’intimo del mio cuore. Nel nome del Padre che è qui, che ha in me la sua casa, secondo l’espressione di padre Faber; nel nome del Figlio che mi aspetta sulla soglia del mio cuore; nel nome dello Spirito Santo che, penetrando la mia vita per darle un valore eterno, non mi lascia da solo un istante e opera sempre con me.
La grande idea dogmatica -è utile ripeterlo- sulla quale più facilmente si può appoggiare una vita di raccoglimento, consiste nel pensiero di Dio presente nelle nostre anime per mezzo della grazia santificante.
Chi ha preso familiarità con questa idea ha tutto l’occorrente per praticare -solo o con altri- l’unione con Dio, e per valersi delle cose circostanti come strumenti che riconducono sempre al centro della vita spirituale.
Anche soli con noi stessi, abbiamo «qualcosa di sovrumano» che continuamente ci accompagna. Se abbiamo sufficientemente sviluppato lo spirito di fede, se conosciamo un poco il dono di Dio, se veramente crediamo; se, per noi, «Dio nella nostra anima» non è solo una bella formula, un bel tema per pie dissertazioni, ma un fatto innegabile, reale; se l’espressione «siamo i tabernacoli viventi di Dio e veramente i suoi templi santi» ha per noi valore di realtà, potrà ancora sembrare impraticabile o difficile fare ogni cosa con raccoglimento?
Un’anima di fede, quando entra in una cattedrale, abbassa istintivamente la voce, misura i gesti e assume un atteggiamento più composto: è alla presenza della divina Maestà, del Grande Ospite. Tace e adora. Qualunque cosa debba fare, non può ignorare Colui che nel tabernacolo dimora e vive.

Siamo altrettante cattedrali viventi, siamo per noi stessi la nostra cappella, in noi Dio dimora e vive se siamo in stato di grazia.
E allora?

Allora la conclusione è semplice e immediata: vivere e agire come se fossimo costantemente in chiesa davanti al tabernacolo.
L’eucaristia non è il solo sacramento della presenza reale di Dio fra gli uomini, c’è anche il battesimo. L’inabitazione delle tre persone divine in noi dopo il battesimo, non è meno reale della presenza del Signore nel tabernacolo; la differenza fra le due presenze riguarda unicamente le modalità, ma non la loro realtà.

Perché allora, appena usciti di chiesa, ci comportiamo come se la presenza reale fosse scomparsa? Ciò avviene perché la nostra fede non è abbastanza salda e siamo ancora lontani dal comprendere questo grande dono di Dio.
Fuori di chiesa il raccoglimento dev’essere altrettanto profondo che dentro la chiesa, anche se per un motivo differente.
L’unica differenza deriverà dalle diverse esigenze del nostro dovere di stato in chiesa o fuori.

In chiesa entro per compiere pratiche di culto e atti di preghiera, ma quando esco porto nell’intimo del cuore la presenza reale; di conseguenza, ogni azione dovrà essere compiuta in compagnia dell’ospite divino, dulcis hospes animae. Non rimango immobile in un’adorazione «statica», poiché il mio dovere di stato mi comanda di agire; e neppure agirò caoticamente senza spirito di adorazione, perché la fede mi ricorda l’ospite presente in me e che io sono un ciborio vivente.

Opero secondo il mio dovere, ma non agisco «senza Dio» perché l’Altissimo non mi abbandona.
Dove potremo trovare, considerando la cosa dal lato dei principi, una dottrina più luminosa, più semplice e più efficace per fare sorgere dalle nostre anime -in modo, oserei dire, incessante- un grido d’aiuto, una parola dolce, un segno che provi a Colui che mai ci abbandona che noi non siamo assenti, riconosciamo l’incomparabile tesoro della sua continua presenza?
«La fede ci attesta -scrive san Paolo della Croce- che il nostro cuore è un grande santuario, perché é tempio di Dio e dimora della santissima Trinità.
«Visitate spesso questo sacro edificio e procurate che i ceri, cioè la fede, la speranza e la carità, siano sempre accesi. Ravvivate sovente la vostra fede quando studiate, lavorate, mangiate, quando vi coricate o vi alzate e quando fate degli slanci d’amore verso Dio».

Su questo argomento dobbiamo ascoltare specialmente santa Teresa d’Avila: «Ricordate quel che dice sant’Agostino, il quale, dopo aver cercato Dio in molti luoghi, lo trovo finalmente in se stesso. Ora, credete che importi poco per un’anima soggetta a distrazioni comprendere questa verità e conoscere che per parlare con il suo Padre celeste e godere della sua compagnia non ha bisogno di salire al cielo, ne di alzare la voce? Per molto basso che parli, Egli, che le è vicino, l’ascolta sempre. E per cercarlo non ha bisogno di ali perché basta che si ritiri in solitudine e lo contempli in se stessa. Nonché allora spaventarsi per la degnazione di un tal Ospite, gli parli umilmente come a Padre, gli racconti le pene che soffre, gliene chieda il rimedio, riconoscendosi indegna di essere chiamata sua figlia».

Per rassicurare quanti potrebbero stupirsi nel vedere portare a così sublimi conseguenze pratiche una dottrina così semplice ed essenziale, la Santa aggiunge: «Quelle tra voi che sanno racchiudersi in questo modo nel piccolo cielo della loro anima, ove abita Colui che la creo [… ], vanno per buona strada e non mancheranno di arrivare all’acqua della fonte».

Segue poi un’osservazione che mira a non sottovalutare, come purtroppo facciamo spesso, il grande dono di Dio: «Se procurassimo di ricordarci spesso dell’Ospite che abbiamo in noi, sarebbe impossibile, secondo me, abbandonarci con tanta passione alle cose del mondo, perché, paragonate a quelle che portiamo in noi, apparirebbero in tutta la loro spregevolezza».
E termina con parole infinitamente preziose: «Io per me vi confesso che mai seppi cosa volesse dire pregare con soddisfazione fino a quando il Signore non mi pose su questa via. […] Concludo ripetendo che dipende tutto da noi. Chi vuol arrivare a questo stato, non deve mai lasciarsi scoraggiare. Si abitui a ciò che ho detto, e a poco a poco si farà padrone di sé. Non solo non perderà nulla, ma guadagnerà sé per se stesso, facendo servire i propri sensi al raccoglimento dell’anima. Se deve parlare, penserà che ha da parlare in se stesso con qualche altro. Se deve ascoltare, si ricorderà di prestare orecchio a una voce che gli parla più da vicino. E, volendolo, constaterà di poter star sempre con Dio, rimpiangendo il tempo in cui ha lasciato solo un tal Padre, i cui soccorsi gli sono tanto indispensabili. Se può, lo ricordi spesso ogni giorno, o almeno di tanto in tanto; e, fattane l’abitudine, presto o tardi ne caverà profitto. Dopo aver ottenuto questa grazia, non vorrà cambiarla con alcun tesoro.

«Per amor di Dio, sorelle, riguardate per bene impiegati tutti gli sforzi che a questo scopo farete, giacché nulla s’impara senza un po’ di fatica. Se vi applicate decisamente, sono sicura che l’aiuto di Dio non vi mancherà, e solo in un anno, o anche in mezzo, ne verrete a capo felicemente».
Un’ultima considerazione su un argomento così importante. In mezzo al mondo, nel contatto necessario e abituale con altre persone, tra le faccende personali, nelle opere di carità e d’apostolato, nelle relazioni di amicizia o di affari, una profonda consapevolezza del donum Dei aiuta più di ogni altra cosa a conservare la presenza di Dio.

Dio vive in noi. Ma vive, o vuole vivere, anche nel prossimo, che gravita intorno a noi: di conseguenza, sapendoci sempre in mezzo a tanti tabernacoli viventi -attuali o potenziali- è tanto facile ricordare le tre persone divine!
Neppure in questo caso si richiedono sforzi di immaginazione o faticose «composizioni di luogo», di cui certe anime si sentono incapaci. Basta considerare la realtà, non servono costruzioni mentali: è sufficiente una semplice constatazione, per dare al reale il suo giusto valore. Una giovane madre, per esempio, occupata ad accudire alle molteplici cure dei suoi bambini, non dica mai «l’unione con Dio mi è impossibile», ma pensi che è circondata da tanti «tabernacoli» e da tante «presenze reali» quanti sono i suoi bambini. I suoi piccoli sono battezzati? Si. Dio vive in loro!

Il professore, la maestra di scuola, l’industriale, ciascuno vive immerso nel proprio mondo. Allievi, operai, capi officina e colleghi sono -realmente o in desiderio e per destinazione divina- altrettanti portatori di Dio. Perché vedervi altre cose? O almeno, perché non considerare anche questo, soprattutto questo? Il «dono di Dio» non è solo per noi, ma anche per gli altri, che sono creati e messi sulla terra per essere «divinizzati». Il Salvatore ha donato per loro tutto il suo sangue. Il soggiorno nel mondo serve proprio a prepararli al cielo e consiste nel possedere anticipatamente le tre persone divine, attraverso la grazia, in attesa di goderle eternamente nella gloria.
– Ma non ci penso!
– Una conoscenza più esplicita e profonda del mistero dell’inabitazione divina vi aiuterà certamente a pensarvi più spesso.

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