La donna nella vita sociale e nella Chiesa
Autore: Autori Cristiani
Parte IV
(Oggi c’è chi sostiene la teoria che l’amore giustifica tutto, e conclude che il fidanzamento è una specie di “matrimonio di prova”. Pensano che sia una cosa inautentica e retrograda non seguire le cosiddette “esigenze dell’amore”. Che cosa pensa di questo atteggiamento?)
105. Penso quello che deve pensare una persona onesta specialmente un cristiano: e cioè che si tratta di un atteggiamento indegno dell’uomo e che avvilisce l’amore umano confondendolo con l’egoismo e con il piacere.
Chiamano retrogrado chi non fa o non pensa così? Retrogrado è piuttosto chi retrocede ai tempi della giungla e non riconosce altro impulso che l’istinto. Il fidanzamento dev’essere un’occasione per approfondire l’affetto e la conoscenza reciproca, e, come ogni scuola di amore, dev’essere ispirato non dall’ansia di possesso, ma dallo spirito di dedizione, di comprensione, di rispetto, di delicatezza. Proprio per questo volli regalare all’Università di Navarra, poco più di un anno fa, una statua della Madonna, Madre del Bell’Amore, affinché i ragazzi e le ragazze che studiano in quell’ateneo imparassero da Lei la nobiltà dell’amore, anche dell’amore umano.
Matrimonio di prova? Come conosce poco l’amore chi parla cosi! L’amore è una realtà ben più sicura, più vera, più umana. Non lo si può trattare come un prodotto commerciale, di cui si fa la prova e poi si tiene o si butta via, a seconda del capriccio, della comodità o dell’interesse.
Questa mancanza di criterio è così deplorevole che non c’è nemmeno bisogno di condannare chi pensa o agisce in questo modo, perché si condanna da sé all’infecondità, alla tristezza, all’isolamento desolante nel giro di pochi anni.
Non posso che pregare molto per costoro, amarli con tutta l’anima e cercare di far loro capire che hanno sempre aperta davanti a sé la strada del ritorno a Gesù; se ci mettono impegno, potranno essere santi, cristiani coerenti, perché non mancherà loro né il perdono né la grazia del Signore. Solo allora capiranno veramente che cos’è l’amore: conosceranno l’Amore divino e la nobiltà dell’amore umano; proveranno che cos’è la pace, la gioia, la fecondità.
(Un grave problema femminile è quello delle donne nubili; ci riferiamo a quelle che, pur avendo vocazione matrimoniale, non giungono a sposarsi. Allora si domandano: che cosa ci stiamo a fare al mondo? Lei che risposta darebbe?)
106. Che cosa stiamo a fare al mondo? Ci stiamo per amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, e per far sì che questo amore arrivi a tutte le creature. Vi pare poco? Dio non abbandona nessun’anima a un destino cieco: per tutte ha un progetto, una chiamata, una vocazione personalissima, intrasferibile.
Il matrimonio è un cammino divino, una vocazione. Ma non è l’unico cammino, non è la sola vocazione. I piani di Dio su ogni donna non sono legati necessariamente al matrimonio. Hanno la vocazione al matrimonio e non arrivano a sposarsi? Qualche volta sarà vero, e forse allora sarà stato l’egoismo o l’amor proprio a impedire che si compisse la chiamata di Dio; ma altre volte – forse la maggioranza dei casi – queste circostanze possono essere segno che il Signore non ha dato loro una vera vocazione matrimoniale. Sì: amano i bambini; sentono di poter essere delle buone madri, capaci di donare tutto il cuore, fedelmente, al marito e ai figli. Ma questo è quello che sentono tutte le donne, anche quelle che per vocazione divina non si sposano, pur potendolo fare, per dedicarsi al servizio di Dio e delle anime.
Non si sono sposate: ebbene, continuino ad amare la Volontà del Signore, cercando l’intimità con il Cuore amabilissimo di Gesù, che non abbandona nessuno, che è sempre fedele, che si prende cura di noi durante tutta la vita e ci offre in dono se stesso, già ora, e per sempre.
Inoltre la donna può compiere la sua missione – come donna, con tutte le caratteristiche femminili, comprese quelle affettive della maternità – in àmbiti diversi da quello della propria famiglia: in altre famiglie, nella scuola, in opere assistenziali, in mille posti. A volte la società è molto dura – molto ingiusta – nei confronti delle donne che chiama zitelle. Ci sono invece donne nubili che diffondono intorno a sé gioia, pace, efficacia: donne capaci di dedicarsi a un nobile servizio degli altri e di essere madri, nella profondità del proprio spirito, in modo più reale che non molte altre, che sono madri solo fisiologicamente.
(Le domande precedenti riguardavano il fidanzamento; ora vorrei che ci soffermassimo sul matrimonio: che consigli darebbe alla donna sposata affinché, con il passare degli anni, la sua vita matrimoniale continui a essere felice senza cadere nella monotonia? Forse la cosa può sembrare poco importante, ma a noi scrivono molte lettrici interessate all’argomento.)
107. A me sembra senz’altro una questione importante; ritengo quindi importanti anche le possibili soluzioni, benché possano avere un’apparenza modesta.
Perché il matrimonio conservi sempre lo slancio e la freschezza iniziali, la moglie deve cercare di conquistare il marito ogni giorno; e lo stesso si dovrebbe dire del marito rispetto alla moglie. L’amore va recuperato ogni giorno; e l’amore si conquista con il sacrificio, con il sorriso e anche con un po’ di furbizia. Se il marito torna a casa dal lavoro stanco e la moglie si mette a parlare senza misura, raccontando tutto quello che secondo lei va male, è forse strano che il marito finisca per perdere la pazienza? Gli argomenti meno gradevoli si possono lasciare per un momento più opportuno, quando lui sia più disteso e meglio disposto.
Un altro particolare: la cura della propria persona. Se un altro sacerdote vi dicesse il contrario, penso che sarebbe un cattivo consigliere. Una persona che deve vivere nel mondo, quanti più anni ha, tanto più è necessario che si sforzi di migliorare non solo la vita interiore, ma – appunto per questo – anche l’impegno per “essere presentabile”, d’accordo, naturalmente, con l’età e le circostanze. Spesso, scherzando, dico che le vecchie facciate sono quelle che hanno più bisogno di un buon restauro. È un consiglio di sacerdote. C’è un vecchio proverbio che dice: «Quando la moglie non si trascura, il marito non cerca l’avventura».
Proprio per questo oserei dire che l’ottanta per cento della colpa delle infedeltà dei mariti è delle mogli, che non sanno riconquistarli ogni giorno, non sanno essere premurose, affettuose, delicate. L’attenzione della donna sposata deve concentrarsi sul marito e sui figli. E quella del marito deve concentrarsi sulla moglie e sui figli. Ciò richiede tempo e impegno, per sapere quello che va fatto e farlo bene. Tutto ciò che rende impossibile il compimento di questo dovere, non è cosa buona e non va bene.
Non ci sono scuse per non compiere questo amabile dovere. Non è certo una scusa il lavoro extradomestico, e neppure le pratiche religiose che, se non sono compatibili con i doveri di tutti i giorni, non sono buone, e Dio non le accetta. La donna sposata si deve occupare prima di tutto della casa. C’è un canto popolare della mia terra che dice: “La mujer que, por la iglesia, / deja el puchero quemar / tiene la mitad de ángel / de diablo la otra mitad” (La donna che, per stare in chiesa, / lascia bruciare il pranzo, / è per metà angelo, / e diavolo per l’altra metà). Io direi che è diavolo del tutto.
(Oltre alle difficoltà che possono esserci tra genitori e figli, non sono rari i litigi tra marito e mogli e, che talvolta arrivano sul serio a compromettere la pace famigliare. Che cosa consiglierebbe agli sposi?)
108. Di volersi bene. E di rendersi conto che durante la vita ci saranno screzi e difficoltà, che però, se risolte con naturalezza, contribuiranno a render ancor più profondo l’affetto.
Ciascuno di noi ha il suo temperamento, i suoi gusti personali, il suo carattere – un caratteraccio, a volte -, i suoi difetti. Ognuno ha anche i lati piacevoli della sua personalità, e per questo – e per molte altre ragioni – gli si può voler bene. La convivenza è possibile quando tutti si sforzano di correggere i propri difetti e cercano di passar sopra alle manchevolezza degli altri; quando cioè vi è amore, che supera e annulla tutto quanto potrebbe falsamente sembrare motivo di separazione e di divergenza. Se invece si drammatizzano i piccoli contrasti e ci si comincia a rinfacciare mutuamente i difetti e gli sbagli, la pace è finita e si corre il pericolo di far morire l’affetto.
Gli sposi hanno grazia di stato – la grazia del sacramento – per praticare tutte le virtù umane e cristiane della convivenza: la comprensione, il buon umore, la pazienza, il perdono, la delicatezza nel rapporto reciproco. L’importante è non lasciarsi andare, non lasciarsi dominare dal nervosismo, dall’orgoglio o dalle manie personali. Per riuscirci, marito e moglie devono sviluppare la propria vita interiore e apprendere dalla Sacra Famiglia a vivere con finezza – per un motivo che è allo stesso tempo umano e soprannaturale – le virtù del focolare cristiano. Lo ripeto ancora: la grazia di Dio ce l’hanno.
Quando uno dice che non può sopportare questo o quello e che gli è impossibile tacere, sta esagerando per giustificare se stesso. Bisogna chiedere a Dio la forza di dominare il proprio umore, la grazia per conservare il dominio di sé. Perché i pericoli di un’arrabbiatura sono proprio questi: si perde il controllo, le parole si riempiono di amarezza, arrivano a offendere e, forse involontariamente, a ferire, a far male.
Occorre imparare a tacere, ad attendere, a dire le cose in modo positivo, con ottimismo. Quando è lui a perdere la calma, è il momento in cui lei deve essere particolarmente paziente, finché la serenità torna di nuovo; e viceversa. Quando l’affetto è sincero e ci si sforza di farlo crescere è ben difficile che tutti e due si lascino dominare dal malumore nello stesso momento…
Un’altra cosa molto importante: abituarsi a pensare che non abbiamo mai “tutta” la ragione. Si può addirittura dire che, in questioni di solito tanto discutibili, quanto più siamo sicuri di avere tutta la ragione, tanto più è certo che abbiamo torto. Se si ragiona in questo modo, riesce semplice alla fine rettificare e, se occorre, chiedere scusa, che è il modo migliore di concludere un’arrabbiatura; e così si assicurano la pace e l’affetto. Non voglio incoraggiare a bisticciare; ma è comprensibile che bisticciamo qualche volta con quelli che amiamo di più, perché sono quelli che vivono abitualmente assieme a noi. Non si bisticcia di certo con lo “zio d’America”! Pertanto, queste piccole tempeste fra gli sposi, se non sono frequenti – e bisogna fare in modo che non lo siano -, non sono indice di poco amore, anzi, possono contribuire ad aumentarlo.
Infine un ultimo consiglio: non litigare mai davanti ai figli. Per evitarlo, basterà che marito e moglie si intendano con una parola, con uno sguardo, con un gesto. Litigheranno dopo, con più serenità, se proprio non sono capaci di farne a meno. La pace coniugale dev’essere l’ambiente della famiglia, perché è la condizione indispensabile per un’educazione profonda ed efficace. I piccoli devono vedere nei genitori un esempio di dedizione, di amore sincero, di mutuo aiuto, di comprensione; le piccole difficoltà di ogni giorno non devono nascondere la realtà di un affetto capace di superare tutto.
A volte ci prendiamo troppo sul serio. Tutti ci arrabbiamo di quando in quando, a volte perché è necessario, altre volte perché ci manca spirito di mortificazione. L’importante è dimostrare che queste arrabbiature non incrinano l’affetto, sapendo ristabilire l’intimità famigliare con un sorriso. Insomma, marito e moglie devono vivere amandosi l’un l’altra e amando i propri figli, perché è così che amano Dio.
(Mi riferisco ora a un fatto più concreto: recentemente è stata annunciata a Madrid l’apertura di una Scuola diretta da socie dell’Opus Dei, con il fine di creare un clima di famiglia e di dare alle lavoratrici domestiche una formazione completa e una qualificazione professionale. Che incidenza crede che possa avere nella società questo tipo di attività?)
109. Quest’opera apostolica – ce ne sono molte altre del genere dirette da socie dell’Opus Dei, che vi lavorano insieme ad altre persone che non appartengono alla nostra istituzione – ha come fine principale quello di nobilitare il mestiere delle impiegate domestiche in modo che possano realizzare il proprio lavoro con competenza tecnica. Dico competenza tecnica perché bisogna che il lavoro domestico venga condotto per quello che è: una vera professione.
Non dimentichiamo che si è preteso di presentare questo lavoro come una cosa umiliante. Ma non è vero; umilianti erano senza dubbio le condizioni in cui molte volte si svolgeva questo lavoro. E umilianti continuano a esserlo in vari casi anche oggi: quando chi vi si dedica deve adattarsi ai capricci di persone irriguardose e deve lavorare senza garanzie legali, con scarsa retribuzione, senza affetto. Bisogna esigere il rispetto di un contratto di lavoro adeguato, che dia garanzie chiare e precise, e stabilisca bene i diritti e i doveri di ciascuna delle parti.
Oltre a queste garanzie legali, occorre che la persona che presta il servizio sia qualificata, professionalmente preparata. Ho detto servizio – anche se oggi la parola non piace – perché ogni attività sociale ben compiuta è appunto questo, un bellissimo servizio: e lo è tanto l’attività di una lavoratrice domestica quanto quella di un docente o di un giudice. L’unica attività che non è servizio è quella di chi subordina tutto al proprio interesse.
Il lavoro domestico è una cosa di primaria importanza. Del resto, tutti i lavori possono avere la stessa qualità soprannaturale: non ci sono compiti grandi o piccoli; tutti sono grandi se si fanno per amore. Le funzioni che tutti ritengono elevate, diventano meschine appena si perde il senso cristiano della vita. Invece ci sono cose piccole all’apparenza, che possono essere molto grandi per le effettive conseguenze che hanno.
Per me, il lavoro di una figlia mia dell’Opus Dei che è collaboratrice domestica, ha la stessa importanza di quello di un’altra mia figlia che abbia un titolo nobiliare. In entrambi i casi, a me interessa solo che il loro lavoro sia mezzo e occasione di santificazione propria e altrui: e sarà alla fine più importante il lavoro della persona che nella propria occupazione e nel proprio stato cresce di più in santità e compie con più amore la missione ricevuta da Dio.
Dinanzi a Dio, una docente universitaria non è più importante di una commessa di negozio, o di una segretaria, di un’operaia, o di una contadina: tutte le anime sono uguali. Solo che spesso sono più belle le anime delle persone più semplici; e, in ogni caso, sono più accette al Signore quelle che entrano più intimamente in rapporto con Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo.
Con la scuola aperta a Madrid si può fare molto: si può dare un autentico ed efficace aiuto alla società in un’importante funzione, e al tempo stesso svolgere un lavoro cristiano nelle famiglie, portando nelle case la gioia, la pace, la comprensione. Parlerei per ore intere su questo argomento; ma quanto ho detto è sufficiente per capire che vedo il lavoro domestico come un mestiere di particolare importanza, perché con esso si può fare molto bene – o molto male – nel cuore stesso delle famiglie. Speriamo che sia molto il bene: non mancheranno persone di buona stoffa umana, competenti e con slancio apostolico, che faranno di questa professione un lavoro pieno di gioia e di incalcolabile efficacia in tante famiglie del mondo.
(Da circostanze di indole molto diversa, come anche da esortazioni e insegnamenti della Chiesa, è nata e si è sviluppata una profonda sensibilità sociale. Si fa un gran parlare della virtù della povertà come testimonianza. Come può viverla una donna di casa, che deve offrire un giusto benessere alla propria famiglia?)
110. Nella Sacra Scrittura, proprio come uno dei segni che manifestano l’arrivo del Regno di Dio, leggiamo che “il Vangelo è annunciato ai poveri” (“Mt” 11, 6). Non ha lo spirito di Cristo chi non ama e non vive la virtù della povertà; e ciò vale per tutti, tanto per l’anacoreta che si ritira nel deserto, quanto per il comune cristiano che vive nel mezzo della società umana, fornito delle risorse di questo mondo o privo di molte di esse.
Su questo tema vorrei soffermarmi un po’, perché oggi non sempre si predica la povertà in modo che il suo messaggio giunga a farsi vita. Con buona volontà senza dubbio, ma senza aver afferrato a fondo il senso dei tempi, c’è chi predica una povertà che è frutto di mera elucubrazione intellettuale, che porta con sé vistosi segni esteriori e al tempo stesso enormi deficienze interiori, quando non anche esterne.
Facendo eco a un’espressione del profeta Isaia – “discite benefacere” (1, 17) – mi piace dire che “le virtù bisogna imparare a viverle”, e questo vale forse in modo speciale per la povertà. Bisogna imparare a viverla perché non si riduca a un ideale sul quale si può scrivere molto, ma che nessuno mette seriamente in pratica. Occorre far vedere che la povertà è un invito che il Signore rivolge a ogni cristiano, e che pertanto è una chiamata concreta che deve dar forma a tutta la vita dell’umanità.
Povertà non è miseria, e meno che mai sporcizia. La prima ragione è che ciò che definisce il cristiano non sono le condizioni esterne della sua vita, ma piuttosto gli atteggiamenti del suo cuore. Ma poi vi è una seconda ragione (e qui tocchiamo un punto assai importante, dal quale dipende un’esatta comprensione della vocazione laicale): ed è che la povertà non viene definita dalla pura e semplice rinuncia. In certe occasioni particolari, la testimonianza di povertà richiesta ai cristiani può essere l’abbandono di tutto, la contestazione di un ambiente che non ha orizzonti aldilà del benessere materiale, proclamando così, con un gesto spettacolare, che nessuna cosa è buona se viene preferita a Dio. Ma è forse questa la testimonianza che oggi la Chiesa chiede a tutti? Non è vero forse che essa esige anche una testimonianza esplicita di amore al mondo, di solidarietà con gli uomini?
A volte, chi riflette sulla povertà cristiana prende come punto di riferimento principale i religiosi, cui è proprio dare sempre e ovunque una testimonianza pubblica, ufficiale; e così si corre il rischio di non scorgere il carattere specifico di una testimonianza laicale, che viene data dall’interno, con la semplicità delle cose di tutti i giorni.
Un cristiano qualsiasi deve rendere compatibili, nella propria vita, due aspetti che possono sembrare a prima vista contraddittori. “Povertà reale”, anzitutto: una povertà che si noti, che si possa toccare con mano perché fatta di cose concrete, che sia una professione di fede in Dio, una testimonianza che il cuore non si soddisfa con le cose create, ma aspira al Creatore e anela colmarsi d’amor di Dio per poi comunicare a tutti questo stesso amore. E, nello stesso tempo, “essere uno dei tanti in mezzo agli uomini nostri fratelli”, condividendone la vita, le gioie, le ansie, e collaborando nelle stesse attività; amando il mondo e tutte le cose buone che vi sono, utilizzando tutte le cose create per risolvere i problemi della vita umana, e per costruire l’ambiente materiale e spirituale propizio allo sviluppo delle persone e delle comunità.
Raggiungere la sintesi di questi due aspetti è – in buona parte – una questione personale, una questione di vita interiore, per saper giudicare momento per momento e scoprire caso per caso che cosa Dio ci chiede. Non voglio dunque dare regole fisse, ma solo delle linee generali di orientamento, riferendomi specialmente alle madri di famiglia.
111. Sacrificio: ecco in che cosa consiste, in gran parte, la povertà reale. Si tratta di saper prescindere dal superfluo, misurato non tanto con regole teoriche, quanto con l’ascolto della voce interiore che ci avverte che l’egoismo o la comodità ingiusta si stanno infiltrando nella nostra vita. Il benessere, inteso in senso positivo, non significa lusso, né corsa al piacere, ma quanto serve a rendere la vita gradevole alla propria famiglia e agli altri, perché tutti possano servire meglio Dio.
La povertà consiste nel raggiungere sul serio il distacco dalle cose terrene; nel sopportare lietamente le scomodità, quando ci sono, o la mancanza di mezzi. Chi è povero sa poi avere tutto il giorno “preso” da un orario elastico, che deve prevedere fra le cose importanti – oltre alle pratiche giornaliere di pietà – il necessario riposo, il tempo per star assieme ai propri cari, un po’ di lettura, i momenti da dedicare a un hobby di arte o di letteratura, o ad altra distrazione onesta; e così sa riempire le ore con un’attività utile, cerca di fare le cose nel migliore dei modi, e cura i particolari di ordine, di puntualità, di buon umore. In una parola, sa trovar posto per servire gli altri e per sé stesso: senza dimenticare che tutti gli uomini e tutte le donne – e non solo quelli materialmente poveri – hanno l’obbligo di lavorare; la ricchezza o una situazione economica agiata non sono che un segno del fatto che si è maggiormente obbligati a sentire la responsabilità dell’intera società.
È l’amore che dà senso al sacrificio. Ogni madre sa bene che cos’è il sacrificio per i figli: non si tratta solo di dedicare loro alcune ore, ma di spendere per il loro bene tutta la vita. Vivere dunque pensando agli altri, usare i beni in modo tale che non manchi qualcosa da offrire agli altri: ecco le dimensioni della povertà, che garantiscono un effettivo distacco.
Per una madre, è importante non solo vivere cosi, ma anche insegnare ai figli a vivere così. Si tratta di educarli promuovendo in loro la fede, l’ottimismo della speranza e la carità; si tratta di insegnare loro a superare l’egoismo e a usare parte del proprio tempo generosamente al servizio delle persone meno fortunate, partecipando a lavori (adeguati alla loro età) in cui si manifesti una vera preoccupazione di solidarietà umana e divina.
In poche parole: ciascuno deve vivere la propria vocazione. Per me il miglior modello di povertà sono sempre stati quei padri e quelle madri di famiglie numerose e povere, che non vivono che per i propri figli, e che con il loro sforzo e con la loro costanza – spesso senza voce per manifestare agli altri le loro ristrettezze – sanno mandare avanti la casa, creando un focolare pieno di gioia, in cui tutti imparano ad amare, a servire, a lavorare.
(Nel corso dell’intervista, lei ci ha commentato vari e importanti aspetti della vita umana e in particolare della vita della donna, e ci ha fatto notare in che modo li valuta lo spirito dell’Opus Dei. Potrebbe dirci, per terminare, come pensa che si debba promuovere il ruolo della donna nella vita della Chiesa?)
112. Non nascondo che di fronte a una domanda di questo tipo, sento, contrariamente alla mia abitudine, la tentazione di rispondere in modo polemico, perché ci sono persone che adoperano questa terminologia in maniera clericale, usando la parola Chiesa come sinonimo di qualcosa che appartiene al clero, alla Gerarchia ecclesiastica. Così, per partecipazione alla vita della Chiesa intendono solo o principalmente l’aiuto prestato alla vita parrocchiale, la collaborazione ad associazioni “con mandato” della Gerarchia, l’assistenza attiva alle funzioni liturgiche, e cose del genere.
Coloro che pensano così dimenticano all’atto pratico – anche se forse lo proclamano in teoria – che la Chiesa è la totalità del popolo di Dio, l’assieme di tutti i cristiani; e che pertanto, ovunque un cristiano si sforza di vivere in nome di Gesù Cristo, là è presente la Chiesa.
Con ciò non intendo minimizzare l’importanza della collaborazione che la donna può prestare alla vita della struttura ecclesiastica. La considero anzi imprescindibile. Ho dedicato tutta la vita a difendere la pienezza della vocazione cristiana dei laici (cioè degli uomini e delle donne comuni, che vivono in mezzo al mondo) e a promuovere, pertanto, il pieno riconoscimento teologico e giuridico della loro missione nella Chiesa e nel mondo.
Voglio solo far notare che c’è chi vorrebbe imporre una “riduzione ingiustificata” di tale collaborazione; e mi preme rilevare che il comune cristiano, sia uomo o donna, può svolgere la propria missione specifica, anche quella che gli spetta all’interno della struttura ecclesiale, solo a condizione di “non clericalizzarsi”, di continuare cioè ad essere secolare, ad essere persona che con normalità vive nel mondo e partecipa alle vicende del mondo.
Ai milioni di cristiani, uomini e donne, che riempiono la terra, spetta il compito di condurre a Cristo tutte le attività umane, annunciando con la propria vita che Dio ama tutti e tutti vuole salvare. Pertanto, il modo migliore di partecipare alla vita della Chiesa – il più importante, e quello che in ogni caso dev’essere il fondamento di tutti gli altri – è essere integralmente cristiani nel posto assegnato dalla vita, nel posto in cui la vocazione umana ci ha condotti.
Mi commuove pensare a tanti cristiani e a tante cristiane che, forse senza proporselo in modo esplicito, vivono con semplicità la vita ordinaria, cercando di incarnare in essa la Volontà di Dio. Renderli consapevoli di quanto sia eccelsa la loro vita; rivelare loro che ciò che sembra privo di importanza ha un valore di eternità; insegnare ad ascoltare più attentamente la voce di Dio che parla loro attraverso fatti e situazioni, è qualcosa di cui oggi ha urgente necessità la Chiesa, perché a questo la sta spingendo Dio.
Cristianizzare dal di dentro il mondo intero, dimostrando che Gesù ha redento tutta l’umanità: ecco la missione del cristiano. E la donna vi parteciperà nel modo che le è proprio, sia nella casa che nelle varie occupazioni ove realizza le sue capacità peculiari.
La cosa essenziale è dunque che si viva, come Maria Santissima – donna, Vergine e Madre -, al cospetto di Dio, pronunciando quel “fiat mihi secundum verbum tuum” (“Lc” 1, 38) da cui dipende la fedeltà alla vocazione personale, sempre unica e intrasferibile, e che ci rende cooperatori dell’opera di salvezza che Dio realizza in noi e nel mondo intero.