Il Vangelo del Regno di Dio (dal saggio "Gesù di Nazaret")
Che significa che "Il Regno di Dio è vicino"
Autore: Papa Benedetto XVI
«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”» – con queste parole l’evangelista Marco descrive l’inizio dell’attività di Gesù e definisce al tempo stesso il contenuto essenziale del suo annuncio (1,14s). Anche Matteo riassume così l’attività di Gesù in Galilea: «Andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando il Vangelo del regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo» (4,23; cfr. 9,35).
Entrambi gli evangelisti definiscono l’annuncio di Gesù «Vangelo». Ma che cos’è propriamente?
Di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola «vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano «vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà.
Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente.
Il contenuto centrale del Vangelo è: il regno di Dio è vicino. Viene posto un termine nel tempo, accade qualcosa di nuovo. E viene richiesta dagli uomini una risposta a questo dono: conversione e fede. Il centro di questa comunicazione è l’annuncio della vicinanza del regno di Dio. Questo annuncio infatti rappresenta il centro della parola e dell’attività di Gesù. Lo può confermare un dato statistico: nel Nuovo Testamento l’espressione «regno di Dio» ricorre 122 volte. Di questi 122 passi, 99 si trovano nei tre Vangeli sinottici, dove 90 volte l’espressione ricorre in parole pronunciate da Gesù. Nel Vangelo di Giovanni e nei restanti scritti neotestamentari l’espressione ha solo un ruolo marginale. Si può dire: mentre l’asse della predicazione pre-pasquale di Gesù è l’annuncio del regno di Dio, il centro della predicazione apostolica post-pasquale è la cristologia.
Ma ora, questo significa forse un distacco dal vero annuncio di Gesù? È vero quello che asserisce Rudolf Bultmann, secondo il quale il Gesù storico nella teologia del Nuovo Testamento non c’entrerebbe, ma dovrebbe invece essere considerato ancora come un maestro ebreo che, pur essendo da annoverare tra i presupposti essenziali del Nuovo Testamento, tuttavia personalmente non ne farebbe parte?
Un’altra variante in queste concezioni, che individuano un fossato tra Gesù e l’annuncio degli apostoli, si trova nell’affermazione, divenuta famosa, del modernista cattolico Alfred Loisy: «Gesù annunciò il regno di Dio ed è venuta la Chiesa». Sono parole da cui traspare sì ironia, ma anche tristezza: invece del tanto atteso regno di Dio, del mondo nuovo trasformato da Dio stesso, è venuto qualcosa di completamente diverso – una misera cosa! -: la Chiesa.
È vero questo? La formazione del cristianesimo nell’annuncio apostolico, nella Chiesa da esso edificata, significa in realtà una caduta da un’aspettativa non adempiuta in qualcosa d’altro? Il mutamento di soggetto da «regno di Dio» a Cristo (e di lì il divenire della Chiesa) rappresenta davvero il crollo di una promessa, l’apparire di qualcos’altro?
Tutto dipende da come dobbiamo interpretare l’espressione «regno di Dio» pronunciata da Gesù, in che rapporto l’annuncio stia con Lui, l’annunciatore: è solo un messaggero che deve sostenere una causa in ultima istanza indipendente da Lui, o il messaggero è Lui stesso il messaggio? La domanda sulla Chiesa non è la questione primaria. La questione fondamentale riguarda in realtà il rapporto tra il regno di Dio e Cristo: da questo dipende poi come dobbiamo intendere la Chiesa.
Prima di immergerci nelle parole di Gesù per capire il suo annuncio – la sua azione e la sua sofferenza – può essere utile dare un rapido sguardo a come è stata interpretata la parola «regno» nel corso della storia della Chiesa. Nei Padri possiamo individuare tre dimensioni nell’interpretazione di questa parola-chiave.
La prima è la dimensione cristologica. Origene ha denominato Gesù – dalla lettura delle sue parole – autobasileia, cioè il regno in persona. Gesù stesso è il «regno»; il regno non è una cosa, non è uno spazio di dominio come i regni del mondo. È persona, è Lui. L’espressione «regno di Dio» sarebbe quindi, essa stessa, una cristologia nascosta. Con il modo in cui parla di «regno di Dio», Egli conduce gli uomini all’enormità del fatto che in Lui è presente Dio stesso in mezzo agli uomini, che Egli è la presenza di Dio.
Una seconda linea interpretativa del significato del «regno di Dio» è quella che potremmo definire «idealistica» o anche mistica; essa vede il regno di Dio collocato essenzialmente nell’interiorità dell’uomo.
Anche questa corrente interpretativa è stata inaugurata da Origene. Nel suo trattato Sulla preghiera dice: «Chi chiede nella preghiera l’avvento del regno di Dio, prega senza dubbio per quel regno di Dio che egli porta in se stesso, ed egli prega perché questo regno porti frutto e giunga alla sua pienezza […]. Poiché in ciascuno degli uomini santi domina Dio [cioè esiste signoria, regno di Dio] […]. Se dunque vogliamo che Dio regni in noi [che il suo regno esista in noi], non deve in nessun modo regnare il peccato nel nostro corpo mortale (Rm 6,12) […]. Allora Dio passeggerà in noi come in un paradiso spirituale [Gn 3,8] e, insieme col suo Cristo, regnerà in noi esclusivamente…” (PG 11,495s). L’idea di fondo è chiara: il «regno di Dio» non si trova da qualche parte sulla carta geografica. Non è un regno alla maniera dei regni del mondo; il suo luogo è l’interiorità dell’uomo. Lì cresce e da lì opera.
Una terza dimensione nell’interpretazione del regno di Dio potremmo definirla ecclesiastica: il regno di Dio e la Chiesa vengono in vari modi messi in rapporto tra loro e più o meno avvicinati l’uno all’altra. Quest’ultima tendenza è andata sempre più affermandosi – per quanto io posso vedere – soprattutto nella teologia cattolica dell’età moderna, anche se l’interpretazione nel senso dell’interiorità dell’uomo e la connessione con Cristo non sono mai state del tutto perse di vista. Ma nella teologia del XIX secolo e anche dell’inizio del XX si amava parlare della Chiesa come del regno di Dio sulla terra; la Chiesa era considerata come la realizzazione del regno all’interno della storia. Nel frattempo però l’Illuminismo aveva suscitato nella teologia protestante un rivolgimento nell’esegesi e quindi, in particolare, aveva condotto anche a una nuova interpretazione del messaggio di Gesù circa il regno di Dio. Questa nuova interpretazione, tuttavia, si suddivise ben presto in direzioni molto diverse tra loro.
Il rappresentante della teologia liberale all’inizio del XX secolo è Adolf von Harnack, che vedeva nell’annuncio del regno di Dio da parte di Gesù una duplice rivoluzione nei confronti del giudaismo del suo tempo. Mentre nel giudaismo tutto sarebbe stato centrato sul collettivo, sul popolo eletto, l’annuncio di Gesù sarebbe stato rigorosamente individualistico: Egli si sarebbe rivolto alla singola persona e avrebbe, appunto, riconosciuto il valore infinito del singolo facendone il fondamento del suo insegnamento. E c’è – in Harnack – una seconda contrapposizione fondamentale. A suo avviso nel giudaismo avrebbe dominato l’aspetto cultuale (e con esso la classe sacerdotale); Gesù invece avrebbe messo da parte l’aspetto cultuale, il suo messaggio sarebbe stato orientato in senso rigorosamente morale. Egli non avrebbe mirato alla purificazione e alla santificazione cultuali, ma all’anima dell’uomo: l’agire morale del singolo, le sue opere di amore, deciderebbero del suo ingresso o della sua esclusione dal regno.
Questa contrapposizione di culto e morale, di collettività e individuo ha fatto sentire a lungo i suoi effetti e a partire più o meno dagli anni Trenta è stata ampiamente adottata anche dall’esegesi cattolica. In Harnack, tuttavia, essa era anche legata alla contrapposizione tra le tre grandi forme del cristianesimo: cattolico-romana, greco-slava e germanico-protestante. Secondo Harnack, quest’ultima aveva ripristinato il messaggio di Cristo nella sua purezza. Ma proprio in ambito protestante vi furono posizioni anche decisamente antitetiche: destinatario della promessa non sarebbe il singolo in quanto tale, bensì la comunità, e come suo membro il singolo otterrebbe la salvezza. Non importerebbe la prestazione etica dell’uomo; il regno di Dio si collocherebbe piuttosto «al di là dell’etica» e sarebbe pura grazia, come risulterebbe in particolare dal fatto che Gesù mangiava insieme con i peccatori.
L’epoca d’oro della teologia liberale terminò con la Prima guerra mondiale e con il mutamento radicale del clima spirituale che ne seguì. Ma un rivolgimento si era già annunciato da tempo. Il primo chiaro segnale fu dato dal libro di Johannes Weiss Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes (La predicazione di Gesù sul regno di Dio) (1892).
Nella stessa direzione andarono i primi lavori esegetici di Albert Schweitzer: ora si diceva che il messaggio di Gesù sarebbe stato radicalmente escatologico, il suo annuncio della vicinanza del regno di Dio sarebbe stato l’annuncio della prossima fine del mondo, dell’irruzione del nuovo mondo di Dio, della sua signoria appunto. L’annuncio del regno di Dio sarebbe quindi da comprendere in modo strettamente escatologico. Anche testi che evidentemente contraddicono tale tesi vennero interpretati con qualche forzatura in questo senso, come per esempio le parabole della crescita che parlano del seminatore (cfr. Mc 4,39), del granello di senape (cfr. Mc 4,30-32), del lievito (cfr. Mt 13,33; Lc 13,20), del seme che spunta da solo (cfr. Mc 4,26-29). Allora si diceva: non è importante la crescita; Gesù voleva invece dire: adesso c’è la realtà umile, ma improvvisamente – di colpo – apparirà l’altra realtà. È evidente che lì la teoria prendeva il sopravvento sull’ascolto del testo. Gli sforzi fatti per tradurre nella vita cristiana contemporanea la visione dell’escatologia ravvicinata, che per noi non è così immediatamente comprensibile, furono molteplici.
Bultmann, per esempio, cercò di farlo mediante la filosofia di Martin Heidegger: quello che conta sarebbe un atteggiamento esistenziale, l’«incessante disponibilità»; Jürgen Moltmann, ricollegandosi a Ernst Bloch, sviluppò una «Teologia della speranza», che intendeva interpretare la fede come attivo inserimento nell’edificazione del futuro.
Nel frattempo si è sviluppata in estesi circoli della teologia, in modo particolare in ambito cattolico, una reinterpretazione secolaristica del concetto di «regno», che dà il via a una nuova visione del cristianesimo, delle religioni e della storia in generale e con questa profonda trasformazione vuole rendere il presunto messaggio di Cristo nuovamente accettabile.
Si asserisce che prima del Concilio avrebbe dominato l’ecclesiocentrismo: la Chiesa sarebbe stata proposta come centro del cristianesimo. Poi si sarebbe passati al cristocentrismo, presentando Cristo come il centro di tutto. Ma – si dice – non solo la Chiesa separa, anche Cristo appartiene solo ai cristiani. Pertanto dal cristo- centrismo si sarebbe saliti al teocentrismo, e ci si sarebbe in questo modo avvicinati già di più alla comunità delle religioni. Con ciò, però, non sarebbe ancora raggiunta la meta, perché anche Dio può essere un elemento di divisione tra le religioni e tra gli uomini.
Per questo bisognerebbe ora fare il passo verso il regnocentrismo, verso la centralità del regno. Questo, appunto, sarebbe stato in definitiva il cuore del messaggio di Gesù e ciò costituirebbe la via giusta per unire finalmente le forze positive dell’umanità nel cammino verso il futuro del mondo. «Regno» significherebbe semplicemente un mondo in cui regnano la pace, la giustizia e la salvaguardia della creazione. Non si tratterebbe di nient’altro. Questo «regno» dovrebbe essere realizzato come approdo della storia. E questo sarebbe il vero compito delle religioni: lavorare insieme per la venuta del «regno»… Per il resto, esse potrebbero ben mantenere le loro tradizioni, vivere ognuna la propria identità, ma pur conservando le loro diverse identità, dovrebbero collaborare per un mondo in cui siano decisivi la pace, la giustizia e il rispetto della creazione.
Ciò suona bene: seguendo questa strada sembra possibile che il messaggio di Cristo venga finalmente fatto proprio da tutti senza dover evangelizzare le altre religioni; ora la sua parola sembra aver assunto finalmente un contenuto pratico, la realizzazione del «regno» sembra diventare così il compito comune, e in tal modo sembra avvicinarsi. Osservando però con maggiore attenzione, si resta perplessi: chi ci dice infatti che cos’è la giustizia? Che cosa nella concretezza si pone a servizio della giustizia? Come si costruisce la pace? A un’osservazione più attenta l’intero ragionamento si rivela un insieme di chiacchiere utopistiche prive di contenuto reale, a meno che sotto sotto vengano presupposte, come contenuto di questi concetti che tutti devono accogliere, dottrine di partito.
Un punto emerge su tutto: Dio è sparito, chi agisce è ormai solo l’uomo. Il rispetto delle «tradizioni» religiose è solo apparente. Esse, in realtà, vengono considerate come un ammasso di abitudini che bisogna lasciare alla gente, anche se in fondo non contano assolutamente nulla. La fede, le religioni vengono usate a fini politici. Conta solo organizzare il mondo. La religione conta in quanto può essere in ciò di aiuto. La vicinanza di questa visione post-cristiana della fede e della religione alla terza tentazione è inquietante.
Ritorniamo dunque al Vangelo, ritorniamo all’autentico Gesù. La nostra critica principale a questa idea secolare-utopistica del regno era: Dio è scomparso. Non serve più o è addirittura di disturbo. Gesù però ha annunciato il regno di Dio, non un regno qualunque. È vero che Matteo parla di «regno dei cieli», ma la parola «cielo» è l’equivalente della parola «Dio» che il giudaismo, per rispetto del mistero di Dio, ha per lo più evitato, con riferimento al secondo comandamento. Di conseguenza con l’espressione «regno dei cieli» non viene annunciata una cosa che sta solo nell’aldilà, ma si parla di Dio che è tanto quaggiù quanto lassù – che trascende infinitamente il nostro mondo, ma è anche totalmente intimo a esso.
Va ricordata ancora un’importante osservazione linguistica: la radice ebraica malkut «è un nomen actionis e significa – come anche la parola greca basileía – l’esercizio della signoria, l’essere signore (del re)». Non si parla di un «regno» futuro o ancora da instaurare, bensì della sovranità di Dio sul mondo che, in modo nuovo, diventa realtà nella storia.
Con parole più esplicite possiamo dire: parlando del regno di Dio, Gesù annuncia semplicemente Dio, cioè il Dio vivente, che è in grado di operare concretamente nel mondo e nella storia e proprio adesso sta operando. Ci dice: Dio esiste. E ancora: Dio è veramente Dio, vale a dire, Egli tiene in mano le fila del mondo. In questo senso il messaggio di Gesù è molto semplice, è del tutto teocentrico. L’aspetto nuovo ed esclusivo del suo messaggio consiste nel fatto che Egli ci dice: Dio agisce adesso – è questa l’ora in cui Dio, in un modo che va oltre ogni precedente modalità, si rivela nella storia come il suo stesso Signore, come il Dio vivente. Pertanto la traduzione «regno di Dio» è inadeguata, sarebbe meglio parlare dell’«essere Signore» di Dio oppure della signoria di Dio.
Ma ora dobbiamo cercare di definire un po’ più da vicino il contenuto del messaggio di Gesù sul «regno» a partire dal suo contesto storico. L’annuncio della signoria di Dio si fonda – come tutto il messaggio di Gesù – sull’Antico Testamento, che Egli legge nel suo movimento progressivo dagli inizi con Abramo fino alla sua ora come una totalità, che – proprio quando si comprende la totalità di questo movimento – conduce direttamente a Gesù.
Vi sono anzitutto i cosiddetti Salmi dell’intronizzazione, che proclamano la regalità di Dio (YHWH) – una regalità che viene intesa come cosmica-universale e che Israele accoglie in atteggiamento di adorazione (cfr. Sal 47; 93; 96; 97; 98; 99). A partire dal VI secolo, di fronte alle catastrofi nella storia di Israele, la regalità di Dio diventa espressione della speranza per il futuro. Il Libro di Daniele – siamo nel II secolo avanti Cristo – parla dell’essere Signore di Dio nel presente, ma soprattutto annuncia a noi una speranza per il futuro, per la quale diventa ora importante la figura del «figlio dell’uomo», che deve portare la signoria. Nel giudaismo del tempo di Gesù incontriamo il concetto di signoria di Dio nel culto del tempio a Gerusalemme e nella liturgia sinagogale; tale concetto è presente negli scritti rabbinici come nei manoscritti di Qumran. Il pio israelita prega ogni giorno ripetendo lo Shema’. «Ascolta, Israele. il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze…» (Dt 6,4s; cfr. 11,13; Nm 15,37-41). La recita di questa preghiera era interpretata come il prendere su di sé il giogo della signoria di Dio. questa preghiera non è solo parola; recitandola, l’orante accoglie la signoria di Dio, che così mediante l’atto di colui che prega entra nel mondo, portata anche da lui e, determinandone attraverso la preghiera il modo di vivere, la quotidianità, si rende presente in quel luogo del mondo.
Vediamo così che la signoria di Dio, la sua sovranità sul mondo e sulla storia, va oltre il momento, va oltre la storia nella sua interezza e la trascende; la sua dinamica intrinseca porta la storia al di là di se stessa.
Tuttavia, nello stesso tempo è qualcosa di assolutamente presente – presente nella liturgia, nel tempio e nella sinagoga quale anticipazione del mondo venturo; presente come forza che dà forma alla vita attraverso la preghiera e l’esistenza del credente, il quale porta il giogo di Dio e così partecipa in anticipo al mondo futuro.
Proprio in questo punto si può vedere molto bene che Gesù è stato «un vero israelita» (cfr. Gv 1,47) e allo stesso tempo – nel senso della dinamica intrinseca delle sue promesse – è andato oltre il giudaismo. Nulla dei contenuti che abbiamo appena scoperto si è perso. Tuttavia c’è qualcosa di nuovo, che si esprime soprattutto nelle parole «il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15), «è certo giunto fra voi» (Mt 12,28), è «in mezzo a voi» (Lc 17,21). Qui si fa riferimento a un processo del «giungere» che è in atto ora e interessa tutta la storia. Sono queste parole che suscitarono la tesi dell’attesa ravvicinata, facendola apparire come lo specifico di Gesù.
Ma questa interpretazione non è affatto cogente, anzi, se si considera l’intero corpus delle parole di Gesù, è addirittura chiaramente da escludere: lo si vede dal fatto che i sostenitori dell’interpretazione apocalittica dell’annuncio del regno da parte di Gesù (nel senso dell’attesa ravvicinata), partendo dai loro criteri gli disconoscono semplicemente una grande parte delle sue parole riguardo a questo tema e, con qualche forzatura, ne devono adattare altre.
Al messaggio di Gesù sul regno appartengono – l’abbiamo già visto – affermazioni che esprimono la povertà di questo regno nella storia: è come un granello di senape, il più piccolo tra tutti i semi. È come lievito, una quantità minima rispetto alla massa dell’impasto, ma determinante per il risultato definitivo. È ripetutamente paragonato alla semente che viene gettata nel campo del mondo e subisce destini diversi: viene beccata dagli uccelli, soffocata sotto le spine, o invece matura fino a portare molto frutto.
Un’altra parabola racconta che la semente del regno cresce, che però un nemico semina in mezzo a essa la zizzania, che poi cresce insieme a essa, e solo alla fine avviene la separazione (cfr. Mt 13,24-30).
Un altro aspetto di questa misteriosa realtà della «signoria di Dio» si palesa quando Gesù la paragona a un tesoro nascosto nel campo. Colui che lo trova lo sotterra di nuovo e vende tutti i suoi averi per poter comperare il campo e venire così in possesso del tesoro che può soddisfare ogni desiderio. La parabola ha un parallelo in quella della perla preziosa: colui che la trova vende, anche lui, tutto per ottenere questo bene che è superiore a ogni altra cosa (cfr. Mt 13,44ss). Un ulteriore aspetto della realtà «signoria di Dio» (regno) si manifesta quando Gesù, con parole difficili da spiegare, dice che il «regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12).
È metodologicamente inammissibile riconoscere come «proprio di Gesù» solo un aspetto del tutto e, partendo da una tale affermazione arbitraria, piegare tutto il resto in quella direzione. Dobbiamo piuttosto dire: la realtà che Gesù chiama «regno di Dio, signoria di Dio» è estremamente complessa, e solo accettando il tutto possiamo avvicinarci al suo messaggio e da esso lasciarci guidare.
_011-jesus-ratzinger-rgno-di-dio-2Vediamo un po’ più da vicino almeno un testo, indicativo della difficoltà di capire il messaggio di Gesù, sempre misteriosamente cifrato. Luca (17,20s) ci dice: Gesù «interrogato dai farisei: “Quando verrà il regno di Dio?”, rispose: “Il regno di Dio non viene in modo che lo si possa osservare [da spettatori neutrali!], e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché ecco: il regno di Dio è in mezzo a voi!”». Nelle interpretazioni di questo testo incontriamo di nuovo le diverse correnti secondo cui è stato interpretato in generale il «regno di Dio» – a seconda della decisione previa e della visione di fondo della realtà fatta propria dall’esegeta.
C’è l’interpretazione «idealistica», che ci dice: il regno di Dio non è una realtà esteriore, ma è collocato nell’interiorità dell’uomo – pensiamo a quello che abbiamo già sentito da Origene. In questa spiegazione c’è del vero, ma anche dal punto di vista linguistico essa è inadeguata. Poi c’è l’interpretazione nel senso dell’attesa ravvicinata che afferma: il regno di Dio non viene lentamente così che lo si possa osservare; arriva, invece, all’improvviso. Ma questa interpretazione non ha alcun fondamento nella lettera del testo.
Perciò ora prevale sempre più la tendenza secondo la quale con queste parole Cristo si riferisce a se stesso: Egli, che è in mezzo a noi, è il «regno di Dio», solo che noi non lo conosciamo (cfr. Gv 1,30s). Con una sfumatura leggermente diversa un’altra affermazione di Gesù orienta nella stessa direzione: «Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11,20). Qui (come del resto anche nel testo precedente) il «regno» non è semplicemente presente nella presenza fisica di Gesù, ma mediante il suo operare nello Spirito Santo. In questo senso il regno di Dio, in Lui e attraverso di Lui, qui e ora, diventa presenza, «si avvicina».
Così, in un modo per ora ancora provvisorio e da sviluppare poi in tutto l’itinerario del nostro ascolto della Scrittura, s’impone la risposta: la nuova vicinanza del regno di cui parla Gesù e la cui proclamazione costituisce l’aspetto distintivo del suo messaggio, questa nuova vicinanza è Lui stesso. Attraverso la sua presenza e la sua attività Dio è entrato nella storia in modo completamente nuovo qui e ora come Colui che opera. Per questo è ora «tempo compiuto» (cfr. Mc 1,15); per questo è ora, in un modo del tutto particolare, tempo di conversione e di penitenza, come anche tempo di gioia, perché in Gesù Dio viene incontro a noi. In Lui ora Dio è Colui che opera e regna – regna in modo divino, cioè senza potere mondano, regna con l’amore che va «sino alla fine» (Gv 13,1), sino alla croce. A partire da questo dato centrale si congiungono i diversi aspetti, apparentemente contraddittori.
A partire da qui capiamo le affermazioni sull’umiltà e sul nascondimento del regno; da qui l’immagine di fondo del seme di cui dovremo occuparci ancora in vari modi; da qui anche l’invito al coraggio della sequela, che abbandona tutto il resto. Egli stesso è il tesoro, la comunione con Lui la perla preziosa.
Da qui si chiarisce ora anche la tensione tra ethos e grazia, tra il personalismo più stretto e la chiamata a far parte di una nuova famiglia. Riflettendo sulla Torah del Messia nel Discorso della montagna, vedremo come confluiscano ora insieme la libertà dalla Legge, il dono della grazia, la «maggiore giustizia» richiesta ai discepoli di Gesù, la «sovrabbondanza» di giustizia rispetto alla giustizia dei farisei e degli scribi (cfr. Mt 5,20). Guardiamo intanto un solo esempio: l’episodio del fariseo e del pubblicano che pregano entrambi nel tempio in modi molto diversi (cfr. Lc 18,9-14).
Il fariseo può vantarsi di considerevoli virtù; egli racconta a Dio di se stesso soltanto e, lodandosi, crede di lodare Dio. Il pubblicano sa dei suoi peccati, si rende conto di non potersi vantare dinanzi a Dio e, nella consapevolezza della sua colpa, chiede grazia. Significa forse questo che l’uno impersona l’ethos e l’altro la grazia senza l’ethos o contro l’ethos? In realtà non si tratta della domanda: ethos sì o no, ma di due modi di porsi davanti a Dio e a se stessi. L’uno, in fondo, non guarda Dio, ma solo se stesso; egli, in fin dei conti, non ha bisogno di Dio perché fa tutto giusto da sé. Non esiste un vero rapporto con Dio, che in ultima istanza è superfluo – basta il proprio agire. Quell’uomo si giustifica da solo. L’altro invece si vede a partire da Dio. Ha rivolto lo sguardo a Dio e in questo gli si è aperto lo sguardo su se stesso. Sa così di aver bisogno di Dio e di vivere della sua bontà che non può ottenere per forza, che non può procurarsi da solo. Sa di aver bisogno di misericordia e così si metterà a scuola della misericordia di Dio per diventare lui stesso misericordioso e in ciò simile a Dio. Egli vive grazie alla relazione, all’essere gratificato di un dono; avrà sempre bisogno del dono della bontà, del perdono, ma da ciò imparerà sempre anche a trasmetterlo. La grazia che implora non lo dispensa dall’ethos. Solo essa lo rende capace di fare veramente il bene. Ha bisogno di Dio, e poiché lo riconosce, a partire dalla bontà divina comincia a diventare lui stesso buono. L’ethos non viene negato, viene solo liberato dalla stretta del moralismo e collocato nel contesto di un rapporto di amore, del rapporto con Dio; così l’ethos giunge a essere veramente se stesso.
Il tema del «regno di Dio» pervade tutta la predicazione di Gesù. Pertanto possiamo capirlo solamente dalla totalità del suo messaggio. Se ora rivolgiamo la nostra attenzione a uno dei passi centrali dell’annuncio di Gesù – il Discorso della montagna – vi troveremo sviluppati più profondamente i temi qui toccati solo di sfuggita. Allora ci apparirà chiaro soprattutto che Gesù parla sempre come il Figlio, che il rapporto tra Padre e Figlio è sempre sullo sfondo del suo messaggio. In questo senso Dio occupa sempre il posto centrale nel discorso; ma proprio perché Gesù stesso è Dio – il Figlio – tutta la sua predicazione è annuncio del suo stesso mistero, è cristologia, vale a dire discorso sulla presenza di Dio nel suo proprio operare ed essere. E vedremo come questo sia il punto che esige una decisione e come perciò questo sia il punto che conduce alla croce e alla risurrezione.
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