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La Chiesa nostra Madre VI

Josemaría Escrivá testimone dell'amore alla Chiesa: Sacerdozio e santità

Autore: San Josemaría Escrivá

Sacerdozio e santità

La spiritualità diffusa nella Chiesa dal fondatore dell’Opus Dei si rivolge a tutti i fedeli cristiani che vivono in mezzo al mondo; pertanto anche ai sacerdoti diocesani: fedeli che, per aver ricevuto un Sacramento specifico, quello dell’Ordine, possono «offrire il Sommo Sacrificio e perdonare i peccati» ed esercitare «in nome di Cristo per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale» [Presbyterorum ordinis, 2].
Il sacerdote non deve essere per questo un burocrate: uno che predica la santità, senza però cercarla per sé. «Per esigenza della loro comune vocazione cristiana», si legge in un testo del 1945 di monsignor Escrivá, «come necessaria conseguenza dell’unico battesimo che hanno ricevuto, il sacerdote e il laico devono aspirare ugualmente alla santità, che è una partecipazione alla vita divina (cfr san Cirillo di Gerusalemme, Catecheses, 31, 2). Questa santità alla quale sono chiamati non è maggiore nel sacerdote che nel laico: perché il laico non è un cristiano di seconda categoria. La santità, tanto nel sacerdote quanto nel laico, non è altra cosa che la perfezione della vita cristiana, la pienezza della filiazione divina» [Lettera, 2 febbraio 1945].
Sono testimone del fatto che quando questi accenti arrivarono negli ambienti in cui si preparavano e si studiavano i documenti del Concilio Vaticano II, in un primo momento suscitarono grande impressione; e successivamente un’adesione totale. Contribuivano in modo incisivo a far cadere, rispetto alla chiamata alla santità, la falsa interpretazione statuale della vita e del ministero del sacerdote diocesano, considerato come uno stato superiore a quello del fedele laico e inferiore a quello del sacerdote religioso. Il decreto Presbyterorum ordinis raccolse questa dottrina: «Già fin dalla consacrazione del battesimo, [i sacerdoti], come tutti gli altri fedeli, hanno ricevuto il segno e il dono di una vocazione e di una grazia così grande che, pur nell’umana debolezza, possono tendere alla perfezione, anzi debbono tendervi, secondo quanto ha detto il Signore: “Siate perfetti così come il Padre vostro celeste è perfetto” (Mt 5, 48)» [Presbyterorum ordinis, 12].
«I Presbiteri potranno contribuire efficacemente a far sì che ciascuno sappia scorgere negli avvenimenti stessi della vita — siano essi grandi o di minor portata — quali siano le esigenze naturali e la volontà di Dio» [Presbyterorum ordinis, 6]. Mi commuovevo nello scrivere queste righe, leggendo un’omelia pronunciata da monsignor Escrivá nel 1960: «Se la mia testimonianza personale può avere qualche interesse, posso dire che ho concepito il mio lavoro di sacerdote e di pastore di anime come un compito volto a porre ciascuno di fronte a tutte le esigenze della sua vita, aiutandolo a scoprire ciò che in concreto Dio gli chiede» [È Gesù che passa, 99]. Anche se non è questo il luogo per fare un esame dettagliato, tuttavia possiamo vedere come questa stessa coincidenza appaia in tanti altri aspetti della dottrina sulla vita e il ministero dei sacerdoti: per esempio la necessità, per l’ascetica sacerdotale, di coltivare anche le virtù umane [Cfr Presbyterorum ordinis, 3]; di essere strumenti di unità tra i fedeli evitando la tentazione di impoverire la fede ponendola al servizio di ideologie o fazioni umane che dividono [Cfr Presbyterorum ordinis, 6]; la possibilità e la convenienza delle associazioni che, rettamente ordinate, aiutano i sacerdoti a cercare la santità nell’esercizio del proprio ministero [Cfr Presbyterorum ordinis, 8]; l’unità e l’armonia tra la vita interiore e l’attività pastorale che il sacerdote raggiunge quando sa trovare nel santo sacrificio della Messa il «centro e la radice» di tutta la sua esistenza [Cfr Presbyterorum ordinis, 14]; la necessità della meditazione personale, della confessione frequente e di non abbandonare le tradizionali pratiche di pietà consigliate dalla lunga esperienza della Chiesa [Cfr Presbyterorum ordinis, 18]; la convenienza che il sacerdote veda chiaramente che l’esercizio del suo ministero — del «suo lavoro ordinario» — è precisamente l’occasione e il mezzo insostituibile per raggiungere la santità [Cfr Presbyterorum ordinis, 13]; ecc.
Vorrei solo riferire qui — come uno fra tanti altri vivi ricordi — la grande gioia con cui il fondatore dell’Opus Dei, instancabile predicatore della necessità di essere «contemplativi in mezzo al mondo», lesse questo paragrafo della costituzione Lumen gentium, scritto in risposta all’obiezione che le occupazioni del ministero potrebbero essere di impedimento alla ricerca della santità: «[I sacerdoti] anziché essere ostacolati alla santità dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, ascendano piuttosto per mezzo di esse a una maggiore santità, nutrendo e dando slancio con l’abbondanza della contemplazione alla propria attività, per il conforto di tutta la Chiesa di Dio» [Lumen gentium, 41].