La Chiesa nostra Madre III
Josemaría Escrivá testimone dell'amore alla Chiesa: La santificazione del lavoro
Autore: San Josemaría Escrivá
La santificazione del lavoro
«Siccome è proprio dello stato dei laici che essi vivano nel secolo e in mezzo agli affari secolari, sono chiamati da Dio affinché, ripieni di spirito cristiano, a modo di fermento, esercitino nel mondo il loro apostolato» [Apostolicam actuositatem, 2]. Queste considerazioni del decreto Apostolicam actuositatem sono strettamente collegabili a un testo della costituzione Gaudium et spes nel quale il Concilio, riferendosi espressamente ai «lavori ordinari quotidiani» degli uomini, afferma che i cristiani «possono a buon diritto ritenere che con il loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia» [Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, 34].
Monsignor Escrivá ha insistito quotidianamente sul fatto che il lavoro umano è una realtà santificabile, santificante e santificatrice. «Quel che ho sempre insegnato — da quarant’anni a questa parte — è che ogni lavoro umano onesto, sia intellettuale che manuale, deve essere realizzato dal cristiano con la massima perfezione possibile: vale a dire con perfezione umana (competenza professionale) e con perfezione cristiana (per amore della volontà di Dio e al servizio degli uomini). Infatti, svolto in questo modo, quel lavoro umano, anche quando può sembrare umile e insignificante, contribuisce a ordinare in senso cristiano le realtà temporali — manifestando la loro dimensione divina — e viene assunto e incorporato all’opera mirabile della Creazione e della Redenzione del mondo. In tal modo il lavoro viene elevato all’ordine della grazia e si santifica: diventa opera di Dio, operatio Dei, opus Dei» [Colloqui con monsignor Escrivá, 10].
Gli piaceva esemplificare questa verità teologica ricca di contenuto, presentandola con un linguaggio vivace, accessibile a tutti: «Portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fabbriche, nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade delle grandi città e nei sentieri di montagna» [È Gesù che passa, 105]. Lavorare alla presenza di Dio è un apostolato continuo e direttissimo, perché in questo modo i cristiani possono «parlare delle cose divine nello stesso linguaggio degli uomini… Guardare a Dio dallo stesso punto di vista secolare e laicale col quale essi si pongono, o possono porsi, i problemi importanti della loro vita» [Lettera, 11 marzo 1940].
Preghiera, lavoro e apostolato si uniscono nell’esistenza ordinaria del cristiano e lo devono spingere a superare la tentazione di «condurre una specie di doppia vita: da una parte, la vita interiore, la vita di relazione con Dio; dall’altra, come una cosa diversa e separata, la vita familiare, professionale e sociale, fatta tutta di piccole realtà terrene.
«No, figli miei! Non ci può essere una doppia vita, non possiamo essere come degli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che dev’essere — nell’anima e nel corpo — santa e piena di Dio» [Cfr. p. 87 (Amare il mondo appassionatamente, 52)]. Queste parole, pronunciate nel 1967, erano un’eco ulteriore di altre che egli scriveva già nel 1943: «Bisogna fuggire da quell’atteggiamento erroneo che porta a vedere nella vita spirituale soltanto una diminuzione della libertà, nella formazione dottrinale un mucchio di formule inintelligibili, nell’apostolato una specie di professione sovrapposta, per le ore libere» [Lettera, 31 maggio 1943]. Il fondatore dell’Opus Dei tornò a ripetere, nel seno della Chiesa, dal 1928, la verità «antica come il Vangelo e come il Vangelo nuova» che è possibile santificarsi ed evangelizzare, se è lecita l’espressione, sul proprio terreno. Non può esservi perciò iato o separazione tra ciò che è cristiano e ciò che è umano, perché la storia non si svolge in un alveo distinto da quello dei disegni salvifici di Dio.
Monsignor Escrivá presentò questa normalità della vita cristiana in modo trasparente: «Siamo gente della strada, cristiani comuni, e questo è già un titolo sufficiente» [Lettera, 19 marzo 1954]. E molte migliaia di uomini e di donne, di tutte le razze e condizioni sociali, hanno sperimentato, nell’assumere questa coscienza, di stare veramente percorrendo i «cammini divini della terra». Senza spettacolo, senza ostentazione, senza clamore: come uomini e donne presenti nel mondo per diritto proprio e, per vocazione, nati alla vita della grazia per santificare tutte le realtà terrene. «Ti sei dato la pena di pensare quanto è assurdo smettere di essere cattolici quando si entra nell’università, nell’associazione professionale, nell’assemblea di scienziati o in parlamento, così come si lascia il cappello alla porta?» [Cammino, 353].