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Fare del lavoro, una preghiera

Lavorare bene, lavorare per amore - XI

Autore: Javier López Díaz

«Ogni onesto lavoro può essere orazione; e ogni lavoro che è orazione, è apostolato. In tal modo l’anima si irrobustisce in un’unità di vita semplice e forte».
Lavoro, orazione, apostolato: tre termini che, per chi sa di essere figlio di Dio, non appaiono ambiti diversi, perché si vanno fondendo nella vita come le note di un accordo fino a comporre una partitura armonica.
All’inizio dell’attività professionale, può darsi che si ascolti esclusivamente il suono isolato del proprio lavoro, monotono e senza grazia. Quando, però, si scopre come sia possibile trasformarlo in orazione che s’innalza al Cielo e in apostolato che feconda la terra, il suono comincia ad acquistare ritmo e bellezza. Se rinunciassimo all’impegno di creare e comporre, ritorneremmo alle note isolate, ai suoni senza melodia. Invece, appena permettiamo che lo Spirito Santo governi
la nostra vita professionale e diriga l’orchestra, sgorga la musica, una composizione stupenda di amore a Dio e agli uomini nel lavoro quotidiano. Ognuna delle facoltà del nostro essere – volontà, intelligenza, affetti… – interpreta la sua parte con maestria, e così si ottiene quell’unità di vita semplice e forte che piace a Dio e che attrae gli uomini verso di Lui.
Tre sono gli aspetti dell’attività professionale che conviene esaminare con attenzione per ottenere l’armonia dell’unità di vita: l’intenzione, il criterio e la condotta coerente con entrambi.
L’unità di vita nel lavoro professionale dipende, in primo luogo, dalla rettitudine d’intenzione: dalla chiara e ferma decisione di lavorare per amore a Dio, non per ambizione o altre forme di egoismo; di fronte a Dio e cercando la sua gloria, non di fronte agli uomini e cercando la propria gloria, l’ammirazione degli altri.
«Nessuno può servire due padroni». Non possiamo ammettere compromessi, non possono convivere nel cuore «una candela a San Michele e un’altra al diavolo». L’intenzione dev’essere trasparente. Eppure, è possibile sperimentare che, pur volendo vivere per la gloria di Dio, la rettitudine della volontà si distorce facilmente nelle azioni concrete, nelle quali, insieme a motivi santi, spesso si possono trovare aspirazioni meno chiare. Perciò san Josemaría consiglia
di purificare la volontà, rettificando continuamente l’intenzione. «Rettificare. – Ogni giorno un po’. – Questo è il tuo lavoro costante, se davvero vuoi farti santo».
Chi lavora con rettitudine d’intenzione cerca di realizzare bene il suo compito sempre. Non lavora in un modo quando gli altri lo vedono e in un modo diverso quando non lo vede nessuno.
Sa che Dio lo guarda e perciò cerca di compiere il proprio dovere con perfezione, come piace a Lui. Cura i dettagli di ordine, di laboriosità, di spirito di povertà…, anche se nessuno lo osserva o se non ne ha voglia. Nei giorni grigi del lavoro normale, quando c’è il pericolo della monotonia, un figlio di Dio si sforza di mettere le ultime pietre per amore, e così il suo lavoro diventa preghiera.
I momenti di successo o di insuccesso mettono alla prova la qualità della nostra intenzione, stante la tentazione della presunzione o lo scoraggiamento. San Josemaría insegna a prepararsi alle situazioni come queste, che potrebbero indurre a ripiegarsi su se stessi, distorcendo la propria volontà. «Devi essere vigilante, perché i tuoi successi professionali o i tuoi insuccessi – che verranno! – non ti facciano dimenticare, neanche solo per un momento, qual è il vero fine del tuo
lavoro: la gloria di Dio!».
Per fortificare la rettitudine d’intenzione, vero pilastro dell’unità di vita, è necessario cercare la presenza di Dio nel lavoro – offrirlo all’inizio, rinnovare questa offerta appena possibile, ringraziare alla fine… – e fare in modo che le pratiche di pietà, soprattutto la Santa Messa, si prolunghino per tutta la giornata in un rapporto continuo con il Signore. Dimenticarsi di Dio nella professione indica scarsa unità di vita e non semplicemente un carattere distratto: chi ama veramente non dimentica l’amato.
La rettitudine d’intenzione è essenziale per l’unità di vita, ma non si deve dimenticare che la volontà ha bisogno della guida della ragione illuminata dalla fede. Alcune persone non riescono ad avere una condotta coerentemente cristiana non per una cattiva volontà iniziale, ma per mancanza di criterio. Quando non si mettono i mezzi per formare bene la coscienza, per acquistare una profonda conoscenza delle implicazioni morali di ogni professione, si corre il pericolo di accettare come norma ciò che è comune. Allora è possibile che si commettano, pur con buona volontà, gravi spropositi e ingiustizie, e, non sapendo giudicare con prudenza, si ometta di fare il
bene che si deve fare. La mancanza di criterio impedisce di raggiungere l’unità di vita.
L’uomo di criterio trova ciò che è buono, senza cadere negli estremi né venire a un compromesso con ciò che è mediocre. A volte la mancanza di criterio fa ritenere che l’alternativa a un difetto sia il difetto opposto: che per non essere rigidi si debba essere deboli, o per non essere aggressivi si debba essere bonaccioni… In pratica, non si è compresa bene la natura delle virtù. Il punto mediano in cui consiste la virtù – in medio virtus – non è fermarsi a metà, senza aspirare al vertice, ma raggiungere la cima tra due difetti. Si può essere energico e mite allo stesso tempo, comprensivo ed esigente in fatto di doveri, verace e discreto, allegro senza essere ingenuo.
«Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe», dice il Signore.
Il criterio indispensabile per l’unità di vita è un criterio cristiano, non semplicemente umano, perché la sua regola non è unicamente la retta ragione ma la ragione illuminata dalla fede viva, la fede plasmata dalla carità. Solo allora le virtù umane sono virtù cristiane. Un figlio di Dio non deve coltivare due tipi di virtù, alcune umane e altre cristiane, alcune senza la carità e altre con essa, perché questo sarebbe una doppia vita. Nel suo lavoro non deve adattarsi a praticare in alcune cose una giustizia solo umana – limitandosi, per esempio, allo stretto adempimento della legge – e in altre a praticare una giustizia cristiana permeata di carità, ma sempre e in
tutto quest’ultima: la giustizia di Cristo. «Considerate soprattutto i consigli e gli ammonimenti con cui preparava quel pugno di uomini che sarebbero diventati i suoi Apostoli, i suoi messaggeri, da un confine all’altro della terra. Qual è la regola principale che indica loro? Non è forse il comandamento nuovo della carità? È con l’amore che si sono aperti la strada in quel mondo pagano e corrotto. […] Quando si fa giustizia e basta, non c’è da meravigliarsi che la gente si senta ferita: la dignità dell’uomo, che è figlio di Dio, chiede molto di più. La carità deve accompagnare e penetrare tutto, perché addolcisce, deifica: Dio è amore (1 Gv 4, 16) […]».
La carità, che è come un generoso traboccare della giustizia, esige in primo luogo il compimento del dovere: si comincia con ciò che è strettamente giusto; si continua con il criterio dell’equità…;ma per amare ci vuole molta finezza, molta delicatezza, molto rispetto, molta affabilità.
In una parola, occorre seguire il consiglio dell’Apostolo: portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo (Gal 6, 2). […] Per questo occorre la forza d’animo di sottomettere la propria volontà al modello divino, di lavorare per tutti, di lottare per la felicità eterna e per il benessere temporale di tutte le anime. Il cammino migliore per essere giusti è una vita di dedizione e di servizio» . Questo è avere criterio cristiano, luce irrinunciabile per l’unità di vita.
Per acquisire questo criterio occorre dedicare tempo alla formazione e in particolare allo studio della dottrina. Sarebbe temerario fidarsi dell’intuizione e non adoperare i mezzi per formare la testa. Oltre a questo, però, non è sufficiente uno studio teorico. L’unità di vita cristiana richiede una dottrina assimilata nell’orazione.
Oltre a volere e sapere, l’unità di vita richiede operare, perché «le opere sono amore, non i bei ragionamenti». «Vedano le vostre opere buone e rendano gloria a vostro Padre che è nei cieli», dice il Signore. Conviene esaminarsi spesso, come consiglia san Josemaría: «Fiorisce intorno a te la vita cristiana? Pensaci ogni giorno».
Quando c’è unità di vita è logico che si noti, con naturalezza, attorno a noi. Chi nascondesse la propria condizione di cristiano per timore di essere etichettato, per timidezza o per vergogna, incrinerebbe l’unità di vita, non potrebbe essere sale e luce, le sue opere sarebbero sterili in ciò che riguarda la vita soprannaturale. Il Signore dice a ciascuno di noi: «Dabo te in lucem gentium, ut sit salus mea usque ad extremum terrae» – Io ti renderò luce delle nazioni perché porti
la mia salvezza fino all’estremità della terra. «Dobbiamo avere il coraggio di vivere pubblicamente e costantemente in conformità alla nostra santa fede», scrive san Josemaría, facendo eco all’ammonimento del Signore: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’Uomo, quando verrà nella
gloria sua». Gesù ci spinge anche con una meravigliosa promessa: «Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei Cieli». Non sono ammessi equivoci. Non bisogna temere di parlare di Dio: con la parola, perché lo stesso Cristo ha comandato: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura», e con l’esempio di una fede che opera per mezzo della carità. È naturale che gli altri, nell’ambiente in cui si muove un cristiano, conoscano la sua fede viva e operante. A maggior ragione deve risultare facilmente riconoscibile, per contrasto, in una società nella quale predominano il materialismo e l’edonismo. Se rimanesse inavvertita per lungo tempo, non sarebbe cosa naturale ma sarebbe dovuto a una doppia vita. Questo è ciò che succede tristemente a coloro che relegano la fede alla vita “privata”. Questo atteggiamento, se non è codardia bella e buona, se risponde all’idea che la fede non deve influire nella condotta professionale, rispecchia una mentalità non laicale ma laicista, che mira a espellere Dio dalla vita sociale e spesso a fare anche a meno della legge morale. È esattamente l’opposto dell’ideale di mettere Cristo in cima a tutte le attività umane. A questo siamo chiamati noi cristiani ed è bene che molti di coloro che vivono intorno a noi lo sappiano. Non solo, ma pur essendo vero che l’apostolato del cristiano che vive in mezzo al mondo dev’essere di «amicizia e confidenza» con i colleghi nella professione, uno a uno, questo non esclude che alcune volte sia conveniente o necessario – come esigenza dell’unità di vita – parlare in pubblico e spiegare le ragioni di una condotta morale, umana e cristiana. Le difficoltà possono essere molte, ma la fede assiste il cristiano e gli dà la fortezza di cui ha bisogno per difendere la verità e aiutare tutti a scoprirla.
In pratica, tuttavia, l’esperienza ci dice che è facile lasciarsi influenzare dalla mentalità laicista e convincersi, per esempio, che in un determinato ambiente professionale non è opportuno in nessun caso parlare di Dio, perché sarebbe scioccante o fuori luogo, o perché altri sosterrebbero che le posizioni di un cristiano in questioni professionali sarebbero condizionate dalla religione. Si presenta allora la tentazione di mettere tra parentesi la propria fede, proprio quando
dovrebbe manifestarsi.
«Aconfessionalismo. Neutralità. – Vecchi miti che tentano sempre di ringiovanire. Ti sei dato la pena di pensare quanto è assurdo smettere di essere cattolici quando si entra nell’Università, nell’Associazione professionale, in un’Assemblea di scienziati o in Parlamento, così come si lascia il cappello alla porta?». San Josemaría non invita a fare sfoggio, e ancor meno a utilizzare etichette di cattolico che non si conciliano con la mentalità laicale; ciò che chiede è prendersi il disturbo di meditare, ognuno sulla base della situazione in cui si trova, su quali siano le esigenze esteriori e visibili dell’unità di vita nella propria professione e nelle attività sociali che
svolge. «Dovete avere il coraggio, che certe volte non sarà poco, date le attuali circostanze, di fare presente – o meglio, tangibile – la vostra fede: vedano tutti le vostre opere buone e il motivo delle vostre opere, anche quando a volte arrivi una critica o la contrarietà di questi e di quelli».
L’unità di vita è un dono di Dio e, nello stesso tempo, una conquista che richiede una lotta personale. Il lavoro professionale è un terreno nel quale si forgia questa unità per mezzo di alcune precise decisioni da attuare completamente di fronte a Dio e con zelo apostolico. Con la grazia di Dio dobbiamo aspirare e arrivare ad amarlo totalmente: «ex toto corde, ex tota anima, ex tota mente, ex tota virtute» – con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.

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