Il cammino verso l'unità dei cristiani - Riflessione sulla Unitatis redintegrazione
Quinta Predica di Quaresima
Autore: Cardinale Raniero Cantalamessa
1. Il cammino ecumenico dopo il Vaticano II
La moderna scienza ermeneutica ha reso familiare il principio di Gadamer della “storia degli effetti”(Wirkungsgeschichte). Secondo tale metodo, per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa . Questo principio risulta di grande utilità applicato all’interpretazione della Scrittura. Ci dice che non si può capire appieno l’Antico Testamento, se non alla luce del suo compimento nel Nuovo e non si può capire il Nuovo Testamento se non alla luce dei frutti che ha prodotto nella vita della Chiesa. Non basta perciò il solito studio storico-filologico delle “fonti”, cioè dell’influenze subite da un testo; occorre tener conto anche delle influenze da esso esercitate. È la regola che Gesú aveva formulato molto tempo prima, dicendo che ogni albero si conosce dai suoi frutti (cf. Lc 6, 44).
Fatte le debite proporzioni, questo principio – lo abbiamo visto nelle precedenti meditazioni – si applica anche ai testi del Vaticano II. Oggi vorrei mostrare come esso si applica in particolare al decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio, che è il tema di questa meditazione. Cinquant’anni di cammino e di progressi nell’ecumenismo stanno a dimostrare le virtualità racchiuse in quel testo. Dopo aver richiamato le ragioni profonde che inducono i cristiani a ricercare l’unità tra di loro, e dopo aver preso atto del diffondersi tra i credenti delle diverse Chiese di un nuovo atteggiamento a questo riguardo, i Padri conciliari così esprimono l’intento del documento:
“Perciò questo sacro Concilio, considerando con gioia tutti questi fatti, dopo avere già esposta la dottrina sulla Chiesa, mosso dal desiderio di ristabilire l’unità fra tutti i discepoli di Cristo, intende ora proporre a tutti i cattolici gli aiuti, gli orientamenti, e i modi, con i quali possano essi stessi rispondere a questa vocazione e a questa grazia divina” .
Le realizzazioni, o i frutti, di questo documento sono stati di due specie. Sul piano dottrinale e istituzionale, è stato costituito il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani; sono stati avviati inoltre dialoghi bilaterali con quasi tutte le confessioni cristiane, con lo scopo di promuovere una migliore conoscenza reciproca, un confronto delle posizioni e il superamento dei pregiudizi.
Accanto a questo ecumenismo ufficiale e dottrinale, si è sviluppato fin dall’inizio un ecumenismo dell’incontro e della riconciliazione dei cuori. In questo ambito spiccano alcuni incontri celebri che hanno segnato il cammino ecumenico in questi 50 anni: quello di Paolo VI con il Patriarca Atenagora, gli innumerevoli incontri di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI con i capi di diverse chiese cristiane, di papa Francesco con il patriarca Bartolomeo nel 2014, e, ultimo, quello con il Patriarca di Mosca Kirill a Cuba che ha aperto un orizzonte nuovo al cammino ecumenico.
A questo stesso ecumenismo spirituale, appartengono anche le tante iniziative in cui credenti di diverse Chiese si incontrano per pregare e proclamare insieme il Vangelo, senza intenti di proselitismo e nella piena fedeltà ognuno alla propria Chiesa. Ho avuto la grazia di partecipare a molti di questi incontri. Uno di essi mi è rimasto particolarmente vivo nella memoria perché fu come una profezia visiva di quello a cui dovrebbe portarci il movimento ecumenico.
Nel 2009 si tenne a Stoccolma una grande manifestazione di fede denominata “Jesus manifestation”, “Una manifestazione per Gesú”. Nel giorno finale, i credenti delle varie Chiese, ognuno da una strada diversa, muovevano in processione verso il centro della città. Anche il piccolo gruppo di cattolici, con in testa il vescovo locale, andavamo per la nostra via pregando. Giunti al centro, le file si rompevamo ed era un’unica folla che proclamava la signoria di Cristo al cospetto di una folla di 18 mila giovani e di passanti attoniti. Quella che intendeva essere una manifestazione “per” Gesú, divenne una potente manifestazione “di” Gesú. La sua presenza si poteva quasi toccare con mano in un paese non abituato a manifestazioni religiose di questo genere.
Anche questi sviluppi del documento sull’ecumenismo sono un frutto dello Spirito Santo e un segno della invocata nuova Pentecoste. Come fece il Risorto a convincere gli apostoli ad aprirsi ai gentili e ad accogliere anch’essi nella comunità cristiana? Condusse Pietro nella casa del centurione Cornelio, lo fece assistere alla venuta dello Spirito sui presenti, con le stesse manifestazioni che gli apostoli avevano sperimentato a Pentecoste: parlare in lingue, glorificare Dio ad alta voce. A Pietro non rimase che trarre la conclusione: “Se Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi…chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11, 17).
Il Signore risorto sta facendo la stessa cosa oggi. Invia il suo Spirito e i suoi carismi su credenti delle più diverse Chiese, anche quelle che credevamo le più distanti da noi, spesso con le identiche manifestazioni esterne. Come non vedere in ciò un segno che egli ci spinge ad accettarci e riconoscerci reciprocamente come fratelli, anche se tuttora in cammino verso una unità più piena sul piano visibile? Fu in ogni caso quello che convertì me all’amore per l’unità dei cristiani, abituato, come dai miei studi preconciliari, a vedere ortodossi e protestanti solo come gli “avversari” da confutare nelle nostre tesi di teologia.
2. A un anno dal V Centenario della riforma protestante (1517)
Nella Quaresima dell’anno scorso, ho cercato di mostrare i risultati a cui è giunto, a livello teologico, il dialogo ecumenico con l’oriente ortodosso. Al libretto che raccoglie tali meditazioni ho dato il titolo “Due polmoni, un unico respiro”, che dice da solo quello a cui tendiamo e che in gran parte è già realizzato . In questa occasione vorrei rivolgere l’attenzione ai rapporti con l’altro grande interlocutore del dialogo ecumenico che è il mondo protestante, senza entrare in questioni storiche e dottrinali, ma per mostrare come tutto ci spinge ad andare avanti nello sforzo di ricomporre l’unità dell’occidente cristiano.
Una circostanza rende questo sforzo particolarmente attuale. Il mondo cristiano si prepara a celebrare il quinto centenario della Riforma nel 2017. È vitale per tutta il futuro della Chiesa non sciupare questa occasione, rimanendo prigionieri del passato, o limitandosi a usare toni più irenici nello stabilire torti e ragioni d’ambo le parti. È il momento di fare, credo, un salto di qualità, come quando una barca arriva alla chiusa di un fiume o di un canale che le permettere di proseguire la navigazione a un livello superiore.
La situazione è profondamente cambiata in questi cinquecento anni, ma come, sempre, si stenta a prenderne atto. Le questioni che provocarono la separazione tra Chiesa di Roma e la Riforma nel secolo XVI furono soprattutto le indulgenze e il modo in cui avviene la giustificazione dell’empio. Ma, di nuovo, possiamo dire che questi siano i problemi con i quali sta o cade la fede dell’uomo d’oggi? In una conferenza tenuta al Centro “Pro unione” di Roma, il cardinale Walter Kasper faceva giustamente notare che mentre per Lutero il problema esistenziale numero uno era come superare il senso della colpa e ottenere un Dio benevolo, oggi il problema semmai è il contrario: come ridare all’uomo d’oggi il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto.
Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino. Quello che all’Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. È Cristo il cuore del messaggio, prima ancora che la grazia e la fede.
Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l’umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l’Apostolo ha l’incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata “in virtù della redenzione realizzata da Cristo”, “per l’obbedienza di un solo uomo” (Rom 3, 24; 5, 19).
L’affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è presente nel testo ed era la cosa più urgente da mettere in luce al tempo di Lutero, quando era pacifico, almeno in Europa, che si trattava della fede in Cristo e della grazia di Cristo. Ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Abbiamo commesso l’errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l’Apostolo una affermazione di portata ben più vasta e universale. Oggi siamo chiamati a riscoprire e proclamare insieme il fondo del messaggio paolino.
Nella descrizione delle battaglie medievali c’è sempre un momento in cui, superati gli arcieri, la cavalleria e tutto il resto, la mischia si concentrava intorno al re. Lì si decideva l’esito finale della battaglia. Anche per noi la battaglia oggi è intorno al re… La persona di Gesù Cristo è la vera posta in gioco. Abbiamo bisogno di tornare, dal punto di vista dell’evangelizzazione, al tempo degli apostoli. C’è una analogia tra il nostro tempo e il loro. Essi avevano davanti un mondo pre-cristiano; in occidente, noi abbiamo davanti un mondo largamente post-cristiano.
Quando l’apostolo Paolo vuole riassumere in una frase l’essenza del messaggio cristiano non dice: “Noi vi annunciamo questa o quella dottrina”; dice: “Noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1,23), e ancora: “Noi predichiamo Cristo Gesú Signore” (2 Cor 4,5). Questo è di nuovo il vero “articulus stantis et cadentis Ecclesiae”, l’articolo con il quale la Chiesa sta o cade.
Questo non significa ignorare tutto quella che la Riforma protestante ha prodotto di nuovo e di valido, sia nel campo della teologia che in quello della spiritualità, soprattutto con la riaffermazione del primato della Parola di Dio. Significa piuttosto permettere a tutta a la Chiesa di beneficiare delle sue conquiste positive, una volta liberate da certi eccessi e irrigidimenti, dovuti al clima surriscaldato del momento, all’ingerenza della politica e alle polemiche successive.
Un passo significativo in questa direzione è stato la “dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione” firmata il 31 Ottobre 1999 tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane” . Nella sua conclusione, essa dice:
“La comprensione della dottrina della giustificazione esposta in questa Dichiarazione mostra l’esistenza di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali di tale dottrina della giustificazione. Alla luce di detto consenso sono accettabili le differenze che sussistono per quanto riguarda il linguaggio, gli sviluppi teologici e le accentuazioni particolari che ha assunto la comprensione della giustificazione. […] Per questo motivo l’elaborazione luterana e l’elaborazione cattolica della fede nella giustificazione sono, nelle loro differenze, aperte l’una all’altra e tali da non invalidare di nuovo il consenso raggiunto su verità fondamentali” .
Io mi trovai a essere presente quando l’accordo fu proclamato in San Pietro durante un Vespro solenne presieduto da Giovanni Paolo II e dall’arcivescovo di Uppsala, Bertil Werkström. Mi colpì una osservazione che il papa fece nell’omelia. Esprimeva, se ricordo bene, questo pensiero: è venuto il tempo di smettere di fare di questa dottrina della giustificazione per fede un tema di lotte e di dispute tra teologi, e cercare invece di aiutare tutti i battezzati a fare, di questa verità, una esperienza personale e liberatoria. Da quel giorno, non ho smesso, ogni volta che ne ho avuto l’opportunità nella mia predicazione, di esortare i fratelli a fare questa esperienza.
La giustificazione mediante la fede in Cristo dovrebbe essere predicata da tutta la Chiesa e con maggior vigore che mai. Non più, però in opposizione alle “buone opere” che è una questione superata e risolta, ma in opposizione, semmai, alla pretesa del mondo secolarizzato di potersi salvare da solo, con la propria scienza, la tecnica o con tecniche spirituali di propria invenzione. Sono convinto che se fossero vivi oggigiorno questo sarebbe il modo con cui Lutero, Calvino e gli altri riformatori predicherebbero la giustificazione gratuita mediante la fede!
“Le società moderne – si legge in un libro che ha fatto epoca – sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all’uomo, se egli lo vorrà […]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza” .
I “sistemi di valore sorpassati” sono naturalmente, per l’autore, i sistemi religiosi. Jean-Paul Sartre arriva alla stessa conclusione partendo da un punto di vista filosofico. Egli fa dire a un suo personaggio: “Io stesso oggi mi accuso e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se Dio esiste l’uomo è nulla” . E a questo tipo di sfide lanciate dallo scientismo ateo e dal secolarismo che i cristiani di oggi devono rispondere con la dottrina che “l’uomo non è giustificato davanti a Dio dalle proprie opere, ma per grazia e per fede (cf. Gal 2, 16).
3. Oltre le formule
Sono persuaso che sul dialogo ecumenico con le Chiese protestanti pesa fortemente il ruolo frenante delle formule. Mi spiego. Le formulazioni dottrinali e dogmatiche, che al loro nascere erano frutto di processi vitali e rispecchiavano il cammino corale della comunità e la verità faticosamente raggiunta, con il passare del tempo tendono a irrigidirsi a diventare delle “parole d’ordine”, etichette indicanti un’appartenenza. La fede non termina più alla realtà della cosa, ma alla sua formulazione. Siamo agli antipodi di quello che dovrebbe essere l’ordine delle cose secondo la celebre affermazione di Tommaso d’Aquino: “Fides non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem”: la fede non termina nella sua formulazione, ma nella cosa in se .
È il fenomeno del formalismo in atto già nell’antichità, una volta terminata la fase creativa dei grandi dogmi . Solo di recente si è capito, per esempio, che le divisioni in seno all’Oriente cristiano, tra Chiese calcedonesi e cosiddette Chiese monofisite o nestoriane, erano basate, in molti casi, su delle formule e sul senso diverso dato, in esse, ai termini ousia e ipostasi, che non toccavano la sostanza della dottrina. Si è potuta ristabilire, così, la comunione tra e con diverse Chiese orientali.
Questo ostacolo è particolarmente visibile nei rapporti con le Chiese della Riforma. Fede e opere, Scrittura e tradizione: sono contrapposizioni comprensibili, e in parte giustificate, nel loro nascere, ma diventano ingannatrici se vengono ripetute e tenute in piedi, come se nulla fosse cambiato in cinquecento anni di vita.
Prendiamo la contrapposizione tra fede e opere. Essa ha un senso se per buone opere si intendono principalmente (come purtroppo avveniva al tempo di Lutero) indulgenze, pellegrinaggi, digiuni, elemosine, candele votive e via dicendo. Diventa fuorviante se per buone opere intendiamo le opere di carità e di misericordia. Gesú, nel Vangelo ci ammonisce che senza di esse non si entra nel regno dei cieli e lui sarà costretto a dire: “Via da me”. Non si è giustificati dunque per le buone opere, ma non ci si salva senza le buone opere. La giustificazione è senza condizioni, ma non è senza conseguenze. Questo lo crediamo tutti, cattolici e protestanti e lo diceva già il concilio di Trento.
Lo stesso si deve dire della contrapposizione tra Scrittura e tradizione. Essa viene a galla, appena si tocca il problema della rivelazione, come se i protestanti avessero solo la Scrittura e i cattolici Scrittura e Tradizione. Ma nella realtà nessuna Chiesa è senza una propria tradizione. Che cosa spiega l’esistenza di tante denominazioni diverse in seno al protestantesimo, se non il loro diverso modo di interpretare la Scrittura? E che cos’è la Tradizione, nel suo contenuto più vero, se non, appunto, la Scrittura letta nella Chiesa e dalla Chiesa?
Neppure la formula luterana “Simul iustus et peccator”, “giusto e peccatore allo stesso tempo”, è uno scoglio insormontabile alla comunione. Fa parte della tradizione cattolica, fin dal tempo dei Padri, la definizione della Chiesa come “casta meretrice” (casta meretrix) e come “santa e sempre da riformare” . Ciò che si dice della Chiesa nel suo insieme, come corpo di Cristo, non si dovrebbe applicare anche a ciascuno dei suoi membri?
Quello che può essere soggetto a diversa e complementare spiegazione è il modo in cui è intesa questa compresenza di santità e di peccato nell’uomo redento. Nell’ Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla giustificazione c’è una spiegazione della formula “simul iustus et peccator” che non è in divergenza con la dottrina cattolica. Si afferma che la giustificazione opera un rinnovamento reale nella vita del battezzato, anche se questo non diviene mai un possesso acquisito, su cui l’uomo possa appoggiarsi davanti a Dio, ma rimane sempre dipendente dall’azione dello Spirito Santo.
Nel 1974 ci fu una notizia che stupì e divertì il mondo intero. Un soldato giapponese, inviato durante l’ultima guerra mondiale in un’isola delle Filippine per infiltrarsi tra il nemico e raccogliere informazioni, aveva vissuto trent’anni nascondendosi qua e là nella giungla e nutrendosi di radici, frutti e qualche preda, convinto che la guerra fosse ancora in atto e lui ancora in missione. Quando lo rintracciarono, fecero fatica a convincerlo che la guerra era finita e che poteva tornare in patria. Io credo che succeda qualcosa di simile tra i cristiani. Ci sono cristiani che bisogna convincere, in entrambi gli schieramenti, che la guerra è finita, le guerre di religione tra cattolici e protestanti sono finite. Abbiamo ben altro da fare che farci guerra l’un l’altro! Il mondo ha dimenticato, o non ha mai conosciuto, il suo Salvatore, colui che è la luce del mondo, la via, la verità e la vita, e noi perdiamo tempo a polemizzare tra di noi?
4. Unità nella carità
Non basta, però, questo motivo pratico per fare l’unità dei cristiani. Non basta trovarsi uniti sul fronte dell’evangelizzazione e dell’azione caritativa. Questa è una via che il movimento ecumenico sperimentò ai suoi inizi con il movimento “Vita e azione” (“Life and Work”), ma che si rivelò presto insufficiente. Se l’unità dei discepoli deve essere un riflesso dell’unità tra il Padre e il Figlio, essa deve essere anzitutto una unità d’amore, perché tale è l’unità che regna nella Trinità. Le tre divine persone non sono unite per il fatto che “operano congiuntamente” la creazione e tutte le altre opere ad extra; lo sono nel loro stesso essere. La Scrittura ci esorta a “fare la verità nella carità – veritatem facientes in caritate”(Ef 4, 15). E sant’Agostino afferma che “non si entra nella verità se non attraverso la carità – non intratur in veritatem nisi per caritatem» .
La cosa straordinaria, circa questa via all’unità basata sull’amore, è che essa è già ora spalancata davanti a noi. Non possiamo “bruciare le tappe” circa la dottrina, perché le differenze ci sono e vanno risolte con pazienza nelle sedi appropriate. Possiamo invece bruciare le tappe nella carità, ed essere pienamente uniti, fin d’ora. Il vero e sicuro segno della venuta dello Spirito non è, scrive ancora sant’Agostino, il parlare in lingue, ma è l’amore per l’unità: “Sappiate che avete lo Spirito Santo quando acconsentite a che il vostro cuore aderisca all’unità attraverso una sincera carità” .
Ripensiamo all’inno alla carità di san Paolo. Ogni sua frase acquista un significato attuale e nuovo, se applicata all’amore tra membri delle diverse Chiese cristiane, nei rapporti ecumenici:
“La carità è paziente…
La carità non è invidiosa…
Non cerca solo il suo interesse [o solo l’interesse della propria Chiesa].
Non tiene conto del male ricevuto [semmai, del male arrecato agli altri!].
Non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità [non gode delle difficoltà delle altre Chiese, ma si rallegra dei loro successi spirituali].
Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”(l Cor 13, 4 ss).
“Amarsi” è stato detto “non significa guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Anche tra cristiani, amarsi significa guardare insieme nella stessa direzione che è Cristo. “Egli è la nostra pace” (Ef 2, 14). Se ci convertiremo a Cristo e andremo insieme verso di lui, noi cristiani ci avvicineremo anche tra di noi, fino a essere, come lui ha chiesto, “una cosa sola con lui e con il Padre” (cf. Gv 17, 21). Succede come per i raggi di una ruota. Essi partono da punti distanti della circonferenza, ma a mano a mano che si avvicinano al centro, si avvicinano anche tra di loro, fino a formare un punto solo. Succede come quel giorno a Stoccolma…
Ci apprestiamo a celebrare la Pasqua. Sulla croce Gesù “ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia […] Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2, 14.18). Non manchiamo di farlo, per la gioia del Cuore di Cristo e per il bene del mondo.
Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle: Buona Settimana Santa e Buona Pasqua!