La Chiesa nostra Madre I
San Josemaría Escrivá testimone dell'amore alla Chiesa
Autore: San Josemaría Escrivá
Josemaría Escrivá testimone dell’amore alla Chiesa (Alvaro del Portillo)
In un’omelia, pronunciata nel 1963, il fondatore dell’Opus Dei diceva: «Quando Sua Santità Giovanni XXIII annunciò, nel discorso di chiusura della prima sessione del Concilio Vaticano II, che nel canone della Messa sarebbe stato introdotto il nome di Giuseppe, un’alta personalità ecclesiastica si affrettò a telefonarmi per dirmi: “Rallegramenti! A quell’annunzio ho pensato subito a lei, alla gioia che ne avrebbe avuto”. Ed era così, perché nell’assemblea conciliare, che rappresenta la Chiesa intera riunita nello Spirito Santo, si proclamava l’immenso valore soprannaturale della vita di Giuseppe, il valore di una vita semplice di lavoro vissuta alla presenza di Dio in perfetto compimento della divina volontà» [J. ESCRIVÁ, È Gesù che passa, Edizioni Ares, Milano 19885, 44].
Chiamata universale alla santità
Per desiderio di Giovanni XXIII e Paolo VI dovetti lavorare nella fase antipreparatoria del Concilio come presidente della commissione sui laici e, durante il Concilio, come segretario della commissione sulla disciplina del clero e del popolo cristiano, nonché come perito di altre quattro commissioni che pure trattarono temi dottrinali e disciplinari di primaria importanza nella vasta problematica del Vaticano II. Nelle ultime sessioni conciliari, mentre si raccoglievano i risultati del lavoro svolto nelle commissioni, mi tornò molte volte alla mente il piccolo ma significativo episodio di questa telefonata, di cui ero a conoscenza. In quante occasioni, durante l’approvazione dei documenti del Concilio, sarebbe stato di giustizia parlare col fondatore dell’Opus Dei e ripetergli: «Rallegramenti, perché ciò che custodisce nella sua anima, ciò che ha insegnato instancabilmente dal 1928, è stato proclamato dal Magistero della Chiesa!».
Torno ora con la memoria e con il cuore ai momenti del Concilio, e ricordo due cose che, in modo particolare, mi spingevano allora a ripetere al Signore: «Gratias tibi, Deus, gratias tibi!». La prima era un vivo ricordo di trent’anni addietro. Studiavo allora ingegneria e, per grazia di Dio, ricevetti la vocazione all’Opus Dei, mosso dalla preghiera, dalla mortificazione e dall’esempio del suo fondatore. In quei tempi egli mi spinse ad affrontare la mia coscienza, e ciò segnò una svolta nella mia vita di cristiano in mezzo al mondo, pur senza portarmi a cambiare la mia condizione. Mi colpì fortemente sentire dalle sue labbra, o leggere nei suoi scritti, affermazioni così semplici, eppure così grandi, come questa: «Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa — “homo peccator sum”, esclamiamo con Pietro — però con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti, che da tutti si aspetta amore: da tutti, dovunque essi si trovino; da tutti, qualunque sia il loro stato, la loro professione o mestiere» [J. ESCRIVÁ, Lettera, 24 marzo 1930]. E in Cammino, libro di spiritualità pubblicato per la prima volta nel 1939, come ampliamento del precedente Consideraciones espirituales, del 1934, si ribadiva con convinzione e con grande chiarezza: «Anche tu hai l’obbligo di santificarti: sì, anche tu. Chi pensa che la santità sia un dovere esclusivo di sacerdoti e di religiosi? A tutti, senza eccezione, il Signore ha detto: “Siate perfetti, com’è perfetto il Padre mio che è nei cieli”» [J. ESCRIVÁ, Cammino, Edizioni Ares, Milano 199329, 291].
Era la dottrina sulla chiamata universale alla santità, intimamente sentita dal fondatore dell’Opus Dei e continuamente ribadita, forse, e senza forse, anche a costo di non essere bene inteso da tanti che erano mossi da una visione ristretta — da alcuni definita «esclusivista» — della vita cristiana: «Fin dall’inizio dell’Opera, nel 1928, ho sempre predicato che la santità non è cosa per privilegiati. Siamo venuti a dire che possono essere divini tutti i cammini della terra, tutte le condizioni, tutte le professioni, tutte le attività oneste» [J. ESCRIVÁ, Lettera, 19 marzo 1954].
Con il trascorrere del tempo, per la generosità del fondatore dell’Opus Dei, per la sua corrispondenza fedele alla grazia divina, questi insegnamenti si erano diffusi rapidamente per il mondo intero (solo di Cammino nel 1965 erano già state pubblicate 77 edizioni in dodici lingue, con più di due milioni di copie), e soprattutto erano già verità profondamente radicate nella vita quotidiana di centinaia di migliaia di cristiani, membri dell’Opus Dei o persone in contatto abituale con le attività formative dell’Opera.
A ragione si può dunque assicurare che nel Concilio si camminava sul sicuro quando la costituzione dogmatica Lumen gentium segnalava: «È chiaro dunque a tutti, che tutti i fedeli di qualsiasi stato o condizione sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità» [Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, 40]; «Tutti i fedeli quindi si santificheranno ogni giorno di più nelle loro condizioni di vita, nei loro doveri e circostanze» [Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, 41]; «Tutti i fedeli quindi sono invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato» [Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, 42].
È evidente la perfetta corrispondenza tra la dottrina di monsignor Escrivá — in questo come in tanti altri punti — e quella dei documenti conciliari. E tuttavia sono testimone che non passò mai per la mente del fondatore dell’Opus Dei l’idea di un riconoscimento che secondo giustizia meritava — ed è stato già dichiarato da molte eminenti personalità della Chiesa [Cfr fra gli altri: card. J. FRINGS, Für die Menschen bestellt, J. P. Bachem Verlag, Colonia 1973, pp. 149-150; card. SEBASTIANO BAGGIO, in «Avvenire», Milano, 26 luglio 1975; card. SERGIO PIGNEDOLI, in «Il Veltro», Roma, XIX (1975), 3-4; card. MARCELO GONZÁLEZ MARTÍN, in «Los domingos de ABC», Madrid, 24 agosto 1975; card. FRANZ KÖNIG, in «Corriere della Sera», Milano, 9 novembre 1975; card. MARIO CASARIEGO, nell’omelia pronunciata in occasione dell’ordinazione sacerdotale di 54 membri dell’Opus Dei, chiesa di Montalegre, Barcellona, 13 luglio 1975 (riportata da «L’Osservatore Romano», Città del Vaticano, 14-15 luglio 1975)] — come una delle grandi figure anticipatrici del Concilio Vaticano II.
Il suo instancabile zelo sacerdotale, esercitato attraverso una ricchissima personalità soprannaturale e umana — profondamente amabile e comunicativa — lo portò, in più di cinquant’anni di sacerdozio, ad avvicinare centinaia di migliaia di persone, di ogni età e condizione, che cercavano il suo consiglio e il suo aiuto spirituale. Fin da quando cominciò la fondazione dell’Opus Dei riceveva instancabilmente gente, in privato o in gruppi, a volte necessariamente numerosi, durante i suoi viaggi di «catechesi» — così definiva la sua attività — in quasi tutte le nazioni d’Europa e d’America. Altre volte — e fu questa una caratteristica costante della sua vita quotidiana — lo avvicinavano non cattolici e non cristiani che dai più diversi luoghi del mondo venivano a trovarlo a Roma, diventata dal 1946 suo abituale luogo di residenza. «Non posso rifiutarmi», ripeteva, cercando allo stesso tempo e con notevoli sacrifici di fare in modo che questo lavoro sacerdotale diretto non pregiudicasse in nulla l’altro lavoro sacerdotale «direttissimo» del governo dell’Opera perché sempre, qualunque fosse la sua attività, sapeva scoprirvi il dovere di corredimere, di rivolgersi alle anime.
Racconto tutto ciò perché tra le numerosissime amicizie di monsignor Escrivá vi erano molti vescovi di numerose nazioni — padri conciliari negli anni del Vaticano II —, i quali beneficiarono del calore del suo affetto sacerdotale immediato e cordialissimo, leale, e della luce della sua profonda vita interiore e della sua vastissima esperienza pastorale. In quante occasioni — lo so perché io ero presente a questi scambi di impressioni — questa vita e questa esperienza sono servite per illuminare gravi problemi dottrinali e disciplinari, pur nel delicato rispetto della dovuta riservatezza dei lavori del Concilio!
Quest’immensa capacità sacerdotale di darsi — «non posso rifiutarmi» — era tuttavia sempre accompagnata dall’impegno per «nascondersi e sparire», per evitare con cura una qualunque delle molteplici forme che — anche nell’apostolato — le sottili tentazioni dell’affermazione personale possono rivestire. Nel 1934 scrisse: «Brillare come una stella…, desiderio di altezza, d’essere fiamma nel cielo? Meglio ancora: bruciare, come una fiaccola, nascosto, appiccando il tuo fuoco a tutto ciò che tocchi. Ecco il tuo apostolato: per questo sei sulla terra» [J. ESCRIVÁ, Consideraciones espirituales, p. 94]. Molti anni dopo, nel 1975, quando si compì il tempo delle sue nozze d’oro sacerdotali, chiedeva a noi suoi figli: «Non voglio alcuna solennità speciale, perché desidero trascorrere questa ricorrenza giubilare secondo la norma abituale della mia condotta: il mio compito è nascondermi e sparire perché risplenda solamente Gesù». Non posso celare che il cuore mi si è riempito di gioia, unita al sereno dolore che dà la fede quando dobbiamo separarci fisicamente dalle persone che amiamo, nel rileggere, in note molto antiche del fondatore dell’Opus Dei, scritte con tratti rapidi e ben definiti, questa stessa intenzione, con le stesse parole: «Nascondermi e sparire».
Il Concilio Vaticano II si è chiuso più di vent’anni fa ed è entrato a far parte della storia. Monsignor Escrivá vive ora nella Patria del Cielo e, nonostante il suo desiderio, ormai non gli è più possibile nascondersi, perché «non si può nascondere la città edificata sul monte» [Mt 5, 14]. Anche se saranno necessari lunghi e profondi studi per esporre tutta la ricchezza dottrinale, teorica e pratica, che il fondatore dell’Opus Dei ha inserito nel corpo vivo della Chiesa, ritengo opportuno menzionare qui — anche se brevemente — alcuni temi, perché «è onorifico rivelare e rendere pubbliche le opere di Dio» [Tb 12, 7], quello che il Signore ha operato servendosi di uno strumento «buono e fedele» [Mt 25, 23].