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La formazione professionale: primeggiare nel servizio

Autore: Autori cristiani

San Josemaría concepiva il prestigio professionale non come un successo personale, ma come un’opportunità per servire meglio.

La formazione aiuta a completare la disposizione a migliorare competenze e abilità.

Negli insegnamenti di san Josemaría, ciò che oggi viene indicato come leadership è concepito ed esercitato sempre come servizio, con il desiderio di contribuire a costruire un progetto comune a beneficio di tutti. Un leader non è semplicemente una persona che svolge un determinato ruolo in un gruppo. Il leader vuole migliorare il mondo, e si rende conto immediatamente che la cosa migliore è cominciare da quello che ha più vicino, più a portata di mano: l’ambiente in cui vive. San Josemaría lo sintetizzava in una espressione: “per servire, servire”[1]. E incoraggiava ad “acquisire tutto il prestigio professionale possibile, al servizio di Dio e delle anime”[2].

Aspirare ad essere un leader nel servizio comporta due sfide, nelle quali la formazione ci aiuta: far crescere un concetto più relazionale del proprio lavoro (sia nel senso di lavorare con gli altri – e prima di tutti con Dio – che da e per gli altri) e l’impegno nel coltivare le virtù (voler migliorare se stessi, non per cercare una auto-perfezione ma per donarsi).

Esseri relazionali, lavoro relazionale

Una concezione relazionale della propria professione consiste nella capacità di elevare lo sguardo per scoprire che il lavoro che io faccio ogni giorno va al di là della produzione di servizi o di beni, del rendimento e dell’efficacia della semplice auto-realizzazione. Alla fine consiste nel generare beni relazionali, che si producono e si godono sempre con altri, anche in quelle professioni che non sono orientate direttamente alla persona. È chiaramente interattivo vendere sul banco del mercato, formare gli studenti di formazione professionale, visitare appartamenti con i clienti o difendere un accusato davanti a un giudice. Però è anche relazionale, anche se non in una forma altrettanto evidente, il lavoro in un centro logistico, in una catena di montaggio o in un laboratorio di biochimica; ma anche l’attività di una persona che telelavora da casa o studia per dei concorsi, senza interagire, apparentemente, con nessuno.

Cristo è riconosciuto per il lavoro che fa (“Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria?”[3]) e per quello che fa suo padre (“Non è costui il figlio di Giuseppe”[4]). Nell’Esodo possiamo trovare un anticipo di san Giuseppe negli artigiani che per la qualità del loro lavoro e per la loro relazione con gli altri furono scelti per costruire il santuario[5]. Mosè li loda affermando che Dio li ha chiamati per nome e li ha riempiti del suo spirito, dotandoli di “saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro”[6] e “gli ha messo nel cuore il dono di insegnare”[7]. Gesù apportò una dimensione nuova al senso relazionale del suo lavoro nella bottega: nel costruire un tavolo, non creava semplicemente un oggetto, ma in qualche modo in esso erano presenti tutte le persone che negli anni lo avrebbero utilizzato, tutto ciò che aveva appreso da Giuseppe, la gioia della vita di famiglia con la Madonna, le necessità e le preoccupazioni dei vicini, il ricordo della Creazione, la carezza del legno che avrebbe trovato anche sulla Croce, il desiderio di glorificare il Padre, la redenzione dell’umanità.

Questa dimensione relazionale del lavoro poggia su ciò che significa essere umano, perché la disposizione a conoscere e amare l’altro fa parte del nostro essere creati a immagine e somiglianza di Dio, di un Dio Trino. “Tante volte mi domando: con che spirito noi facciamo il nostro lavoro quotidiano? Come affrontiamo la fatica? Vediamo la nostra attività legata solo al nostro destino oppure anche al destino degli altri? Infatti, il lavoro è un modo di esprimere la nostra personalità, che è per sua natura relazionale”[8], spiega papa Francesco. “Il lavoro è anche un modo per esprimere la nostra creatività: ognuno fa il lavoro a suo modo, con il proprio stile; lo stesso lavoro ma con uno stile diverso”[9].

Come conseguenza di questa natura relazionale, una parte della formazione professionale non consiste solamente nell’acquisire le conoscenze e le capacità adatte per realizzare il lavoro che mi propongo di fare, ma anche nell’imparare dalle persone: da quel collega esperto o da quell’altro più giovane, dal tutor che sa dare buoni consigli, da una conversazione con i componenti di un gruppo che sta portando avanti un progetto, da quel professore dal quale possiamo ritornare alcuni anni dopo aver frequentato la sua aula, da un cliente insoddisfatto. Cristo stesso era stato un apprendista. “Perché Gesù dovette rassomigliare a Giuseppe in molti aspetti: nel modo di lavorare, nei lineamenti del suo carattere, nell’accento”[10].

Uno strumento nelle mie mani

Uno dei risultati positivi che si ottengono dalla formazione professionale è la considerazione che ognuno conquista nel campo in cui è esperto. L’autentico prestigio professionale (che è un mezzo e non un fine) è il risultato dei mezzi che ognuno impiega per essere più competente nell’esercizio della propria professione. Un professionista bio-sanitario vorrà sempre adoperarsi per avere sempre maggiori conoscenze su eventuali terapie da applicare ai suoi pazienti, un professore cercherà di migliorare i propri sistemi di insegnamento pensando ai suoi studenti, un commerciante cercherà nuovi prodotti che possano interessare i suoi clienti e un operatore del mondo della comunicazione farà di tutto perché le informazioni che trasmette siano di grande livello per qualità e veracità. Ognuno si tiene aggiornato con i mezzi che ha a disposizione (corsi, letture, workshops, ricerca…), ma la formazione che l’Opera offre ci aiuta a desiderare questo aggiornamento, a dargli la precedenza, a perseverare in esso, per dare maggior gloria a Dio nel lavoro ed essere più efficace nel servizio.

Il prestigio professionale, da questo punto di vista, appare molto diverso dal correre dietro al successo, inteso come andare in cerca di risultati che altri possano giudicare ottimi, eccellenti, perché sarebbero il frutto di talenti straordinari che le persone comuni non posseggono. La predicazione di san Josemaría mirava a stimolare, e non a tagliare le ali a nessuno né a ridimensionare coloro che si avvalgono di qualità straordinarie – “a chi può essere un sapiente, non perdoniamo di non esserlo”[11] –, ma allo stesso tempo era ben lontano dal proporre un discorso di eccellenza rivolto solo a pochi o lontano dalla realtà. Infatti, anche una persona responsabile nel suo lavoro, con tutte le capacità acquisite e l’esperienza di anni di esercizio, non è strano che vada incontro a insuccessi, con errori che richiedono una rettifica, con momenti in cui è costretto a ricominciare da zero. Sono occasioni per imparare e per tentare di superare con speranza queste situazioni, senza rimanere dominati dalla paura di restare nuovamente sconfitti.

La chiave del prestigio professionale, secondo san Josemaría, non è la fama, ma il servizio per amore: “Il pellegrinaggio del cristiano nel mondo deve trasformarsi in un servizio continuo, un servizio con modalità che variano secondo le circostanze personali, ma che deve essere sempre improntato all’amore di Dio. Essere cristiani è agire senza pensare ai traguardi meschini del prestigio o dell’ambizione o ad altre finalità che possono sembrare più nobili, come la filantropia e la compassione davanti alle disgrazie altrui: è passare attraverso tutto questo, mirando al termine ultimo e radicale dell’amore che Cristo ha rivelato morendo per noi”[12].

Riassumendo, il significato del prestigio professionale consiste nel poterlo utilizzare per il servizio a Dio e alle persone. San Josemaría dava questa spiegazione: “Pertanto, volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicare questo: Per servire, servire. In primo luogo, infatti, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine. Non credo nella rettitudine di intenzione di chi non si sforza di ottenere la competenza necessaria per svolgere debitamente i compiti che gli sono affidati. Non basta voler fare il bene; è necessario saperlo fare. E, se il nostro volere è sincero, deve tradursi nell’impegno di impiegare i mezzi adeguati per compiere le cose fino in fondo, con perfezione umana”[13]. Ogni persona, dunque, è chiamata a essere un leader nel proprio ambiente (lavorativo, familiare, sociale), a volerlo migliorare. E tutti noi, uomini e donne, possiamo contribuire (mediante la preparazione professionale e la crescita personale) a questo miglioramento. Fa riflettere il fatto che la pandemia ha messo in luce molti leader nascosti ed è allo stesso tempo una sollecitazione alla responsabilità per ciascuno di noi: è la mia realtà personale quella che io posso migliorare, e se non lo faccio io, nessuno lo farà per me.

Servire a seconda del prestigio professionale

“Servire” lo si può intendere nel senso di “essere competente” o di “essere idoneo a un determinato compito”. Per servire – per vivere la carità con opere, imitando Cristo, che “non è venuto per farsi servire, ma per servire”[14] – bisogna essere idonei; e si tratta di una idoneità che proviene dallo studio e dalla pratica, ma anche dalle virtù umane. Una persona lavoratrice, determinata, audace, ordinata, educata, amabile, che si lascia coinvolgere, ecc., è nelle condizioni sia di contribuire efficacemente a un progetto comune, sia a rispondere alle esigenze della carità nell’esercizio dei propri doveri. L’espressione “per servire, servire” è, dunque, un invito ad acquisire le qualità necessarie per essere utile, e così coltivare le virtù che permettono di prestare ad altri i servizi opportuni. San Josemaría, quando parlava di questo aspetto, si riferiva tanto ai lavori intellettuali e di grande importanza e influenza sociale nel mondo della cultura o della politica come all’ottimo lavoro svolto in una officina meccanica, nella cucina di un ristorante o in una tenuta agricola.

Il prestigio permette di essere un punto di riferimento nell’ambito che padroneggiamo; ci permette anche di dare consigli e di condurre gli altri al di là delle nostre conoscenze e delle nostre capacità. Per esempio, possiamo continuare a interessarci al bene e al procedere nella vita degli ex-alunni, dare consigli ai medici giovani che compiono un turno di guardia in ospedale, suggerire nuove opportunità agli amici che hanno perduto il posto di lavoro, dare dei consigli a un collega intorno a un nuovo macchinario o dare un criterio nelle conversazioni un po’ tese.

Inoltre è uno strumento di servizio se aiuta a far parte di una corporazione, di un sindacato o di un ordine professionale, in modo da poter intervenire per migliorare la nostra professione o per stimolare diverse iniziative per ottenere delle condizioni di lavoro più giuste (promuovere uno sciopero, raccogliere firme, parlare con i dirigenti, ecc.). Nel parlare di Gesù e Giuseppe quali “operai del legno”, papa Francesco ricorda tutti quegli aspetti oscuri del lavoro che possiamo – dobbiamo – contribuire a illuminare con le possibilità di un percorso personale competente e onesto: i lavori usuranti “nelle miniere e in certe fabbriche”, “quelli che vengono sfruttati nel lavoro nero”, “le vittime” degli incidenti del lavoro, “i bambini che sono obbligati a lavorare”, ecc.[15].

Certe volte il prestigio conferisce un ascendente che permettere di intervenire in alcuni temi più delicati. In un congresso o in un viaggio di lavoro, rinunciare a bere alcuni bicchierini dopo una cena e ricordare la famiglia che si trova a casa può cambiare il clima dello svago tra colleghi. Raccontare la propria esperienza può aiutare un’altra persona a stabilire la domenica l’orario della propria attività commerciale in modo da poter assistere alla messa. Anche quando l’ambiente di lavoro è un deserto – “quell’ambiente arido dove si deve conservare la fede e cercare di irradiarla”[16], precisa il papa Francesco –, “lì siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri”[17].

Una formazione per trasformarsi e trasformare

Ciò che cambia il mondo sono le persone. E la formazione personale implica sempre un passo avanti sia nella responsabilità sociale sia nella capacità di apportare nella società ciò che di meglio ciascuno ha. “Nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale l’essere umano esprime ed accresce la dignità della propria vita”[18], specifica il papa Francesco. “Lavorare non solo serve per procurarsi il giusto sostentamento: è anche un luogo in cui esprimiamo noi stessi, ci sentiamo utili, e impariamo la grande lezione della concretezza, che aiuta la vita spirituale a non diventare spiritualismo”[19].

La formazione spirituale che l’Opera trasmette, che aspira sempre a rispecchiarsi nella vita, ci può aiutare a farci domande di questo tipo: Come posso comprendere meglio che il mio lavoro è un servizio? Come produrre occasioni di lavoro ad altri e alla società attraverso la mia stessa professione? Che tipo di problema sociale potrei aiutare a risolvere con il mio lavoro? Quali miglioramenti, innovazioni o soluzioni posso apportare con le conoscenze della mia professione?

Per eccellere nel servizio attraverso il nostro lavoro non abbiamo bisogno soltanto di conoscenze. Perciò la formazione professionale che fornisce l’Opera tende ad aiutare ogni persona ad acquisire le virtù umane o le capacità personali che la rendano professionalmente in grado di lavorare bene. Vale a dire: lavorare con attenzione, senza distrarsi e senza fare pasticci, con la diligenza e il senso di responsabilità di chi lo fa per amore a Dio e agli altri, cooperando con altri. Dobbiamo scoprire anche la dimensione di attenzione alle persone che mi stanno attorno, di quelle che traggono beneficio da questo lavoro, del bene comune e del mondo nel quale viviamo.

Queste capacità (le cosiddette soft skills) non si apprendono in teoria, ma si acquistano indirettamente dai modi di fare, di rapportarsi con gli altri, di affrontare le diverse questioni della giornata. Potremmo dire che si imparano con la pratica, che si incarnano facendole, ed ecco perché è bene che ognuno rifletta esplicitamente su di esse e utilizzi il feedback che gli danno gli altri, per capire meglio come farle crescere nel quotidiano, in modo che diano l’impronta al modo di essere e di agire e, dunque, la maniera di esercitare la propria professione. Chi non ha sentito il desiderio di ringraziare profondamente la disposizione attenta di un professionista della salute che ci ha assistito con affetto, o lo sguardo empatico (anche attraverso la mascherina) di un funzionario amministrativo che si è immedesimato nel nostro problema o la simpatia di un tassista o di un fattorino che ci hanno rallegrato la giornata?

Si possono sottolineare anche alcune qualità di carattere più personale, come il buon senso, l’atteggiamento positivo, l’autostima, la creatività, la resilienza o la flessibilità. Per esempio, la flessibilità si può definire come l’apertura a diversi modi di essere e di lavorare, cosa che rende capaci di compiere un lavoro intergenerazionale, interculturale (così necessario per non perdere l’essenza della nostra contemporaneità), interdisciplinare, ecc. Così si riesce a creare uno spazio nel quale tutti si sentono a loro agio e possono dare il loro miglior contributo.

Esistono altre capacità che si potrebbero considerare anche sociali, perché contribuiscono in modo costruttivo al tessuto di relazioni che fanno parte della nostra vita: la direzione di persone, il superamento dello stress proprio e altrui, la capacità di ascolto e di dialogo, la comunicazione, l’empatia, ecc. Secondo alcuni autori, queste disposizioni fanno parte della cosiddetta intelligenza emotiva e sociale.

Anche Cristo imparò questi aspetti, e non solo a fare certe cose. Nel commentare la figura di san Giuseppe, il papa Francesco afferma che “possiamo stare certi che il suo essere uomo “giusto” si sia tradotto anche nell’educazione data a Gesù. «Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52): così dice il Vangelo» (Patris corde, 2)”[20].

L’immagine di Cristo che lava i piedi agli apostoli il Giovedì Santo simbolizza il servizio alla persona di ogni cristiano. “Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”[21], dice il Signore. Però è bene ricordare che prima Egli stesso aveva servito per anni gli abitanti di Nazaret con il suo lavoro, il suo consiglio, il suo affetto, all’ombra del prestigio di san Giuseppe. “Giuseppe, indubbiamente, con un lavoro ben fatto, risolveva le difficoltà di molta gente. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da un sorriso, da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita, ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle”[22].


[1] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 50.

[2] San Josemaría, Solco, n. 491.

[3] Mt 13, 55; Mc 6, 3.

[4] Lc 4, 22.

[5] Cfr. Es 35, 30; 36, 2.

[6] Es 35, 31.

[7] Es 35, 34.

[8] Papa Francesco, Udienza, 12 gennaio 2022.

[9] Ibid.

[10] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 55.

[11] San Josemaría, Cammino n. 332.

[12] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 98.

[13] Ibid., n. 50.

[14] Mt 20, 28.

[15] Cfr. Papa Francesco, Udienza, 12 gennaio 2022.

[16] Papa Francesco, Es. ap. Evangelii Gaudium, n. 86.

[17] Ibid.

[18] Ibid., n. 192.

[19] Papa Francesco, Udienza, 12 gennaio 2022.

[20] Papa Francesco, Udienza, 19 gennaio 2022.

[21] Gv 13, 15.

[22] San Josemaría, È Gesù che passa, n. 51.

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