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Insegnamenti pratici sopra l'orazione mentale - VI - Parte 2

Circostanze della passione di Gesu'

Autore: Autori Cristiani

La terza circostanza da considerare si è il perchè, ossia, la ragione per cui Gesù Cristo ha patito. Ed intorno a questa avremo due punti capaci di somministrare alla nostra mente materia copiosa di riflessione. Una ragione la troveremo per parte nostra, ed un’altra da parte di Dio.. In prima quella che da parte nostra ha dato motivo alla Passione di Gesù, sta nel maledetto peccato, insegnandoci la fede: Propter scelus populi risei percussi eum. Io, dice il Signore, cioè il divin Padre, l’ho percosso a cagione dei peccati del mio popolo. Di modo che sotto un tal riguardo noi possiamo e debbiamo considerare il Crocifisso come un libro, in cui Iddio ha stampato e descritto con caratteri visibili la malizia orrenda e spaventevole di questo mostro del peccato. Sì certamente, Dio ne avea già dato delle prove in altre occasioni, quando p. es. sui principii della creazione milioni di angeli precipitarono nell’inferno per un solo peccato di superbia; dipoi quando per un peccato di disubbidienza commesso dal primo uomo tutta l’umana natura rimase spogliata dalla grazia santificante, privata dell’eredità del cielo, e condannata ad una miseria eterna; in seguito allorchè per lavare la terra imbrattata dalle iniquità bisognò che un diluvio di acque la sommergesse intieramente, e ne affogasse gli abitatori. A dir breve, Dio ne avea dato continue prove nei tempi successivi ora col fuoco, ora coi terremoti, ora colle pesti, ora colle guerre e colla fame, da cui restarono desolate città, provincie ed intieri regni. Sì, ripeto, queste sono state tremende lezioni, dipinture spaventose, prove assai convicenti, colle quali il Signore ha voluto farci vedere quanto gran male sia il peccato.
Nondimeno, dobbiamo persuaderci che si era ancora ben lungi dall’aver raggiunto la verità. Una tal prova era riservata al compimento di questo gran mistero, del Figliuolo cioè di Dio, per i peccati condannato a morire sulla croce. Ed invero riflettiamo. Ecco questo Figliuolo che dal suo divin Padre è amato infinitamente, che gli è più prezioso e caro di cento milioni di mondi; onde piuttosto che vederlo soffrire la minima pena. vorrebbe vedere. annientate per sempre tutte le creature. Ed ora egli, il Padre eterno, lo dà nelle mani della morte, e della morte la più crudele, la più tormentosa, la più infame di tutte le morti; e questo per distruggere il peccato – propter scelus populi mei percussi eum. – E chi avrà più difficoltà a credere che il peccato è un’ingiuria infinita che si fa a Dio, mentre vediâmo che arriva a caricarlo di vergogna e confusione, a lacerarlo coi flagelli, a trafiggerlo colle spine, a ricuoprirlo di piaghe, a crocifiggerlo, e finalmente a strappargli la vita? E’ vero che tuttociò lo compie sopra l’umanità di Gesù Cristo, cioè di Dio fatto uomo; ma è ancor vero che da un tal fatto si conosce il diabolico genio di questo mostro, le sue perverse intenzioni, l’orribile sua malizia; giacchè si vede chiaramente che se potesse, non farebbe di meno alla Divinità medesima.
Che se ci rivolgeremo a considerare l’altra causa che ha prodotto la Passione di Gesù Cristo, quella cioè da parte di Dio, la troveremo in una carità infinita, in un amore eccessivo verso di noi. E difatti se ci facciamo ad esaminare bene che cosa può aver mosso la volontà di Dio a compiere un’opera sì stupenda e meravigliosa, non ci riuscirà di trovare altro che l’amore. Imperocchè non si può pensare che Iddio volesse compierla per ritrarne utilità, non avendo Dio bisogno di alcuno, nè essendo capace di riportar vantaggi di sorta dalle sue creature. Neppure si può credere che vi s’inducesse per titoli di convenienze; poichè non v’ha alcuna convenienza che il Creatore si abbassi a soddisfare i debiti delle sue creature, e debiti contratti con lui medesimo; e tanto più che al caso nostro trattavasi di creature vilissime per condizione, ed ancor più vili ed indegne per le qualità, essendosi da lui allontanate per il peccato commesso di proprio volere, e stando tuttavia disposte a rimanere ostinate nel male, malgrado, i mezzi che per liberarsene loro si apparecchiavano dalla divina misericordia. Finalmente nemmeno si può dire che la causa provenisse dalla necessità; poichè dato pure che Iddio fosse determinato di rimediare ai nostri mali, e di scontare i nostri debiti contratti per il peccato, non era necessario no, che egli venisse in questo mondo per morire; e volendo supporre che dovesse anche morire, non faceva d’uopo che si assoggettasse a così grandi eccessi di umiliazioni e di dolori, e molto meno che andasse a morire su di una croce, e di una morte così obbrobriosa e spietata. Una lagrima che avesse gittato, una goccia di sudore che avesse sparso, un sospiro che tramandato avesse dal suo Cuore divino, sarebbe stato più che sufficiente a cavarci da ogni miseria, a soddisfare tutti i nostri peccati, a rimetterci in possesso dei perduti diritti. Ma ecco appunto il gran mistero: ciò che potea non lo volle fare, e non lo volle fare propter nimiam charitatem suam, qua dilexit nos, come dice l’Apostolo, per uri eccesso d’infinita carità verso di noi. Di maniera che dobbiamo credere che il peccato è stato la causa della Passione di Gesù Cristo, ma solo causa impulsiva, che ha servito cioè a Dio per indurlo; e determinarlo a diffondere fuori di sè l’infinita carità di cui ardeva, ed avvampava il suo amorosissimo Cuore: propter nimiam charitatem suam, qua dilexit nos. E che la cosa sia così, si vedrà anche meglio nel considerare che faremo la quarta circostanza di cui resta a parlare, del modo cioè col quale Gesù Cristo ha patito.
E certamente prendendo a considerare il modo con cui il Redentore divino ha tollerato la sua Passione, ci si presenta sopra ogni altra cosa una carità tale, da rimanere quasi in dubbio se fosse in lui maggior tormento il desiderio di più patire per gli uomini, di quello che non era il patire stesso a cui gli uomini lo assoggettavano. E difatti passiamo a rassegna e la quantità, e la qualità, e la forza di tutti i tormenti che gli furono apprestati dall’umana e diabolica malizia, e vedremo che nè separatamente, nè tutti insieme non solo non riuscirono ad illanguidide per un momento l’ardore, e la fiamma accesissima di questa carità che gli bruciava nel petto, ma che anzi l’accesero ognora più, e l’aumentarono, alla guisa appunto di un liquido infiammabile che gittato per ismorzare, accresce sempre più l’incendio. Udite, carissimi, che ve ne mostrerò qualche saggio colla scorta del S. Vangelo.
Il buon Gesù sapeva benissimo ed avea presente allo spirito tutta la serie dei tormenti, dei dolori, e delle afflizioni che gli stava apparecchiata negli ultimi giorni di sua vita mortale; poichè era Dio, e a Dio ogni cosa è palese, siccome ogni cosa è presente. Ora ascoltiamo come Egli stesso ne parla co’ suoi discepoli. Un giorno che stava con loro ragionando. Ego, sentite, figliuoli, qual espressione, ego baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor usquedum perficiatur!. Io ho ad esser lavato con un bagno di sangue. Sappiate però che questa previsione mi cagiona tanto desiderio di arrivare a quel punto, che ogni ora mi sembra mille; l’indugiare mi dà tanta pena, che mi pare di essere stretto sotto un torchio per l’oppressione, per l’affanno prodotto dal desiderio di giugngere a quel momento: Coarctor usquedum perflciatur. E dove può immaginarsi sentimento più generoso, zelo, carità più ardente? Ma osserviamolo colà nell’Orto del Getsemani. Egli si rattrista, sospira, cade bocconi a terra, suda sangue; eppure dove sono i flagelli, dove le spine, i chiodi? Nulla di ciò, ma a tutto supplisce la brama che ha di patire, il desiderio che ha di spargere il suo sangue per noi: onde non può aspettare che gli si pongano le mani addosso, e che gli si squarcino le vene; ma da se stesso si anticipa il tormento con un volontario, ed apprensivo dolore, dimostrando cosi agli uomini che era più ardente la sua carità, che non fosse la loro malizia. E di questo resteremo vieppiù persuasi dandogli un ultimo sguardo là sulla croce. Eccolo il buon Gesù pendente da tre chiodi, tutto lacero, insanguinato, agonizzante, e qual mansueto agnello starsene ivi senza dare un segno di dispiacere, e di fastidio. Ma pure, gran che se Egli patisce tutto con una silenziosa rassegnazione, sembra che per una cosa non valga a mantenere il silenzio e non possa far di meno di esternarne la pena. E qual’è questa cosa? Udite. Egli esclama dalla croce: Sitio, ho sete. E come mai, o Signore, gli dimanda S. Bernardo, tutto maravigliato! che mistero è mai questo, o Gesù buono, lagnarvi solamente della sete fra tanti spasimi maggiori che avete sofferto, e che soffrite? Ah! non vi maravigliate, risponde il Santo, e con lui gli altri Padri della Chiesa, non vi maravigliate, poichè il divin Redentore volle con ciò mostrare, che, sebbene avea patito tanto, e tanto allora pativa, nondimeno la fornace infinita di carità che ardeva nel suo petto, non erari per anco spenta, ma avvampava anzi con maggior forza, e spingevalo in cerca di patimenti maggiori. Onde se fosse stato necessario che Egli se ne stesse ivi pendente dalla croce, e soffrendo quegli acerbi spasimi sino al giorno dell’estremo giudizio, volentieri l’avrebbe fatto.
O carità inaudita! spettacolo degno di ammirazionè al cielo, e alla terra! In cui si vide l’odio, e l’amore gareggiar insieme; l’uno per opprimere Gesù Cristo di tormenti e di spasimi, l’altro per accendere vieppiù il suo Cuore di brama di soffrirli. Ed ecco la ragione per cui se i soldati lo cercavano nell’Orto per imprigionarlo, Egli andava loro incontro prontissimo per farsi legare. Se Giuda stendeva la sua impura bocca per tradirlo col bacio, Egli, il buon Gesù, presentavagli il volto, e lo abbracciava per primo, chiamandolo col dolce nome di amico. Se gli Ebrei ed i carnefici inventavano stratagemmi i più dolorosi per farlo morire, Egli per prolungarsi la vita, ed aver tempo di patire maggiormente, adoperava miracoli. Se i suoi nemici gli fabbricavano la croce per conficcarvelo sopra, Egli abbracciavala, e vi si stendeva sopra. Se tutti finalmente congiuravano contro di lui, e gli toglievano la vita colla morte ignominia dei malfattori, Egli con infinito desiderio vi si rassegnava, cedendo poi tutto il merito a chi gliel’avea procurata: ‘Proposito sibi gaudio, dice l’Apostolo, sustinuit crucem. O carità! amore! Se la prova più indubitata di un amor grande si è il patire per l’oggetto amato con fortezza, con costanza, dove se ne troverà un’atra simile? o dove se ne potrà immaginare una più stupenda di questa che ce ne ha data il Salvatore divino? Come non confesseremo che era impossibile ad altri fuori che ad un amore infinito, il così patire, il così morire per l’uomo?
Ma oltre la carità che vediamo come regina abbellire e portare in trionfo la Passione di Gesù Cristo, ci si porgerà ancor materia di fermare l’attenzione nostra sopra le altre virtù che in certa guisa fanno corte a quella carità, e che pure appartengono alla circostanza medesima. Voglio dire che considerando il modo col quale Gesù Cristo ha sofferto tante ignominie, pene ed afflizioni, avremo eziando abbandante materia a riflettere sul contegno che egli mantenne nel soffrire tali cose.
Ed infatti qual umiltà profondissima non ci si presenta nell’osservare che faremo un Dio, Essere infinito, beatissimo in se stesso, che di niuna cosa può aver bisogno, e che è la stessa sapienza, onnipotenza e perfezione, osservarlo che lascia il trono della sua ineffabile gloria per venire in terra, nascondersi sotto umana carne come l’infima delle sue creature, assoggettarsi alle nostre debolezze e miserie, farsi vedere bisognoso di aiuto non solo, ma di più tollerare di essere deriso come uno stolto; perseguitato come un malfattore, e poi arrestato dalla pubblica giustizia qual sovvertitore del popolo, e quindi soffrire di essere calunniato come un bestemmiatore, battuto come uno schiavo, schiaffeggiato, sputacchiato e vilipeso come la persona più indegna, ed infine reputato come un ribaldo meritevole di lasciar la vita sopra un infame patibolo! O qual eccesso, anzi quale abisso di umiltà è mai questo, rispetto a Gesù Cristo vero Dio! In conseguenza quale oggetto capace di attirare la considerazione di un’anima! Più, qual pazienza invincibile ed eroica non ci si presenta nel vedere questo Signore e Dio assoggettarsi a tante e sì svariate, e sì dolorose sorte di umiliazioni, d’ignominie e di pene senza mai fare mostra di risentimento nè in fatti, nè in parole: senza mai dare il benchè minimo indizio di tedio e di fastidio; anzi vederlo sempre indifferente, mansueto e contento, sempre sollecito e pronto nel ripagare con favori chiunque gli cagioni del male, sino a chiamare amico chi lo tradisce, sino a compatire e scusare chi lo insulta e lo bestemmia, a perdonare a chi gli toglie la vita! O quale spettacolo di mansuetudine e di pazienza!
Così andando innanzi in questa materia ci si presenta in Gesù Cristo una rassegnazione perfettissima, ed una ubbidienza tanto esatta, ed illimitata che per compiere i voleri del Padre celeste, e per incontrarne il compiacimento, lo vediamo assoggettarsi a tutta quella serie sterminata di patire, da cui fu accompagnato dal primo istante della sua concezione sino all’ultimo respiro di sua vita. Laonde prima di rimettere la sua anima benedetta nelle mani del Padre, potè attestare a tutto il mondo che quanto gli era stato imposto, e quanto avea conosciuto che risulterebbe di gusto, e di gloria al Padre suo, tutto era stato da lui soddisfatto sino all’ultimo apice: consummatum est: parola che si può spiegare con quella sentenza dell’apostolo: Factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis.
Similmente ci si presenterà a considerare ed ammirare in questo Redentore divino un esempio di povertà strettissima, mediante la quale volle istruire gli uomini della stima che deve farsi delle cose di questo mondo. Sotto un tal riguardo lo vedremo vivere in tale stato di mendicità, e di disagio da esser costretto a guadagnarsi il cibo colle proprie fatiche; lo vedremo sempre, lungi dal possedere cosa alcuna come propria, nemmeno aver talvolta dove ricoverarsi, egli che era il creatore e padrone di tutto; lo vedremo infine morire talmente povero, che fu di bisogno che l’altrui carità venisse in suo soccorso, per dargli un lenzuolo da involgerlo, ed una sepoltura per essere seppellito! Insomma e qual virtù mai non avremo noi motivo di ammirare, e di ponderare in Gesù Appassionato, se egli è appunto il modello, il prototipo, il maestro di ogni virtù, e perfezione? Se egli a bella posta è venuto in terra, e si è adattato a menare una vita così laboriosa e sofferente per aprirci scuola, e dare a noi ammaestramenti pratici di virtuose e sante azioni?
E qui mi piace di farvi rilevare l’importanza somma che voi, dilettissimi, dovete mettere su questo punto; poichè egli è sotto un tale aspetto che specialmente il Crocifisso si chiama libro, e che la scienza da lui insegnata si chiama la scienza della salute: in quanto cioè noi troviamo nelle dottrine insegnate da Gesù Cristo tutto quello che dobbiamo sapere, e nelle virtù da lui praticate tutto quello che dobbiamo operare, per conseguire l’eterna salvezza. Per tal motivo osserveremo nel S. Vangelo che egli medesimo si chiamò Via, Verità e Vita e dichiarò apertamente che niuno sperar poteva di andare al suo Padre, se non per lui: Nemo venit ad Patrem nisi per me; perchè appunto questo fu il fine per cui il suo Padre celeste l’aveva mandato, affinchè ci servisse di mezzo di riconciliazione, non solo, ma ancora di guida e di norma da seguire: Christus pa,ssus est pro nobis, dice la S. Scrittura, vobis relinquens ea:emplum, ut sequamini vestigia ejus. Dal che apparisce chiaro che la meditazione della vita, e della Passione di Gesù Cristo deve dirigersi ad un doppio fine: di conoscere cioè quello che Iddio ha fatto per nostro bene, e nel tempo stesso di conoscere quello che noi dobbiam fare per corrispondere. E siccome questa seconda parte sta tutta espressa e dichiarata nella prima, quindi è cosa importantissima, ripeto, l’esaminare e ponderare bene ciò che fece nostro Signore Gesù Cristo, affine di poterlo prendere a norma sicura di ciò che dobbiamo far noi.

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