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La donna nella vita sociale e nella Chiesa III

Autore: Autori Cristiani

(Ci sono donne che, avendo già un certo numero di figli, non osano comunicare ai parenti e agli amici l’arrivo di un altro bambino. Temono le critiche di quelli che pensano che, dal momento che esiste la “pillola”, la famiglia numerosa è sorpassata. È chiaro che oggigiorno può essere difficile tirar su una famiglia con parecchi figli. Che cosa ci può dire al riguardo?)
94. Io benedico quei genitori che, ricevendo con gioia la missione che Dio ha loro affidata, hanno molti figli. E invito gli sposi a non inaridire le sorgenti della vita, ad aver senso soprannaturale e coraggio per far crescere una famiglia numerosa, se Dio la concede.
Quando esalto la famiglia numerosa, non mi riferisco a quella che è conseguenza di mere relazioni fisiologiche; mi riferisco alla famiglia che nasce dall’esercizio delle virtù cristiane, che ha un senso elevato della dignità della persona e sa che dare figli a Dio non vuol dire soltanto metterli al mondo, ma richiede anche tutto un lungo lavoro di educazione: dar loro la vita è la prima cosa, ma non è tutto.
Ci possono essere dei casi concreti in cui è volontà di Dio – manifestata attraverso mezzi ordinari – che una famiglia sia piccola. Ma sono criminali, anticristiane e infraumane tutte le teorie che fanno della limitazione delle nascite un ideale o un dovere universale o semplicemente generale. Non è altro che contraffare e pervertire la dottrina cristiana far leva su di un preteso spirito post-conciliare per attaccare la famiglia numerosa. Il Concilio Vaticano II ha proclamato che “tra i coniugi che soddisfano alla missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più gran numero di figli da educare convenientemente” (Cost. past. “Gaudium et spes”, n. 50). Paolo VI, poi, in un’allocuzione del 12 febbraio 1966, commentava: «Che il Concilio Vaticano II appena concluso diffonda tra gli sposi cristiani questo spirito di generosità per dilatare il nuovo Popolo di Dio… Ricordiamo sempre che la dilatazione del Regno di Dio e la possibilità di penetrazione della Chiesa nell’umanità, per la sua salvezza eterna e terrena, è affidata anche alla loro generosità».
In sé, il numero dei figli non è decisivo: averne molti o pochi non basta perché una famiglia sia più o meno cristiana. Ciò che conta è la rettitudine con cui si vive la vita matrimoniale. Il vero amore reciproco trascende la comunione di vita tra marito e moglie, e si estende ai suoi frutti naturali, i figli. Invece l’egoismo finisce per degradare questo amore al livello della semplice soddisfazione dell’istinto, e distrugge il rapporto che unisce genitori e figli. È difficile sentirsi buon figlio – vero figlio – dei propri genitori quando si possa pensare di essere venuto al mondo contro la loro volontà, cioè di essere nato non da un amore degno di questo nome, ma da un imprevisto o da un errore di calcolo.
Dicevo che in sé il numero dei figli non è determinante. Tuttavia vedo con chiarezza che gli attacchi alle famiglie numerose provengono dalla mancanza di fede: sono il prodotto di un ambiente sociale incapace di comprendere la generosità, e che pretende di nascondere il proprio egoismo e certe pratiche inconfessabili con motivazioni apparentemente altruiste. E così, paradossalmente, i Paesi dove si fa più propaganda del controllo delle nascite, e dai quali tale pratica viene imposta ad altri Paesi, sono proprio quelli che hanno raggiunto un più alto tenore di vita. Si potrebbero forse considerare seriamente i loro argomenti di natura economica e sociale, qualora tali argomenti li muovessero a rinunziare a una parte dei beni opulenti di cui godono, a favore dei bisognosi. Ma finché questo non avviene, è difficile non pensare che in realtà i veri moventi di tali argomentazioni sono l’edonismo e l’ambizione di dominio politico, il neocolonialismo demografico.
Non ignoro i grandi problemi che tormentano l’umanità, né le concrete difficoltà in cui può imbattersi una determinata famiglia; vi penso anzi con frequenza, e mi si riempie di pietà quel cuore di padre che come cristiano e come sacerdote sono obbligato ad avere. Ma non è lecito cercare la soluzione per simili vie.
95. Non capisco come possano esserci cattolici – o addirittura sacerdoti – che da anni consigliano, con coscienza tranquilla, l’uso della pillola per evitare la concezione. Non si possono ignorare gli insegnamenti pontifici con tanta leggerezza. Né si può addurre a pretesto – come fanno costoro, con incredibile superficialità – che il Papa quando non parla “ex cathedra” è un semplice “dottore privato” soggetto all’errore. Ci vuole proprio una smisurata arroganza per pensare che il Papa si sbagli e loro no!
Oltretutto, costoro dimenticano che il Romano Pontefice non è solo un dottore – infallibile, quando espressamente lo dice -, ma anche il supremo legislatore. E nel caso in questione, ciò che in termini inequivocabili ha deciso l’attuale pontefice Paolo VI è che si devono seguire obbligatoriamente, in questo campo così delicato, tutte le disposizioni del santo pontefice Pio XII, di venerata memoria, perché continuano ad essere vigenti; e Pio XII si limitò a permettere certi accorgimenti naturali – non una pillola – per evitare la concezione in casi isolati e ardui. Consigliare il contrario è dunque una disobbedienza grave al Santo Padre, e in materia grave.
Potrei scrivere un grosso libro sulle tristi conseguenze che l’uso dell’uno o dell’altro dei vari anticoncettivi comporta in ogni campo: distruzione dell’amore coniugale – marito e moglie non si guardano come sposi, ma come complici -, infelicità, infedeltà, squilibri spirituali e mentali, innumerevoli danni per i figli, perdita della pace del matrimonio… Ma non lo ritengo necessario: preferisco limitarmi a obbedire al Papa. Se un giorno il Sommo Pontefice decidesse che per evitare la concezione è lecito l’uso di una certa medicina, io agirei in conformità alle parole del Santo Padre: attenendomi alle norme pontificie e a quelle della teologia morale, prenderei in considerazione, caso per caso, gli evidenti pericoli cui accennavo, e darei a ciascuno in coscienza il mio consiglio.
In ogni modo terrei sempre conto che questo nostro mondo di oggi lo salveranno non coloro che pretendono di narcotizzare la vita dello spirito e ridurre tutto a questioni economiche o di benessere materiale; ma quelli che sanno che la norma morale è in funzione del destino eterno dell’uomo: quelli cioè che hanno fede in Dio e ne accettano generosamente le esigenze, diffondendo in coloro che li circondano il senso trascendente della nostra vita sulla terra.
Questa certezza di fede porta non già a incoraggiare l’evasione, ma a procurare efficacemente che tutti abbiano i necessari mezzi materiali, che per tutti ci sia lavoro, che nessuno si veda ingiustamente limitato nella propria vita famigliare e sociale.
(L’infecondità matrimoniale, per la frustrazione che può provocare, talvolta è fonte di discordia e di incomprensione. A suo giudizio, qual è il senso che devono dare alla loro unione gli sposi cristiani che non hanno prole?)
96. In primo luogo direi loro che non devono darsi per vinti con troppa facilità: per prima cosa, bisogna che implorino Dio di concedere loro discendenza, di benedirli – se questa è la sua volontà – come benedisse i Patriarchi del Vecchio Testamento; e poi è bene ricorrere a un buon medico, sia lei che lui. Se, nonostante tutto, il Signore non dà loro dei figli, non devono vedere in questo alcuna frustrazione: devono essere contenti di scoprire in questo stesso fatto la volontà di Dio nei loro confronti. Molte volte il Signore non dà figli perché “chiede di più”. Chiede che lo stesso sforzo e la stessa delicata dedizione vengano posti al servizio del nostro prossimo, senza la legittima soddisfazione umana d’aver avuto figli: non c’è quindi motivo per sentirsi falliti e tristi.
Se i coniugi hanno vita interiore, comprenderanno che Dio li spinge a fare della loro vita un generoso servizio cristiano, un apostolato che è diverso da quello che realizzerebbero coi loro figli, ma altrettanto meraviglioso.
Si guardino intorno: scopriranno immediatamente persone che hanno bisogno di aiuto, di carità e di affetto. E poi ci sono mille iniziative apostoliche in cui possono lavorare. Se sono capaci di dedicarsi con tutto il cuore a questo compito, donandosi agli altri con generosità e dimenticando sé stessi, avranno una splendida fecondità, una paternità spirituale che colmerà la loro anima di autentica pace.
Le soluzioni concrete saranno diverse in ogni singolo caso, ma in fondo tutte si riducono a occuparsi degli altri con desiderio di servizio, con amore. Dio premia sempre con una gioia profonda la generosa umiltà di chi sa non pensare a sé stesso.
(Ci sono casi in cui la moglie – per una ragione o per l’altra – è separata dal marito, in situazioni degradanti ed insostenibili. Sono casi in cui è difficile accettare l’indissolubilità del vincolo coniugale. Queste donne separate dal marito si lamentano che si neghi loro la possibilità di costruirsi un nuovo focolare. Qual è la sua risposta in casi del genere?)
97. Direi loro, con piena comprensione della loro sofferenza, che anche in questa situazione esse possono vedere la volontà di Dio, che non è mai crudele, perché Dio è un Padre amoroso. Può darsi che per un certo tempo la situazione sia particolarmente dura, ma, se ricorrono al Signore e alla sua Madre benedetta, non mancherà l’aiuto della grazia.
L’indissolubilità del matrimonio non è un capriccio della Chiesa, e neppure una semplice legge ecclesiastica positiva: è un precetto della legge naturale e del diritto divino, e risponde perfettamente alla nostra natura e all’ordine soprannaturale della grazia. Per questo, nella stragrande maggioranza dei casi, l’indissolubilità è condizione indispensabile per la felicità dei coniugi e per la sicurezza anche spirituale dei figli. In ogni caso – pure quando si diano le circostanze dolorose di cui parliamo -, la docile accettazione della Volontà di Dio porta con sé una soddisfazione profonda, insostituibile. Non si tratta di una specie di ripiego, di una ricerca di consolazione: è la stessa essenza della vita cristiana.
Se queste donne hanno dei figli a loro carico, devono vedere in questo fatto una continua richiesta di amorosa e materna dedizione, più che mai necessaria per sopperire in queste creature alle deficienze di un focolare diviso. Devono anche capire, con generosità, che quella stessa indissolubilità che per loro comporta un sacrificio, è per la maggior parte delle famiglie la salvaguardia della loro integrità, un qualcosa che nobilita l’amore degli sposi e impedisce che i figli si trovino nell’abbandono.
Lo stupore di fronte all’apparente durezza del precetto cristiano dell’indissolubilità non è una novità: gli stessi Apostoli si meravigliarono quando Gesù ne diede loro conferma. Può apparire un peso, un giogo; ma proprio Cristo ha detto che il suo giogo è soave e il suo peso è leggero.
D’altronde, pur riconoscendo l’inevitabile durezza di parecchie situazioni – che in non pochi casi si sarebbero potute e dovute evitare -, non bisogna drammatizzare eccessivamente. La vita di una donna in queste condizioni è veramente più dura di quella di una donna maltrattata, o di quella di chi deve sopportare qualcuna delle grandi sofferenze fisiche o morali che la vita comporta?
Ciò che veramente rende infelice una persona – o un’intera società – è l’affannosa ricerca del benessere, la pretesa di eliminare a ogni costo qualsiasi contrarietà. La vita presenta mille aspetti diversi, situazioni svariatissime, difficili alcune, altre facili forse solo in apparenza. Ciascuna di esse porta con sé un seme di grazia, una chiamata di Dio unica: sono occasioni irripetibili di operare e di offrire la testimonianza divina della carità. A chi sente il peso di una situazione difficile, io consiglierei anche di provare a dimenticare un po’ i suoi problemi e preoccuparsi di quelli degli altri: così ,facendo avrà più pace e, soprattutto, si santificherà.
(Uno dei beni fondamentali della famiglia consiste in una stabile pace domestica. Purtroppo però non è raro che motivi di carattere politico o sociale seminino la divisione in una famiglia. Come pensa che si possano superare questi conflitti?)
98. La mia risposta non può essere che una: convivere, comprendere, scusare. Il fatto che uno la pensi in maniera diversa dalla mia – specie quando si tratta di cose che sono oggetto di libera opinione – non può assolutamente giustificare un contegno ostile, e neppure freddo o indifferente. La mia fede cristiana mi dice che la carità va vissuta con tutti, anche con coloro che non hanno la grazia di credere in Gesù Cristo. Figuratevi dunque se non si deve vivere la carità quando, uniti da un medesimo sangue e da una medesima fede, si diverge in cose opinabili! Dirò di più: dato che in questo terreno nessuno può pretendere di essere in possesso della verità assoluta, un reciproco rapporto affettuoso è un buon sistema per imparare dagli altri quello che essi ci possono insegnare; e per fare sì che gli altri, se vogliono, imparino a loro volta qualcosa da quanti vivono con loro. E sempre c’è un “qualcosa”.
Non è cristiano e neppure umano che una famiglia si divida per questioni del genere. Quando si capisce fino in fondo il valore della libertà, quando si ama appassionatamente questo dono divino, “si ama il pluralismo che la libertà necessariamente comporta”.
Posso addurre l’esempio di ciò che avviene nell’Opus Dei, che è una grande famiglia di persone unite da un medesimo fine spirituale. In tutto ciò che non è di fede, ognuno pensa e agisce come vuole, con pienissima libertà e con pienissima responsabilità personale. Il pluralismo, che è la conseguenza logica e sociologica di questo fatto, non costituisce in modo alcuno un problema per l’Opera: anzi, tale pluralismo è una manifestazione di buono spirito. Appunto perché il pluralismo non è temuto, ma amato come legittima conseguenza della libertà personale, le diverse opinioni dei soci non impediscono nell’Opus Dei la massima carità nei rapporti reciproci e la mutua comprensione. Libertà e carità: non è per caso che il discorso ci riporta sempre a questi due princìpi. Si tratta infatti di due condizioni essenziali: vivere con la libertà che Cristo ci ha conquistato, e vivere la carità che Egli ci ha dato come comandamento nuovo.
(Lei ha accennato al grande valore dell’unità famigliare, e questo mi dà lo spunto per un’altra domanda: come mai l’Opus Dei non organizza attività di formazione spirituale in cui partecipino insieme marito e moglie?)
99. In questa come in tante altre cose, noi cristiani abbiamo la possibilità di scegliere fra soluzioni diverse, secondo le preferenze e i criteri di ciascuno; nessuno può pretendere di imporci un metodo unico. Bisogna rifuggire, come dalla peste, da certi modi di impostare la pastorale e in generale l’apostolato, che sembrano una nuova edizione, riveduta e accresciuta, del partito unico nella vita religiosa.
So dell’esistenza di gruppi cattolici che organizzano ritiri, spirituali e altre attività di formazione per coppie di sposi. Benissimo: usando della loro libertà, facciano quello che ritengono più opportuno; e vadano pure a queste riunioni quanti trovano in esse un mezzo che li aiuta a vivere meglio la loro vocazione cristiana. Ma ritengo che questa non sia l’unica possibilità, e neppure è cosa scontata che si tratti della migliore.
Ci sono molti aspetti della vita ecclesiale che gli sposi, o anche tutta la famiglia, possono e a volte devono vivere insieme, come per esempio la partecipazione al sacrificio eucaristico e ad altri atti di culto. Penso però che certe attività di formazione spirituale riescono più efficaci quando marito e moglie vi assistono separatamente; da un lato, si sottolinea meglio il carattere essenzialmente personale della santificazione, della lotta ascetica, dell’unione con Dio, cose tutte che riverberano sugli altri, ma in cui la coscienza di ciascuno non può essere sostituita; dall’altro lato è più facile adattare la formazione alle esigenze e alle necessità personali di ciascuno e anche alle diverse psicologie. Ciò non vuol dire che in queste attività si prescinda dallo stato matrimoniale dei partecipanti: niente di più lontano dallo spirito dell’Opus Dei.
Sono ormai quarant’anni che a voce e per iscritto, dico che ogni uomo, ogni donna, deve santificarsi nella sua vita ordinaria, nelle condizioni concrete della sua esistenza quotidiana; e che pertanto gli sposi devono santificarsi vivendo con perfezione i loro obblighi famigliari. Nei ritiri spirituali e nelle altre attività di formazione organizzate dall’Opus Dei a cui prendono parte persone sposate, si cerca sempre di fare in modo che esse prendano coscienza della dignità della propria vocazione matrimoniale, e si preparino, con l’aiuto di Dio, a viverla meglio.
In molti aspetti, le esigenze e le manifestazioni pratiche dell’amore coniugale sono diverse per l’uomo e per la donna. Con mezzi di formazione specifici li si può aiutare efficacemente a scoprire tali aspetti nella realtà della loro vita. La separazione per alcune ore o per qualche giorno li induce quindi a essere più uniti e ad amarsi di più e meglio per tutto il resto del tempo: con un amore pieno anche di rispetto.
Torno a ripetere che non abbiamo la pretesa che il nostro modo di agire sia l’unico valido e che tutti lo debbano adottare. Mi pare solo che dia ottimi risultati e che ci siano ragioni solide – oltre a una lunga esperienza – che consigliano di fare cosi; ma non mi oppongo all’opinione contraria.
D’altronde se nell’Opus Dei si segue questo criterio per determinate iniziative di formazione spirituale, per altre e svariate attività le coppie di sposi partecipano e collaborano assieme. Si pensi, per esempio, all’apostolato che si fa con i genitori degli alunni delle scuole dirette da soci dell’Opus Dei; o alle riunioni, conferenze, tridui, ecc. dedicati in particolare ai genitori degli studenti ospiti nelle Residenze dirette dall’Opera.
Come vede, quando il carattere dell’iniziativa lo richiede, marito e moglie vi partecipano assieme. Ma questo tipo di attività è diverso da quello che mira direttamente alla formazione spirituale personale.
(Continuando il discorso sulla vita famigliare, vorrei ora farle una domanda sull’educazione dei figli e i rapporti fra genitori e figli. Il mutamento della situazione famigliare ai nostri giorni conduce, a volte, a sperimentare una certa difficoltà nel comprendersi, e può addirittura nascere l’incomprensione, verificandosi così il cosiddetto “conflitto di generazioni”. Come lo si può superare?)
100. Il problema è vecchio, anche se oggi lo si costata forse con maggiore frequenza o in modo più acuto, dato il rapido ritmo di evoluzione che caratterizza la società attuale. È perfettamente comprensibile e naturale che i giovani e gli adulti vedano le cose in maniera diversa: è successo sempre così. Ci sarebbe da meravigliarsi, semmai, che un adolescente ragioni come un adulto. Tutti abbiamo provato moti di ribellione nei riguardi degli adulti, quando cominciavamo a formarci autonomamente un criterio; e tutti, man mano che passavano gli anni, abbiamo anche capito che i nostri genitori avevano ragione in tante cose, frutto della loro esperienza e del loro affetto. Spetta pertanto innanzitutto ai genitori – che hanno già attraversato l’età difficile – favorire la comprensione, con flessibilità, con prontezza di spirito, evitando con un amore intelligente ogni possibile conflitto.
Consiglio sempre i genitori di cercare di farsi amici dei loro figli. Si può sempre armonizzare l’autorità paterna, necessaria all’educazione, con un sentimento di amicizia che porta a mettersi in qualche modo allo stesso livello dei figli. I ragazzi – anche quelli che sembrano meno docili e affezionati – desiderano sempre in cuor loro questa vicinanza, questa fraternità con i genitori. Il segreto del successo è sempre la fiducia: che i genitori sappiano educare in un clima di famigliarità, senza mai dare un’impressione di sfiducia; sappiano concedere la giusta libertà e insegnino ad amministrarla con responsabile autonomia. È preferibile che qualche volta si lascino ingannare: la fiducia data ai figli fa sì che essi stessi provino vergogna di averne abusato e si correggano; se invece non hanno libertà, se vedono che non c’è fiducia in loro, si sentiranno spinti ad agire sempre con sotterfugi.
L’amicizia di cui parlo – il sapersi mettere allo stesso livello dei figli ed aiutarli a parlare fiduciosamente dei loro piccoli problemi – rende possibile una cosa che ritengo di vitale importanza: che siano i genitori a far conoscere ai figli l’origine della vita, in modo graduale, adattandosi alla loro mentalità e alla loro capacità di capire, prevenendo un po’ la loro naturale curiosità; bisogna evitare che i ragazzi avvolgano di malizia questa materia, e che apprendano cose – in sé nobili e sante – attraverso le malevoli confidenze dei compagni. Tutto ciò costituisce di solito un passo importante nel consolidamento dell’amicizia tra genitori e figli perché impedisce che si crei una frattura nel momento stesso in cui comincia a destarsi la vita morale.
D’altra parte, i genitori devono cercare di conservare giovane il loro cuore, per riuscire così ad accogliere con simpatia le giuste aspirazioni dei figli e perfino le loro stravaganze. La vita cambia e ci sono parecchie cose nuove che magari a noi non piacciono – è pure possibile che oggettivamente non siano migliori delle vecchie -, ma che non sono cattive: si tratta semplicemente di modi diversi di vivere; ed è tutto qui. In più di un caso i conflitti sorgono perché si dà importanza a piccolezze su cui invece, con un po’ di prospettiva e di senso dell’umorismo, si può transigere.
101. Non tutto, però, dipende dai genitori. Anche i figli devono contribuire con qualche cosa. I giovani hanno sempre avuto una grande capacità di entusiasmo per le cose nobili, per gli ideali più alti, per tutto ciò che è autentico. È bene aiutarli a capire la bellezza semplice – a volte molto silenziosa, e sempre rivestita di naturalezza – che c’è nella vita dei loro genitori. Bisogna aiutarli a rendersi conto (senza farglielo pesare) dei sacrifici compiuti per loro, dell’abnegazione – spesso eroica – con cui hanno tirato avanti la famiglia. È bene che anche i figli imparino a non drammatizzare, a non fare la parte degli incompresi. Non dimentichino che saranno sempre in debito verso i genitori, e che la loro corrispondenza – non potranno mai pagare quello che devono – deve essere fatta di venerazione, di affetto grato, filiale.
D’altronde, siamo sinceri: la famiglia unita è la cosa normale. Ci sono screzi, differenze, ma sono cose scontate e che, in un certo senso, contribuiscono a dare sapore alle nostre giornate. Sono cose senza importanza, che il tempo fa superare; rimane, invece, solo ciò che è stabile, cioè l’amore, l’amore vero, fatto di sacrificio, non di finzione, che porta a preoccuparsi gli uni degli altri, a intuire i piccoli problemi trovando con delicatezza la soluzione. E siccome è normale che le cose vadano così, la stragrande maggioranza delle persone mi ha capito molto bene quando, sin dagli anni venti, mi ha sentito chiamare “dolcissimo precetto” il quarto comandamento del Decalogo.
(Reagendo forse a un’educazione religiosa coercitiva, basata talvolta solo su poche pratiche abitudinarie ed esteriori, parte del la gioventù odierna si è allontanata quasi totalmente dalla pietà cristiana, considerandola null’altro che bigotteria. Come si può risolvere questo problema, a suo parere?)
102. La soluzione è implicitamente contenuta nella domanda: si deve insegnare (prima con l’esempio, poi con la parola) in che cosa consiste la vera pietà. La bigotteria non è che una desolante caricatura pseudo-spirituale, frutto quasi sempre di mancanza di dottrina e anche di una certa deformazione umana: è logico che risulti ripugnante a chi ama l’autenticità e la sincerità.
Con gioia costato che la pietà cristiana attecchisce nel cuore dei giovani – quelli di oggi come quelli di quarant’anni fa – quando la vedono incarnata come vita sincera;
– quando capiscono che pregare è parlare con il Signore come si parla con un padre, con un amico: non nell’anonimato, bensì con un rapporto personale, in una conversazione a tu per tu;
– quando si riesce a far echeggiare nelle loro anime quelle parole di Gesù, che sono un invito all’incontro fiducioso: “Vos autem dixi amicos” (“Gv” 15, 15), vi ho chiamati amici;
– quando si rivolge un deciso appello alla loro fede, affinché vedano che il Signore è lo stesso “ieri, oggi e sempre” (“Eb” 13, 8).
D’altra parte è necessario che si rendano conto che questa pietà semplice e sincera esige anche l’esercizio delle virtù umane, e che pertanto non può ridursi a qualche pratica di devozione settimanale o quotidiana: essa deve impregnare tutta la vita, deve dare un senso al lavoro e al riposo, all’amicizia, allo svago, a tutto. Non possiamo essere figli di Dio solo di quando in quando, anche se ci devono essere alcuni momenti particolarmente riservati a considerare e approfondire la realtà e il senso della filiazione divina, che è il nocciolo della pietà.
Ho detto prima che i giovani capiscono bene tutto questo. Ora aggiungo che chi cerca di vivere tutto ciò, si sente sempre giovane. Il cristiano, anche di ottant’anni, quando vive in unione con Cristo, può veramente assaporare le parole che si pronunciano ai piedi dell’altare: «Salirò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza» (“Sal” 42,4).
(Lei quindi crede che sia importante educare fin da piccoli i bambini alla vita di pietà? Pensa che sia bene fare in famiglia alcune pratiche di pietà?)
103. Penso che sia proprio questo il cammino migliore per dare ai figli un’autentica formazione cristiana. La Sacra Scrittura ci parla delle famiglie dei primi cristiani – la “Chiesa domestica”, dice San Paolo (1 “Cor” 16, 19) – alle quali la luce del Vangelo dava un nuovo slancio, una nuova vita.
In tutti gli ambienti cristiani si sa per esperienza quali buoni risultati dia questa naturale e soprannaturale iniziazione alla vita di pietà, fatta nel calore del focolare. Il bambino apprende a situare il Signore tra i primi e più fondamentali affetti; impara a trattare Dio come Padre, la Madonna come Madre; impara a pregare seguendo l’esempio dei genitori. Quando tutto ciò si comprende, appare evidente il grande compito apostolico che i genitori sono chiamati a svolgere; e il loro dovere di vivere sinceramente la vita di pietà, per poterla trasmettere – più che insegnare – ai figli.
I mezzi? Ci sono delle pratiche di pietà – poche, brevi e abituali – che le famiglie cristiane hanno sempre adottato, e che per me sono meravigliose: la benedizione a tavola, il rosario recitato tutti assieme – anche se oggi non manca chi attacca questa solidissima devozione mariana -, le preghiere personali al mattino e alla sera. Si tratterà di consuetudini che possono variare a seconda dei luoghi; ma credo che si debba sempre promuovere qualche pratica di pietà da vivere insieme, in famiglia, in modo semplice e naturale, senza bigotteria.
In tal modo otterremo che Dio non venga considerato come un estraneo che si va a visitare una volta alla settimana, la domenica, in chiesa; che invece lo si veda e lo si tratti come è nella realtà: anche in famiglia, perché, come ha detto il Signore, “dove sono due o tre riuniti in nome mio, io sono in mezzo a loro” (“Mt” 18,20).
È con gratitudine e orgoglio di figlio che vi dico che continuo a recitare ad alta voce mattina e sera, le preghiere che ho imparato da bambino dalle labbra di mia madre. Mi conducono a Dio e mi fanno sentire l’affetto con cui mi si insegnò a fare i primi passi sulla strada della vita cristiana; così, offrendo al Signore il giorno che comincia, o ringraziandolo per quello che finisce, chiedo a Dio di aumentare in Cielo la felicità di coloro che amo di più, e di tenerci poi sempre uniti insieme nella gloria.
(Se permette, continuiamo a parlare dei giovani. Per mezzo della rubrica “Giovani” della nostra rivista, ci giungono molti dei loro problemi. Uno dei più frequenti si riferisce al fatto che a volte i genitori impongono loro il proprio parere in scelte decisive. Questo avviene tanto nella scelta dell’indirizzo degli studi o della professione, quanto nella scelta del fidanzato, e più ancora quando si tratta di seguire la chiamata di Dio per dedicarsi al servizio delle anime. Un simile atteggiamento da parte dei genitori ammette giustificazioni? Non è piuttosto una violazione della libertà necessaria per giungere alla maturità personale?)
104. È chiaro che le scelte che decidono il corso di una vita vanno prese personalmente da ciascuno, con libertà, senza nessun tipo di coercizione o di pressione.
Questo non vuol dire che non sia di solito necessario l’intervento di altre persone. Proprio perché si tratta di passi decisivi che riguardano tutta la vita e dato che la felicità dipende in gran parte dal modo in cui si compiono, è necessario agire con serenità evitare la precipitazione, procedere con senso di responsabilità e prudenza. Gran parte della prudenza consiste appunto nel chiedere consiglio: sarebbe presunzione – che di solito si paga cara – ritenersi in grado di decidere senza la grazia di Dio e senza il calore e la luce che altre persone, soprattutto i nostri genitori, ci possono dare.
I genitori possono e devono fornire ai figli un aiuto prezioso, aprendo loro nuovi orizzonti, comunicando la propria esperienza, facendoli riflettere, in modo che non si lascino trasportare da stati d’animo passeggeri, e avviandoli a una valutazione realistica delle cose. Quest’aiuto verrà fornito dai genitori personalmente, con i loro consigli, oppure invitando i figli a rivolgersi a persone competenti: a un amico leale e sincero, a un sacerdote preparato e zelante, a un esperto di orientamento professionale.
Il consiglio non toglie però la libertà, ma fornisce elementi di giudizio e quindi allarga le possibilità di scelta, evitando l’influenza di fattori irrazionali nella decisione. Dopo aver prestato ascolto al parere degli altri, e aver ponderato ogni cosa, arriva il momento della scelta, e allora nessuno ha il diritto di far violenza alla libertà. I genitori devono fare attenzione a non cedere alla tentazione di proiettarsi indebitamente nei propri figli – di costruirli secondo i propri gusti -, perché devono rispettare le inclinazioni e le capacità che Dio dà a ciascuno.
Di solito quando esiste vero amore, tutto questo non è difficile. E anche nel caso estremo in cui il figlio prende una decisione che i genitori ritengono a ragione errata e prevedibile fonte di infelicità, nemmeno allora la soluzione sta nella violenza, ma nel comprendere e – più di una volta – nel saper rimanere al suo fianco per aiutarlo a superare le difficoltà e trarre eventualmente da quel male tutto il bene possibile.
I genitori che amano davvero i loro figli e cercano sinceramente il loro bene, dopo aver offerto i loro consigli e le loro riflessioni, devono farsi da parte delicatamente, in modo che nulla si opponga alla libertà, a questo grande bene che rende l’uomo capace di amare e di servire Dio. Devono tener presente che Dio stesso ha voluto essere amato e servito in libertà, e rispetta sempre le nostre decisioni personali: «Dio lasciò l’uomo – dice la Bibbia – arbitro di sé stesso» (“Sir” 15, 14).
Ancora qualche parola per rispondere esplicitamente all’ultima parte della domanda: la decisione di dedicarsi al servizio della Chiesa e delle anime. Quando dei genitori cattolici non comprendono tale vocazione, ritengo che abbiano fallito nella loro missione di formare una famiglia cristiana, e che non si siano nemmeno resi conto della dignità che il cristianesimo conferisce alla loro vocazione matrimoniale. Comunque, la mia esperienza nell’Opus Dei è molto positiva. Sono solito dire ai soci dell’Opera che il novanta per cento della loro vocazione lo devono ai genitori che li hanno saputi educare insegnando loro a essere generosi. Posso dirvi che, nella stragrande maggioranza dei casi – per non dire sempre -, i genitori non solo rispettano, ma amano la decisione dei figli e vedono subito nell’Opera un ampliamento della loro famiglia. Questa è una delle mie gioie più grandi, ed è un’altra prova che per essere molto divini bisogna essere anche molto umani.