Il tempo Pasquale
Sono risorto e ti sono ancora accanto
Autore: Félix María Arocena
Il tempo di Pasqua, esplosione di gioia, va dalla Veglia Pasquale fino alla domenica di Pentecoste. In questi cinquanta giorni la Chiesa ci avvolge di gioia per la vittoria del Signore sulla morte. Cristo vive e ci viene incontro.
«Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi fin dall’origine del mondo. Alleluia». Il tempo pasquale è un anticipo della felicità che Cristo ci ha guadagnato con la vittoria sulla morte. Il Signore «è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione»: affinché, rimanendo in Lui, la nostra gioia sia piena.
Nell’insieme dell’Anno liturgico, il tempo pasquale è il “tempo forte” per antonomasia, perché il messaggio cristiano è un annuncio di gioia che nasce con forza dalla salvezza operata dal Signore nella sua “pasqua”, nel suo transito dalla morte alla vita nuova. «Il tempo di Pasqua è tempo di gioia, di una gioia che non è limitata a quest’epoca dell’anno liturgico, ma è presente in ogni momento nell’animo del cristiano. Poiché Cristo vive: Cristo non è un uomo del passato, che visse un tempo e poi se ne andò lasciandoci un ricordo e un esempio meravigliosi».
Ciò che soltanto pochi «testimoni prescelti da Dio» avevano potuto sperimentare durante le apparizioni del Risorto, ora viene dato anche a noi nella liturgia, che ci fa rivivere questi misteri. Così predicava Papa san Leone Magno: «Tutte le cose relative al nostro Redentore che prima erano visibili, ora sono diventati riti sacramentali». È significativa la consuetudine dei cristiani di Oriente che, consapevoli di questa realtà, fin dal mattino della domenica di Risurrezione si scambiano il bacio pasquale. «Christos anestē», Cristo è risuscitato; «alethōs anestē», è veramente risuscitato.
La liturgia latina, che nella notte santa del sabato riversava la sua gioia nell’Exultet, la domenica di Pasqua la condensa nel bellissimo introito: «Sono risorto, e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano, è stupenda per me la tua saggezza». Mettiamo sulle labbra del Signore, delicatamente, nei termini di una calorosa preghiera filiale al Padre, l’esperienza ineffabile della risurrezione, da Lui vissuta alle prime luci della domenica. Così san Josemaría, nella sua predicazione, ci incoraggiava ad avvicinarci a Cristo come se fossimo suoi contemporanei: «Ho voluto ricordare, sia pur brevemente, alcuni aspetti della vita attuale di Cristo – Iesus Christus heri et hodie; ipse et in saecula –, perché costituiscono il fondamento di tutta la vita cristiana». Il Signore vuole che lo frequentiamo e parliamo di Lui non al passato, come si fa con un ricordo, ma riconoscendo il suo “oggi”, la sua attualità, la sua viva compagnia.
Il Tempo pasquale
Molto prima che esistesse la Quaresima e gli altri tempi liturgici, la comunità cristiana celebrava già questi cinquanta giorni di gioia. Chi in quei giorni non esprimeva il proprio giubilo era considerato incapace di cogliere il nucleo della fede, perché «con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia». Questa festa, così prolungata, ci fa capire fino a che punto «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi». In questo tempo la Chiesa vive già il gaudio che il Signore tiene in serbo per lei: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo».
Questo significato escatologico, di anticipo del cielo, si riflette da secoli nella prassi liturgica, tanto da sopprimere le letture dell’Antico Testamento durante il tempo pasquale. Se tutta l’Antica Alleanza è preparazione, il Tempo pasquale celebra, invece, la realtà del Regno di Dio ormai presente. Nella Pasqua tutto è stato rinnovato, e non c’è posto per una figura là dove tutto è compiuto. Nel Tempo di Pasqua la liturgia proclama, insieme al quarto Vangelo, gli Atti degli Apostoli e il libro dell’Apocalisse: libri luminosi che hanno una particolare affinità con la spiritualità di questo tempo.
Gli scrittori cristiani dell’Oriente e dell’Occidente contemplarono l’insieme del Tempo pasquale come un unico e lungo giorno di festa. Per questo motivo le domeniche di questo tempo non si chiamano seconda, terza, quarta… dopo Pasqua, ma, semplicemente, domeniche di Pasqua. Tutto il tempo pasquale è come una sola grande domenica; la domenica che ha fatto diventare domeniche tutte le domeniche. Nello stesso modo si comprende la domenica di Pentecoste, che non è una nuova festa, ma il giorno conclusivo della grande festa della Pasqua.
Quando arrivava la Quaresima alcuni inni della tradizione liturgica della Chiesa proclamavano l’alleluia come fosse un addio. Al contrario, la liturgia pasquale si rallegra in questo canto, perché l’alleluia è anticipo del canto nuovo che intoneranno in cielo i battezzati, che fin da ora sanno di essere risuscitati con Cristo. Perciò, durante il tempo pasquale, sia il ritornello del salmo responsoriale che il finale delle antifone della Messa ripetono spesso questa acclamazione, che unisce l’imperativo del verbo ebraico hallal – lodare – e Yahveh, il nome di Dio.
«Felice quell’allelluia che lì intoneremo! – dice sant’Agostino in una omelia – Sarà un alleluia sereno e senza timore, perché non vi sarà nessun nemico, non si perderà nessun amico. Lì, come qui, risuoneranno le lodi divine; però quelle di qui provengono da coloro che si trovano ancora in mezzo alle difficoltà, quelle di là da coloro che sono già nella sicurezza; qui da coloro che devono morire, là da coloro che devono vivere per sempre; qui da coloro che sperano, là da coloro che già posseggono; qui da coloro che sono ancora in cammino, là da coloro che ormai hanno raggiunto la patria». San Girolamo scrive che in Palestina, nei primi secoli, questo grido era diventato talmente abituale che coloro che stavano arando i campi di quando in quando esclamavano: alleluia! E quelli che remavano nelle barche che trasferivano i viandanti da una sponda all’altra di un fiume, quando s’incrociavano, esclamavano: alleluia! «Un giubilo profondo e sereno pervade la Chiesa in queste settimane del tempo pasquale; è ciò che nostro Signore ha voluto lasciare in eredità a tutti i cristiani […]; una contentezza piena di contenuti soprannaturali, che niente e nessuno ci potrà togliere, se noi non lo permettiamo».
L’ottava di Pasqua
«I primi otto giorni del tempo pasquale costituiscono l’ “ottava di Pasqua” e si celebrano come solennità del Signore». Anticamente, durante questa ottava, il vescovo di Roma celebrava le stationes come un modo per introdurre i neofiti nel trionfo di quei santi particolarmente significativi per la vita cristiana dell’Urbe. Era una sorta di “geografia della fede”, nella quale la Roma cristiana appariva come una ricostruzione della Gerusalemme del Signore. Si visitavano varie basiliche romane: la vigilia di Pasqua la statio aveva luogo a San Giovanni in Laterano; la domenica a Santa Maria Maggiore; il lunedì a San Pietro in Vaticano; il martedì a San Paolo fuori le mura; il mercoledì a San Lorenzo fuori le mura; il giovedì nella basilica dei Santi Apostoli; il venerdì a Santa Maria ad martyres; il sabato nuovamente a San Giovanni in Laterano.
Le letture di quei giorni erano scelte in relazione con il luogo della celebrazione. Così, per esempio, il mercoledì la statio si celebrava nella basilica di San Lorenzo fuori le mura. Lì veniva proclamato il passo del Vangelo delle braci ardenti, con una chiara allusione alla tradizione popolare romana, secondo la quale il diacono Lorenzo fu martirizzato sulla graticola. Il sabato dell’ottava era il giorno nel quale i neofiti si toglievano l’alba che avevano indossato al momento del battesimo durante la veglia pasquale. La prima lettura era dunque l’esortazione di Pietro che comincia con le parole «deponentes igitur omnem malitiam…» deposta dunque ogni malizia…
I Padri della Chiesa parlavano spesso della domenica come dell’ “ottavo giorno”. Collocata al di là della successione settenaria dei giorni, la domenica evoca l’inizio del tempo e la sua fine nel secolo futuro. Per questo gli antichi battisteri, come quello di san Giovanni in Laterano, avevano una forma ottagonale; i catecumeni uscivano dalla fonte battesimale per iniziare la loro nuova vita, ormai aperta all’ottavo giorno, la domenica che non ha fine. Ogni domenica ci ricorda così che la nostra vita trascorre nel tempo della Risurrezione.
Ascensione e Pentecoste
«Con la sua ascensione il Signore risorto attira lo sguardo degli Apostoli – e anche il nostro sguardo – alle altezze del Cielo per mostrarci che la meta del nostro cammino è il Padre». Comincia il tempo di una presenza nuova del Signore: sembra che se ne stia più nascosto, ma in certo qual modo è più vicino a noi; comincia il tempo della liturgia, che è tutta una grande preghiera al Padre, attraverso il Figlio, nello Spirito Santo; una preghiera simile a «un fiume ampio e tranquillo».
Gesù scompare dalla vista degli apostoli, che forse in un primo momento rimangono ammutoliti. «Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi ad essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo».
«Dio onnipotente ed eterno, che hai racchiuso la celebrazione della Pasqua nel tempo sacro dei cinquanta giorni…». La Chiesa ci insegna a riconoscere in questo numero il linguaggio eloquente della rivelazione. Il numero cinquanta aveva due ricorrenze importanti nella vita religiosa di Israele: la festa di Pentecoste, sette settimane dopo l’inizio della falciatura del grano; e la festa del giubileo che dichiarava santo l’anno cinquanta: un anno dedicato a Dio nel quale ognuno rientrava in possesso delle sue proprietà e chiunque poteva fare ritorno nella propria famiglia. Nel tempo della Chiesa, il «sacramento della Pasqua» include i cinquanta giorni dopo la Risurrezione del Signore, fino alla venuta dello Spirito Santo a Pentecoste. Se, in base al linguaggio della liturgia, la Quaresima significa la conversione a Dio con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente, con tutto il nostro cuore, la Pasqua significa la nostra vita nuova di “co-risuscitati” con Cristo. «Igitur, si consurrexistis Christo, quæ sursum sunt quærite: se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio».
Compiuti questi cinquanta giorni, «ci troviamo al culmine di tutti i beni e nella più grande di tutte le feste», perché, inseparabile dalla Pasqua, è come la “Madre di tutte le feste”. «Fate la somma di tutte le vostre feste – diceva Tertulliano ai pagani del suo tempo – e non arriverete ai cinquanta giorni di Pentecoste». Pentecoste è, dunque, una domenica conclusiva, di pienezza. In questa solennità contempliamo ammirati, come, attraverso il dono della liturgia, Dio attualizzi la donazione dello Spirito che ebbe luogo agli albori della Chiesa nascente.
Se nell’Ascensione Gesù «salì al cielo perché noi fossimo partecipi della sua vita divina», ora, nel giorno di Pentecoste, il Signore, seduto alla destra del Padre, comunica la sua vita divina alla Chiesa mediante l’infusione del Paraclito, «frutto della Croce». San Josemaría viveva e ci invitava a vivere con questo senso di dono perenne: «Aiutami a chiedere una nuova Pentecoste, che incendi un’altra volta la terra».
Si comprende anche per questo perché san Josemaría voleva cominciare alcuni incontri di formazione dell’Opera recitando una preghiera tradizionale nella Chiesa che si trova, per esempio, nella Messa votiva dello Spirito Santo: «Deus, qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti, da nobis in eodem Spiritu recta sapere, et de eius semper consolatione gaudere». Con parole della liturgia imploriamo Dio Padre che lo Spirito Santo ci renda capaci di apprezzare, di assaporare, il senso delle cose di Dio; e chiediamo anche di godere della stimolante consolazione del «Grande Sconosciuto». Infatti «il mondo ha bisogno del coraggio, della speranza, della fede e della perseveranza dei discepoli di Cristo. Il mondo ha bisogno dei frutti, dei doni dello Spirito Santo, come elenca san Paolo: “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5, 22). Il dono dello Spirito Santo è stato elargito in abbondanza alla Chiesa e a ciascuno di noi, perché possiamo vivere con fede genuina e carità operosa, perché possiamo diffondere i semi della riconciliazione e della pace».
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