La costruzione di un progetto comune
I primi anni di vita coniugale
Autore: José Manuel Martín Q.
La decisione è presa. Il periodo di verifica dell’amore in cui consiste il
fidanzamento ha concluso il suo compito e ha permesso di esclamare: è
lui!, è lei! Durante questo tempo i fidanzati si sono aiutati nell’acquisire le
virtù necessarie per ottenere la successiva comunione coniugale di vita e
per tutta la vita.
Non ci siamo innamorati di un ritratto robot preconfezionato nella
nostra immaginazione. Se così fosse, avremmo bloccato l’esperienza
dell’amore, perché l’amore appare sempre come una rivelazione, come
una chiamata inedita e imprevedibile; per questo è meraviglioso. Davanti
a noi c’è una persona reale e ha inizio un compito appassionante: la
graduale scoperta dell’altro; infatti, amare è in certo qual modo svelare e
svelarsi all’amato o all’amata.
Amare, che è una liberalità, è anche un’arte che suggerisce un programma per l’intera vita. “Prima di tutto, amatevi molto […] – raccomandava san Josemaría –. Poi, non abbiate paura della vita; amate tutti i difetti reciproci che non sono offesa a Dio”. E più avanti: “Già ti hanno detto, e del resto lo sai molto bene, che tu appartieni a tuo marito e lui a te”. In questo stesso senso consigliava: “Pregate un po’ insieme. Non molto, ma un po’ tutti i giorni. Non gli rinfacciare mai nulla, non lo importunare con sciocchezze, mortificandolo”.
Nei primi anni di matrimonio sono in competizione due profili
psicologici, due biografie personali, due culture familiari, due stili che
bisogna riuscire a fondere. Non si tratta di chiedere all’altro di annullarsi
in nostro favore. “Se mio marito si annulla, che mi rimane da
amare?”. Nel matrimonio non perderemo la nostra personalità, ma
guadagneremo una personalità nuova, quella di nostra moglie o di nostro
marito.
Nei primi mesi e anni di vita in comune l’educazione sentimentale è di
vitale importanza. Ogni coniuge, come qualunque persona, si troverà più
in sintonia con quei modi di fare (ordine, orari, meccanismi, abitudini
familiari, regole sociali, norme di educazione, modi di porsi e maniere,
disposizione delle cose di casa, della tavola, dell’armadio, ecc.)
caratteristici della propria famiglia di origine, perché in essi ha educato i
suoi sentimenti. Può darsi che abbia dissentito con i genitori su mille
questioni, ma i suoi sentimenti sono stati modellati da quella biografia
familiare di un tempo che ora non può più cancellare, e in questi abiti e
consuetudini si sentirà più a proprio agio.
Fin dal momento in cui ci sposiamo dobbiamo fare tabula rasa di queste
preferenze, non per annullarle – ripeto – ma per metterle allo stesso
livello di quelle che nostra moglie o nostro marito dovesse apportare nella
vita coniugale. Tutto ciò nasce da una fiducia reciproca, riflesso della
fiducia che Dio ha riposto in ognuno di noi.
Commentando il secondo capitolo della Genesi sulla creazione, Papa
Francesco insegna: “Così era l’uomo, gli mancava qualcosa per arrivare
alla sua pienezza, gli mancava la reciprocità. […] L’immagine della
“costola” non esprime affatto inferiorità o subordinazione, ma, al
contrario, che uomo e donna sono della stessa sostanza e sono
complementari e che hanno anche questa reciprocità. […] Suggerisce
anche un’altra cosa: per trovare la donna – e possiamo dire per trovare
l’amore nella donna –, l’uomo prima deve sognarla e poi la trova.
La fiducia di Dio nell’uomo e nella donna, ai quali affida la terra, è
generosa, diretta, e piena. Si fida di loro. Ma ecco che il maligno
introduce nella loro mente il sospetto, l’incredulità, la sfiducia. […] Anche
noi lo sentiamo dentro di noi tante volte, tutti. Il peccato genera
diffidenza e divisione fra l’uomo e la donna”.
Il noi nel quale il matrimonio consiste si deve costruire in base alle
esperienze personali di ognuno dei due, senza concedere a priori un più
alto valore alle esperienze dell’uno o dell’altro. Noi due, insieme, le
dobbiamo vagliare e dobbiamo decidere le nuove modalità che
costituiranno il nostro progetto comune, le nostre piccole “tradizioni”
familiari. Il fatto è che il matrimonio non consiste nel convivere con uno
(o una) che si associ al nostro progetto personale, ma nell’elaborare
insieme con questa persona quello che sarà il nostro comune, unico e
irripetibile progetto matrimoniale, che poi dovremo difendere di fronte a
tutti, anche ai parenti più intimi.
Questa posizione rispettosa della cultura familiare da parte del nostro
coniuge sarà di valido aiuto al momento di coltivare i rapporti con le
famiglie d’origine. La relazione e l’affetto che dobbiamo alla famiglia di
nostra moglie, o di nostro marito, si affineranno con la conoscenza
delicata del loro stile familiare, che abbiamo man mano imparato, e
assimilato in ciò che sia conforme, nella convivenza quotidiana.
Nello stesso tempo, se siamo capaci di perfezionare uno stile
matrimoniale e familiare proprio che presenti tratti forti e nitidi,
identificabili, la famiglia originaria di entrambi si sentirà invitata a
rispettare questa identità familiare e matrimoniale che abbiamo saputo
generare e trasmettere. Altrimenti, quando il nostro progetto di vita sarà
reso noto, i terzi, tanto più quanto più ci vorranno bene, si sentiranno
spinti – anche con indebite intromissioni, seppure benintenzionate – a
dotarci di un modello da seguire.
Dato che la costruzione di questo progetto comune, di quel noi di cui
stiamo parlando, è essenzialmente costituita da rinunce e cessioni
reciproche, è molto probabile che alcune consuetudini nuove ci risultino
estranee e all’inizio ci costi abituarci ad esse. Non importa. Se c’è amore
ed equilibrio, sarà questione di tempo. La stessa cosa ci è successa con
tante abitudini e pratiche (di pietà, per esempio) che ci erano estranee
quando le abbiamo scoperte e che con il tempo si sono inserite
perfettamente nella nostra vita fino a far parte del nostro io.
In questi primi anni dovremo anche definire lo stile di vita in ciò che
riguarda l’uso del tempo di riposo e di divertimento, o i criteri di spesa;
nel lavoro, nei programmi comuni, nella dedicazione a qualche
volontariato o attività sociale, nell’inserimento e nella partecipazione alla
vita di pietà – sia personale che familiare –, e in molti altri campi di
attuazione che si andranno presentando.
In una persona la comunicazione è onnicomprensiva. Comunichiamo con
tutto e in ogni momento, ma non per questo è una tecnica dove non si
possa migliorare. Non è questo il luogo per molti approfondimenti, ma
può essere utile mettere a fuoco il tema della comunicazione coniugale
considerandone gli obiettivi.
Quando la comunicazione riguarda un proposito immediato ed effimero
(per esempio, che qualcuno mi compri un bene o concordi un servizio),
l’interesse è incentrato in me, mentre la tecnica utilizzata tende a
provocare un cambiamento nell’altro (che me lo compri); quando la
comunicazione riguarda un bene più intenso e durevole (un buon
rapporto di lavoro), l’interesse è incentrato nella relazione stessa e la
tecnica coinvolge entrambi (io cedo in qualcosa senza grandi
trasformazioni personali, però chiedo che anche l’altro lo faccia); quando
la comunicazione riguarda una meta intima e definitiva (amare qualcuno
per sempre), allora l’interesse s’incentra nell’altro e la tecnica si volge
verso se stesso (io voglio cambiare per farti felice!).
Si potrebbe, dunque, affermare che nella stessa misura in cui metto al
centro me stesso, esigerò che l’altro cambi e si adatti ai miei desideri; se
invece metto al centro l’altro, cercherò di cambiare io e di adattarmi a lui.
Ed ecco il modo migliore di mettere a fuoco la questione: “Quando si
trovano in difficoltà nella vita di relazione, tutti dovrebbero sapere che
esiste un’unica persona sulla quale si può intervenire per far sì che la
situazione migliori: se stessi. E questo è sempre possibile. Di solito,
invece, si vuole che sia l’altro, il coniuge, a cambiare e quasi mai ci si
riesce […]; se vuoi cambiare il tuo coniuge, prima cambia tu qualcosa”.
I primi anni di matrimonio costituiscono il periodo propizio per porre le
basi dell’amore. E il fondamento naturale dell’amore, di qualunque
amore è la fecondità. Ogni amore è fecondo, tende a espandersi, è
spirituale e materialmente fertile. La sterilità non è mai stata un attributo
dell’amore. Non è taccagno né meschino; la misura dell’amore è amare
senza misura, diceva sant’Agostino.
Un amore che si basa sul calcolo, sulla contabilità, sulla limitazione, è un
amore che nega se stesso. Ogni amore, invece, trabocca, è diverso da ogni altro, invita a uscire da se stesso, è ricco di dettagli, di attenzioni, di
tempo, di dedicazione…, e anche di figli, se Dio li invia, almeno nelle
intenzioni. A parte questa fecondità generica, caratteristica di ogni
amore, il canale naturale, specifico, il più proprio, quello che distingue il
matrimonio dagli altri amori umani è la possibilità di trasmettere la vita: i
figli. “Così il compito fondamentale della famiglia è il servizio alla vita, il
realizzare lungo la storia la benedizione originaria del Creatore,
trasmettendo nella generazione l’immagine divina da uomo a uomo (cfr.
Gn 5, 1-3)” .
Su questo terreno, dunque, la caratteristica dell’amore è la fecondità,
almeno quella di desiderio, perché quella biologica non sempre dipende
da noi; infatti, alcune coppie di coniugi, che hanno problemi nell’avere
figli, sono un esempio di fecondità, proprio nell’apertura profonda al
coniuge e a tutta la società. Un amore coniugale che si limitasse
volontariamente alla possibilità di trasmettere la vita sarebbe un amore
morto, che nega se stesso e, naturalmente, non sarebbe coniugale.
Una questione diversa è il numero: chi può mettere un numero
all’amore?…; ancor più, chi può giudicare e valutare l’amore di altri
attraverso un numero? Bisogna essere molto cauti e non giudicare mai,
perché possono esserci motivi per distanziare la nascita dei figli
(rispettando la natura propria delle relazioni coniugali). Però il principio
dev’essere chiaro: la caratteristica dell’amore è la fecondità, non la
sterilità. E i figli, dato che sono persone, si pensano uno per volta con
libertà e generosità, vale a dire, con amore.