Giungere alla Speranza
Prima Predica di Avvento
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
Un nostro poeta, Giuseppe Ungaretti, descrive lo stato d’animo dei soldati in trincea durante la Prima guerra mondiale con una poesia fatta di solo sette parole:
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Oggi è l’umanità intera che sperimenta questo senso di caducità della vita a causa della pandemia. “Il Signore – ha scritto san Gregorio Magno – a volte ci istruisce con le parole, a volte invece con i fatti”. Nell’anno segnato dal grande e terribile “fatto” del corona virus, ci sforziamo di raccogliere l’insegnamento che da esso ognuno di noi può trarre per la propria vita personale e spirituale. Sono riflessioni che possiamo fare tra noi credenti, ma sulle quali sarebbe forse controproducente insistere troppo presso la gente, per non accrescere le difficoltà che la fede incontra a causa del prolungarsi della pandemia.
Le verità eterne sulle quali vogliamo riflettere sono: primo, che siamo tutti mortali e “non abbiamo quaggiù dimora stabile”; secondo, che la vita del credente non finisce con la morte perché ci attende la vita eterna; terzo, che non siamo soli sulla piccola barca del nostro pianeta, perché il “Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi”. La prima di queste verità è oggetto di esperienza, le altre due sono oggetto di fede e di speranza.
“Memento mori!”
Iniziamo meditando oggi sulla prima di queste “massime eterne”: la morte. “Memento mori”: ricordati che morirai. I monaci Trappisti l’hanno scelto come motto del loro Ordine e lo scrivono nei luoghi di passaggio del monastero.
Della morte si può parlare in due modi diversi: o in chiave kerigmatica o in chiave sapienziale. Il primo modo consiste nel proclamare che Cristo ha vinto la morte; che essa non è più un muro contro cui tutto si infrange, ma un ponte verso la vita eterna. Il modo sapienziale o esistenziale consiste invece nel riflettere sulla realtà della morte così come essa si presenta all’esperienza umana, allo scopo di trarre da essa lezioni per vivere bene. È la prospettiva in cui ci collochiamo in questa meditazione.
Quest’ultimo è il modo in cui si parla della morte nell’Antico Testamento e in particolare nei libri sapienziali: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” chiede a Dio il salmista (Sal 90, 12). Tale modo di guardare alla morte non termina con l’Antico Testamento, ma continua anche nel Vangelo di Cristo. Ricordiamo il suo ammonimento: “Vegliate perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,13). Ricordiamo anche la conclusione della parabola del ricco che progettava di costruire granai più grandi per il suo raccolto: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Lc 12,20), e ancora il suo detto: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua vita?” (cf. Mt 16, 26).
La tradizione della Chiesa ha fatto proprio questo insegnamento. I Padri del deserto coltivavano il pensiero della morte, fino a farne una pratica costante e a tenerlo vivo con tutti i mezzi. Uno di essi, che lavorava a filare la lana, aveva preso l’abitudine di lasciar cadere ogni tanto il fuso per terra e “di mettere la morte davanti ai suoi occhi prima di sollevarlo di nuovo” “La mattina – esorta l’Imitazione di Cristo – fa conto di non arrivare alla sera. Scesa la sera non osare di riprometterti la mattina” (I, 23). Sant’Alfonso Maria de Liguori ha scritto un trattato intitolato Apparecchio alla morte che è stato per secoli un classico della spiritualità cattolica. Molti santi, dal XVI secolo in poi, sono rappresentati in meditazione davanti a un teschio.
Tale modo sapienziale di parlare della morte si riscontra in tutte le culture, non solo nella Bibbia e nel cristianesimo. Esso è presente, secolarizzato, anche nel pensiero moderno. Vale la pena accennare brevemente alle conclusioni cui sono giunti due pensatori la cui influenza è tuttora forte nella nostra cultura.
Il primo è Jean-Paul Sartre. Egli ha rovesciato il rapporto classico tra essenza ed esistenza, affermando che l’esistenza viene prima ed è più importante dell’essenza. Tradotto in termini semplici, questo vuol dire che non esiste un ordine e una scala di valori oggettivi e anteriori a tutto – Dio, il bene, i valori, la legge naturale – alla quale l’uomo deve conformarsi, ma che tutto deve partire dalla propria individuale esistenza e dalla propria libertà. Ogni persona deve inventare e realizzare il suo destino come il fiume, avanzando, si scava da solo il proprio letto. La vita è un progetto che non è scritto da nessuna parte, ma si decide con le proprie libere scelte.
Questo modo di concepire l’esistenza ignora completamente il dato della morte ed è confutato perciò dalla realtà stessa dell’esistenza che si vuole affermare. Che cosa può progettare l’uomo, se non sa neppure, né dipende da lui, se domani sarà ancora in vita? Il suo tentativo somiglia a quello di un carcerato che passa tutto il tempo a progettare l’itinerario migliore da seguire per passare da una parete all’altra della sua cella.
Più credibile, su questo punto, è il pensiero di un altro filosofo, Martin Heidegger, che pure parte da premesse analoghe e si muove nello stesso alveo dell’esistenzialismo. Definendo l’uomo “un-essere-per-la-morte” , egli fa della morte non un incidente che pone fine alla vita, ma la sostanza stessa della vita, ciò di cui essa è fatta. Vivere è morire. L’uomo non può vivere senza bruciare e accorciare la vita. Ogni minuto che passa è sottratto alla vita e consegnato alla morte, come, percorrendo in auto una strada, vediamo case ed alberi scomparire velocemente dietro di noi. Vivere per la morte significa che la morte non è solo la fine, ma anche il fine della vita. Si nasce per morire, non per altro.
Qual è allora – si domanda il filosofo – quel “nucleo solido, certo e invalicabile”, al quale la coscienza richiama l’uomo e sul quale deve fondarsi la sua esistenza, se vuole essere “autentica”? Risposta: il suo nulla! Tutte le possibilità umane sono, in realtà, delle impossibilità. Ogni tentativo di progettarsi e di elevarsi è un salto che parte dal nulla e finisce nel nulla . Non resta che rassegnarsi, fare – come si dice – di necessità virtù e amare anzi il proprio destino. Una versione moderna del “amor Fati” degli Stoici.
Sant’Agostino aveva anticipato anche questa intuizione del pensiero moderno sulla morte, ma per trarne una conclusione totalmente diversa: non il nichilismo, ma fede nella vita eterna.
Quando nasce un uomo – scriveva – si fanno tante ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto; forse sarà ricco, forse sarà povero; forse vivrà a lungo, forse no… Ma di nessuno si dice: forse morirà o forse non morirà. Questa è l’unica cosa assolutamente certa della vita. Quando sappiamo che uno è malato di idropisia [allora era questa la malattia incurabile, oggi sono altre] diciamo: Poveretto, deve morire; è condannato, non c’è rimedio”. Ma non dovremmo dire lo stesso di uno che nasce? “Poveretto, deve morire, non c’è rimedio, è condannato!”. Che differenza fa se in un tempo un po’ più lungo, o un po’ più breve? La morte è la malattia mortale che si contrae nascendo .
Dante Alighieri ha condensato in un solo verso questa visione agostiniana; definisce la vita umana sulla terra “ un vivere ch’è un correre alla morte” .
A scuola da “sorella morte”
Sull’onda dell’avanzare della tecnologia e delle conquiste della scienza, noi rischiavamo di essere come quell’uomo della parabola che dice a se stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!” (Lc 12, 19). La presente calamità è venuta a ricordarci quanto poco dipende dall’uomo “progettare” e decidere il proprio futuro, fuori della fede.
La considerazione sapienziale della morte conserva, dopo Cristo, la stessa funzione che ha la legge dopo la venuta della grazia. Anch’essa serve a custodire l’amore e la grazia. La legge – è scritto – è stata data per i peccatori (cf. 1 Tm 1, 9) e noi siamo ancora peccatori, cioè soggetti alla seduzione del mondo e delle cose visibili, tentati sempre di “conformarci a questo mondo” (cf. Rom 12, 2). Non c’è punto migliore in cui collocarsi per vedere il mondo, se stessi e tutti gli avvenimenti, nella loro verità che quello della morte. Allora tutto prende il giusto posto.
Il mondo appare spesso un groviglio inestricabile di ingiustizie e disordine. Tutto sembra avvenire a caso e non esserci alcuna coerenza o alcun disegno. Una specie di dipinto senza forma, in cui tutti gli elementi e i colori sembrano posti a caso, come in certe pitture moderne. Spesso si vede l’iniquità trionfare e l’innocenza punita. Ma perché non si creda che al mondo c’è qualcosa di fisso e di costante, ecco – notava Bossuet – che talvolta si vede il contrario e cioè l’innocenza sul trono e l’iniquità sul patibolo!
C’è un punto da cui osservare questo immenso quadro e decifrarne il significato. È la “fine”, cioè la morte, a cui segue immediatamente il giudizio di Dio (cf. Eb 9, 27). Visto da qui, tutto assume il suo giusto valore. La morte è la fine di tutte le differenze e le ingiustizie che esistono tra gli uomini. La morte, diceva il nostro attore comico Totò, è una “livella”, azzera tutti i privilegi. Quante guerre, quante crudeltà in meno si commetterebbero sulla terra se i violenti e gli oppressori dei popoli pensassero che anche loro presto dovranno morire!
Guardare la vita dal punto di osservazione della morte, dà un aiuto straordinario a vivere bene. Sei angustiato da problemi e difficoltà? Pòrtati avanti, còllocati al punto giusto: guarda queste cose dal letto di morte. Come vorresti allora avere agito? Quale importanza daresti a queste cose? Hai un contrasto con qualcuno? Guarda la cosa dal letto di morte. Cosa vorresti aver fatto allora: aver vinto, o esserti umiliato? Aver prevalso, o aver perdonato?
Il pensiero della morte ci impedisce di attaccarci alle cose, di fissare quaggiù la dimora del cuore, dimenticando che “non abbiamo quaggiù dimora stabile” (Eb 13, 14). L’uomo, dice un salmo, “quando muore con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria” (Sal 49, 18). Nell’antichità, si usava seppellire i re con i loro gioielli. Questo incoraggiava, naturalmente, la pratica di violare le tombe per asportarne i tesori. Sono state ritrovate tombe del genere, in cui, per tenere lontani i profanatori, veniva posta sopra il sarcofago una scritta: “Qui ci sono solo io”. Come era vera quella scritta, anche se la tomba nascondeva, di fatto, gioielli! “L’uomo, quando muore, con sé non porta nulla”.
“Vegliate!”
Sorella morte è davvero una buona sorella maggiore e una buona pedagoga. Ci insegna tante cose, se soltanto la sappiamo ascoltare con docilità. La Chiesa non ha paura di mandarci a scuola da lei. Nella liturgia del mercoledì delle ceneri, c’è una antifona dai toni forti, che suona ancora più forte nel testo originale latino. Dice: “Emendiamo in meglio ciò che abbiamo commesso di male per ignoranza. Non avvenga che raggiunti improvvisamente dall’ora della morte, cerchiamo uno spazio per fare penitenza e non lo troviamo più” . Un giorno, un’ora sola, una buona confessione: come ci apparirebbero diverse queste cose in quel momento! Come le preferiremmo a scettri e regni, a lunga vita, a ricchezza e a salute!
Ho in mente un altro ambito in cui abbiamo urgente bisogno di sorella morte per maestra, oltre il campo ascetico: l’evangelizzazione. Il pensiero della morte è quasi l’unica arma che ci è rimasta per scuotere dal torpore una società opulenta, a cui è successo quello che successe al popolo eletto liberato dall’Egitto: “Ha mangiato e si è saziato… e ha respinto il Dio che lo aveva fatto” (Dt 32, 15).
In un momento delicato della storia del popolo eletto, Dio disse al profeta Isaia: “Grida!”. Il profeta rispose: “Che dovrò gridare?” e Dio: Che “ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come il fieno del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce, quando il soffio del Signore spira su di essi” (Is 40, 6-7). Credo che Dio dà oggi questo stesso ordine ai suoi profeti e lo fa perché ama i suoi figli e non vuole che “come pecore siano avviati agli inferi e che sia loro pastore la morte” (cf. Sal 49, 15).
L’interrogativo circa il senso della vita e della morte svolse un compito notevole nella prima evangelizzazione dell’Europa e non è escluso che possa svolgerne uno analogo nello sforzo attuale per una sua ri-evangelizzazione. Se c’è una cosa infatti che non è cambiata in nulla da allora ad oggi è proprio questa: che gli uomini devono morire. Il Venerabile Beda narra come il cristianesimo fece il suo ingresso nell’Inghilterra del nord, vincendo le resistenze del paganesimo. Il re convocò la grande assemblea del suo regno per decidere la questione se fare entrare o meno i missionari cristiani. C’erano pareri contrastanti, quando si alzò uno dei dignitari e fece, in sostanza, questo discorso:
La vita dell’uomo sulla terra, o re, si può descrivere così. Immagina che sia inverno. Tu siedi a cena con i tuoi duchi e i tuoi aiutanti. Al centro della stanza arde un fuoco che riscalda l’ambiente, mentre fuori infuria la bufera invernale con pioggia e neve. Un passerotto giunge d’improvviso al tuo palazzo; entra da un’apertura e velocissimo esce dalla parte opposta. Finché è dentro, è al riparo dal freddo dell’inverno, ma dopo un attimo eccolo ripiombare nel buio da cui è venuto e sparire dalla vista. Così è la nostra vita! Ignoriamo che cosa la precede e che cosa seguirà… Se questa nuova dottrina è in grado di dirci qualcosa di più certo su di essa, credo che dobbiamo ascoltarla
Fu l’interrogativo posto dalla morte che aprì la strada al Vangelo, come una breccia sempre aperta nel cuore dell’uomo. Il rifiuto della morte, non l’istinto sessuale, sta alla base di tutto l’agire umano, ha scritto un noto psicologo contro Freud .
Laudato si’ Signore, per sorella morte corporale”
In questo modo non ripristiniamo la paura della morte. Gesú, dice la Lettera agli Ebrei, è venuto a “liberare quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Ebr 2, 15). È venuto a liberarci dalla paura della morte, non ad accrescerla. Bisogna però avere conosciuto questa paura per esserne liberati. Gesú è venuto a insegnare la paura della morte eterna a quelli che non conoscevano che la paura della morte temporale.
La morte eterna! “Morte seconda”, la chiama l’Apocalisse (Ap 20, 6). Essa è l’unica che merita davvero il nome di morte, perché non è un passaggio, una Pasqua, ma un terribile capolinea. È per salvare gli uomini da questa sciagura che dobbiamo tornare a predicare ai cristiani sulla morte. Nessuno più di Francesco d’Assisi ha conosciuto il volto nuovo, pasquale, della morte cristiana. La sua morte fu davvero un passaggio pasquale, un “transitus”, come viene celebrato nella liturgia francescana. Quando si sentì vicino alla fine, il Poverello esclamò: “Ben venga, mia sorella morte!” Eppure nel suo Cantico delle creature, accanto a parole dolcissime sulla morte, egli ne ha alcune tra le più terribili:
“Laudato sii, mio Signore, per sora nostra morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scappare:
guai a quelli che morranno nei peccati mortali;
beati quelli che troverà nelle tue santissime volontà,
ché la morte seconda non farà loro alcun male”.
Guai a quelli che morranno nei peccati mortali! “Il pungiglione della morte è il peccato”, dice l’Apostolo (1 Cor 15, 56). Ciò che dà alla morte il suo più temibile potere di angosciare l’uomo credente e di fargli paura è il peccato. Se uno vive in peccato mortale, per lui la morte ha ancora il pungiglione e il veleno, come prima di Cristo. Ferisce, uccide e manda alla Geenna. Non temete – direbbe Gesù – la morte che uccide il corpo e dopo non può fare più nulla. Temete quella morte che, dopo avere ucciso il corpo, ha il potere di gettare nella Geenna (cf Lc 12, 4-5). Togli il peccato e hai tolto anche tu alla morte il suo pungiglione!
Istituendo l’Eucaristia, Gesù anticipò la propria morte. Noi possiamo fare lo stesso. Anzi Gesù ha inventato questo mezzo per farci partecipi della sua morte, per unirci a sé. Partecipare all’Eucaristia è il modo più vero, più giusto e più efficace di “apparecchiarci” alla morte. In essa celebriamo anche la nostra morte e la offriamo, giorno per giorno, al Padre. Nell’Eucaristia noi possiamo far salire al Padre il nostro “amen, sì”, a ciò che ci aspetta, al genere di morte che egli vorrà permettere per noi. In essa noi “facciamo testamento”: decidiamo a chi lasciare la vita, per chi morire.
Siamo nati, è vero, per poter morire; la morte non è solo la fine ma anche il fine della vita. Questo, però, lungi dall’apparire una condanna, come diceva il filosofo ricordato sopra, appare invece un privilegio. “Cristo – dice san Gregorio di Nissa – è nato per poter morire” , cioè per poter dare la vita in riscatto per tutti. Anche noi abbiamo ricevuto in dono la vita per avere qualcosa di unico, di prezioso, di degno di Dio, da potere, a nostra volta, offrire a lui in dono e in sacrificio. Quale uso più bello si può pensare della vita, che farne dono, per amore, al Creatore che per amore ce l’ha donata? Noi possiamo fare nostre le parole pronunciate dal sacerdote all’offertorio della Messa, sul pane e sul vino e dire: “Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questa nostra vita; la presentiamo a te perché diventi un sacrificio vivente, santo, a te gradito” (cf Rm 12, 1).
Con tutto ciò non abbiamo tolto al pensiero della morte il suo pungiglione – la sua capacità di angosciarci che anche Gesú ha voluto sperimentare nel Getsemani. Siamo però almeno più preparati ad accogliere il consolante messaggio che ci viene dalla fede e che la liturgia proclama nel prefazio della Messa dei defunti: “Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo”.
Di questa abitazione eterna nei cieli parleremo, a Dio piacendo, nella prossima meditazione.