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La Chiesa nostra Madre XXX

Le profonde radici di un messaggio

Autore: San Josemaría Escrivá

Le profonde radici di un messaggio (Alvaro del Portillo)

Massimamente utili nella Chiesa di Gesù non sono i cosiddetti uomini pratici e neanche i puri banditori di teorie, bensì i veri contemplativi, dominati da una passione lucidissima e infaticabile: divinizzare e trasfigurare in Cristo e con Cristo tutta la realtà creata. Non è un paradosso asserire che, nella Chiesa di Gesù, soltanto la mistica risulta veramente pratica.
«Servire la Chiesa senza servirsi di essa», «servire la Chiesa com’essa vuole essere servita» fu la «passione dominante» del beato Josemaría Escrivá: queste considerazioni vogliono essere insieme un sentito atto di riconoscenza filiale e il ricordo, rivolto anzitutto a me stesso, di una lezione di fedeltà alla Chiesa i cui frutti stanno sotto gli occhi di tutti, a testimonianza che raggiunge la fecondità autentica dello spirito solo chi attinge questa «estasi», questo star fuori di sé, spendendosi in un puro servizio a Dio e alle anime.
L’anelito del fondatore dell’Opus Dei si plasmò in un lemma di araldica espressività: «Per servire, servire». Cioè: per essere utili, bisogna avere spirito di servizio e dimostrarlo nelle opere. Questa è la nobiltà che egli prediligeva: l’onore di servire la Chiesa, il diritto di rinunciare a ogni diritto che non fosse quello di offrirsi in un continuo olocausto di preghiera e di lavoro.
Serve solo lo strumento che, per quanto modestissimo, sa rendersi adatto allo scopo. «In primo luogo, orazione; poi, espiazione; in terzo luogo, molto “in terzo luogo”, azione», scrive monsignor Escrivá [Cammino, 82]. È proprio quest’immissione della contemplazione nella vita quotidiana, questa costante ricerca dell’intimità divina calata giù nel tessuto più fitto del lavoro secolare — incisa a fuoco dal Beato quale principale caratteristica dell’ascetica di tutto l’Opus Dei — che rende ragione della sua «praticità».
Per il fondatore dell’Opus Dei, pioniere della spiritualità dei laici, il primo effetto della presenza di Dio nell’àmbito lavorativo è il miglioramento della qualità anche tecnica del lavoro stesso. Se esso è servizio vivo e concreto al Corpo vivente di Cristo, deve essere anzitutto ben fatto. Ogni pressappochismo, ogni leggerezza, qualsiasi trascuratezza o dilettantismo verranno decisamente banditi, perché avvilenti la dignità del servizio in cui si risolve la prestazione lavorativa.
La motivazione soprannaturale non è dunque come un francobollo che si applica dall’esterno allo sforzo dell’uomo e porta la merce, sana o avariata, a destinazione senza neanche sfiorarla, senza incidere sulla sua qualità intrinseca. La contemplazione modifica invece l’azione ogni qual volta questa non fosse all’altezza della dignità personale o di quella superiore dei figli di Dio, o non servisse all’edificazione del Popolo di Dio.
Questa fonte da cui sgorga il vivere quotidiano del cristiano e questa foce, in cui ininterrottamente si rituffa l’amore che cerca l’Amato per le strade e le piazze della città, i mari, i campi seminati e i crinali scoscesi, allargano la mente e il cuore, e fanno loro respirare l’aria grande di un fervoroso sentire cum Ecclesia. Poche cose aborriva il Beato quanto la miopia che non vede oltre la propria aiuola, la grettezza dell’individualismo e dell’imborghesimento, il rachitismo dello spirito di corpo. «Non fate delle “chiesuole” nel vostro lavoro. Sarebbe un immeschinire gli apostolati: perché se la “chiesuola” giunge, alla fine, al governo di una impresa universale…, l’impresa universale finisce ben presto in “chiesuola”!» [Cammino, 963].
Soltanto l’anima contemplativa sa vibrare di continuo all’unisono con tutta la Chiesa e, quindi, guidare il gesto preciso del servizio di volta in volta richiesto, ognuno a seconda della propria vocazione.
Essa sa bene, per esperienza propria, che lo Spirito «soffia dove vuole, e tu ne senti la voce, ma non sai donde venga né dove vada» [Gv 3, 8]; ma sa pure che in questo mondo di miscugli e relatività c’è soltanto un luogo, di cui si possa dire sempre e con assoluta certezza: «Qui c’è lo Spirito di Gesù», ed è la Chiesa. «Ubi Ecclesia, ibi Spiritus Domini; ubi Spiritus Domini, ibi Ecclesia et omnis gratia» (sant’Ireneo), laddove è la Chiesa lì è lo Spirito del Signore; dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è la Chiesa e ogni grazia. Per questo motivo tutti coloro che sono mossi dallo Spirito Santo a realizzare un disegno divino currunt ad Ecclesiam, per dirla ancora con sant’Ireneo, corrono verso la Chiesa: la certezza interiore della specificità della propria chiamata ha il sigillo dell’autentico carisma soltanto nella convinzione che quando si opera nella Chiesa e con la Chiesa si vive e si agisce con lo Spirito di Dio.
Monsignor Escrivá ebbe, sin dal 2 ottobre 1928, la certezza assoluta che l’Opus Dei era veramente di Dio, «un mandato imperativo di Cristo». La teologia ascetica e mistica conosce queste intime chiarezze — tocchi, illuminazioni, locuzioni interiori — che niente e nessuno potrebbe riuscire a scuotere. Tuttavia, pur avendo «visto» la Volontà di Dio circa l’Opus Dei, la missione a lui e a nessun altro affidata, si prese cura sin dall’inizio di tenersi ben vicino alla Gerarchia della Chiesa; non volle compiere alcun passo senza la sua approvazione e la sua benedizione, stabilì norme precise affinché ovunque l’Opera anche in avvenire procedesse in strettissima unità d’intenti con le Chiese particolari. Con disarmante semplicità dichiarava di amare l’Opus Dei nella misura in cui esso serviva la Chiesa. Quante volte l’ho sentito esclamare: «Se l’Opus Dei non servisse la Chiesa, non m’interessa!».
Iddio esige talvolta dai grandi fondatori il sacrificio d’Abramo. Tutta la vita versata e concentrata in un unico figlio, in cui si adempie la promessa ricevuta: diventare padre d’un grande popolo, più numeroso delle stelle del cielo e dei granelli di sabbia nel deserto… ed ecco che, a un tratto, Dio stesso ne richiede l’offerta, l’olocausto. Due momenti nella vita del fondatore dell’Opus Dei misero alla prova il suo spirito soprannaturale, di pura fede, proprio in merito a questo servire la Chiesa, pietra di paragone dell’anima veramente cristiana, che al dire di sant’Ambrogio è sempre un’«anima ecclesiastica».
La prima di queste prove estreme ebbe luogo a Madrid, il giovedì 24 giugno 1933, vigilia del Sacro Cuore. L’appunto manoscritto in cui egli stesso la consegnò è d’una immediatezza che trasmette il brivido del vero: «Ero solo, in una tribuna della chiesa del Perpetuo Soccorso, e stavo cercando di fare orazione dinanzi a Gesù sacramentato esposto nell’ostensorio, quando, per un istante e senza che ne riuscissi a individuare alcuna ragione che lo potesse spiegare — non ve ne sono —, mi venne in mente questo pensiero amarissimo: “E se tutto questo è falso, un’illusione tua, e stai perdendo il tempo… e — peggio ancora — lo stai facendo perdere a tanti altri?”. Fu una cosa di pochi secondi, ma quanto si soffre!
«Allora mi rivolsi a Gesù e gli dissi: “Signore, se non è tua, distruggila; se lo è, confermami”. Immediatamente non solo mi sentii confermato sulla verità della sua Volontà riguardo all’Opera, ma vidi con chiarezza un aspetto organizzativo che fino ad allora non sapevo risolvere in alcun modo».
La seconda prova è simile all’anteriore, ma si presenta in mezzo alla bufera scatenatasi contro il fondatore e contro l’Opus Dei agli inizi degli anni Quaranta. Si può dire che esso fosse appena nato canonicamente: infatti il vescovo di Madrid aveva concesso la prima approvazione scritta il 19 marzo 1941, proprio nell’intento d’arrestare quella dolorosa situazione che stava cercando di gettare il discredito sull’Opera anche a Roma. Il 25 settembre 1941 il Beato si trovava a La Granja de S. Ildefonso, un villaggio nelle vicinanze di Segovia: era esausto; alle sofferenze legate a quelle tristi vicende si aggiungevano le fatiche del suo apostolato per tutta la Spagna, dirigendo esercizi per il clero e gettando il seme dell’Opera negli ambienti più vari. Quel giorno mi scrisse una lettera di cui riporto alcuni brani significativi: «Gesù ti protegga, Alvaro. […] Ieri ho celebrato la Santa Messa per l’Ordinario del luogo, e oggi ho offerto il Santo Sacrificio e tutta la giornata per il Sovrano Pontefice, per la sua Persona e le sue intenzioni. A proposito, dopo la Consacrazione sentii l’impulso interiore (sicurissimo, allo stesso tempo, che l’Opera sarà molto amata dal Papa) di fare una cosa che mi è costata lacrime: e, con delle lacrime che mi bruciavano gli occhi, guardando Gesù Eucaristico che stava sul corporale, con il cuore gli ho detto davvero: “Signore, se tu lo volessi, accetto l’ingiustizia”. L’ingiustizia ti immagini certamente qual è: la distruzione di tutto il lavoro di Dio.
«So che lo ha gradito. Come mi sarei potuto rifiutare di fare quest’atto di unione con la sua Volontà, se lo chiedeva Lui? Già un’altra volta, nel 1933 o 1934, feci altrettanto, e soffrii Lui solo sa quanto.
«Figlio mio, che bella messe ci sta preparando il Signore per quando il nostro Santo Padre ci avrà conosciuto sul serio (non attraverso le calunnie) e saprà che gli siamo realmente fedelissimi e ci benedirà!
«Mi verrebbe voglia di gridare, senza preoccuparmi di ciò che diranno gli altri, quel respiro che a volte mi sfugge quando predico per voi la meditazione: Ah, Gesù, che campo di frumento!».
L’amore per la Chiesa e per il Papa lo sostenne e impresse nella sua anima una fiducia incrollabile nei momenti più difficili. Egli offriva ogni giorno la sua vita — «e mille vite, se le avessi», aggiungeva spesso — per la Chiesa Santa e per il Santo Padre. Seguendo il suo esempio tante anime, di tanti Paesi e culture diverse, hanno cercato come lui, nel desiderio di consumare la propria esistenza in un incondizionato servizio alla Sposa di Cristo, la forza per non porre limiti al sacrificio di sé stessi, compiuto col sorriso sulle labbra nel lavoro quotidiano. Le parole della preghiera per la devozione del Beato esprimono efficacemente quest’aspirazione: «Fa’ che anch’io sappia trasformare tutti i momenti e le circostanze della mia vita in occasioni per amarti e per servire con gioia e semplicità la Chiesa, il Romano Pontefice e tutte le anime, illuminando i cammini della terra con la fiamma della fede e dell’amore».