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Il Cielo in una stanza

“Cella sit tibi coelum”

Autore: Autori Cristiani

…vi ricordate? Il cielo in una stanza. È il titolo di una celebre canzone che esalta la pienezza della vita, quando questa viene illuminata dall’amore autentico per una creatura.

Cantata da Gino Paoli, mi piaceva tantissimo. In fondo non era altro che la traduzione musicale di una frase latina, mi pare di San Bonaventura, che i monaco del convento del mio paese avevano scolpito sullo stipite delle loro celle: “Cella sit tibi coelum”. Che vuol dire: la cella sia per te come il cielo.

Ricordo ancora oggi la stanzetta del frate, un vecchio missionario, dal quale andavo spesso a confessarmi, col batticuore, quando ero ragazzo, lì nel convento dei cappuccini del mio paese. Le pareti erano tappezzate con la carta geografica dei cinque continenti, e i fianchi della scrivania erano ricoperti dalla mappa dei due emisferi celesti.
Non di rado mi distraevo nella contemplazione di quelle terre e di quei cieli lontani, e avevo l’impressione che la minuscola cella del mio confessore, più che un luogo destinato a comprimere gli orizzonti, fosse una capsula spaziale spinta nella vertigine misteriosa dei mondi.

“Il cielo in una stanza” deve divenire la sigla morale di ogni uomo di buona volontà che si batte per la pace, che non vuole farsi catturare dall’effimero, che teme di lasciarsi imprigionare dai problemi di campanile e che intende fuggire la seduzione, tutta moderna, del “piccolo è bello”.

Oggi non possiamo più vivere nel guscio rassicurante del nostro cortile. O isolarci nei recinti delle piazzole paesane. O chiuderci nell’ovatta sentimentale del nostro piccolo mondo antico. E non solo perché la terra è divenuta un villaggio globale, come dice McLuhan, al punto che ciò che accade agli antipodi è come se si fosse verificato dietro l’angolo di casa tua. Ma soprattutto perché ormai i problemi sono così strettamente connessi tra loro, che l’apartheid del Sudafrica ha riverberi sulla qualità della vita perfino nell’Alaska. E allora, apertura alla mondialità non è solo contemplazione panoramica dei problemi del mondo dal belvedere delle astrazioni accademiche. Apertura alla mondialità è sentirsi risucchiato dal traffico planetario e coinvolto, sì, da tutte le crescite, ma anche da tutte le tragedie della terra.
I lutti dei popoli lontani sono lutti cittadini, anzi di famiglia. I cinquanta milioni di fratelli che ogni anno muoiono per fame interpellano pure te. I debiti colossali dei paesi in via di sviluppo modificano anche i tuoi conti in tasca. Tutti gli oppressi dalle ingiustizie e dalle segregazioni e tutte le vittime delle discriminazioni operate dalla oscena distribuzione delle ricchezze, chiamano te come correo: e non solo davanti al tribunale ultimo di Dio, ma anche a quello penultimo della storia.

Lo scempio delle risorse naturali, i sacrilegi della corsa alle armi, la malignità dei loschi traffici di droga, le follie degli scudi spaziali, la violazione dei diritti umani… non possono lasciarti indifferente, anche se questi fenomeni perversi accadono lontano dalla tua stanza.

Aprirsi alla mondialità significa educarsi alla convivialità delle differenze. Non solo accogliendo in casa tua il marocchino, l’emarginato, il diverso. Ma, soprattutto, facendolo sedere a mensa con te.
Ti accorgerai che, anche nella sua povertà, potrà cavare dalla sua bisaccia di pellegrino un pane, forse un po’ troppo duro per i tuoi denti, ma capace finalmente di placare la tua fame di umanità.

E quando avrai sperimentato che il povero introdotto a tavola con te ti ha restituito alla gioia di vivere, allora il cielo entrerà davvero nella tua stanza.

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