Imparare a pregare
La Preghiera - I meditazione
Autore: Autori Cristiani
Si parte da un fatto.
Il fatto sta sotto gli occhi dei discepoli: il Maestro prega….
“…E avvenne, mentre Egli pregava in un certo luogo, quando ebbe finito, uno dei Suoi discepoli Gli disse: – Signore, insegnaci a pregare…”(Luca, 1.1)
Gesù prega da solo (Luca 9.18), si ritira in luoghi deserti (Luca 4.42 – 5.16) e i discepoli non sopportano più quell’inaccessibilità.
Senza violare la Sua solitudine, senza forzare il Suo ritiro, desiderano “entrare” nella preghiera di Cristo, carpirne lo stile, afferrarne i contenuti, farne il punto di riferimento per il loro nuovo modo di pregare.
Può risultare relativamente facile insegnare delle preghiere. E, di fatto, troppa educazione religiosa non è servita ad altro che ad imparare delle formule, dei modi, delle regole.
Molto più arduo “creare la preghiera”, scoprirla, inventarla, attizzarne il dinamismo profondo, scovarne la sorgente.
Può essere agevole programmare la preghiera, regolamentarla. Più impegnativo, invece, “seminare la preghiera”, liberarne il movimento essenziale ed imprevedibile.
Può essere comodo insistere sul “dovere” e magari ricorrere al ricatto e alla paura (chi prega si salva, chi non prega si danna).
Più difficile far esplodere dentro l’esigenza della preghiera, comunicarne il fascino, la nostalgia, il gusto, la bellezza.
Una catechesi autenticamente cristiana non può limitarsi alla “morale”, ma deve spingersi ad una “poetica della preghiera”.
Il terreno proprio della preghiera è quello fecondo della vita, non quello arido dell’esercitazione religiosa, della pratica devota, della prestazione virtuosa, dell’ adempimento oneroso, dell’esecuzione puntigliosa.
La preghiera insegnata da Gesù è una preghiera che fa esplodere tutti “i modi”, travolge tutti gli schemi. La pedagogia di Gesù sulla preghiera è la più esigente. Proprio perché non si accontenta delle parole, delle formule, ma esige la vita, pretende il coinvolgimento della persona. Lui non insegna “una preghiera”. Abbiamo il diritto di disturbarlo soltanto se vogliamo imparare a pregare, carpire il Suo segreto.
Se accettiamo il rischio di nascere “uomini di preghiera”.
Non abbiamo tanto bisogno di preghiere nuove, ma di essere “nuovi nella preghiera”. Nuovi nel modo di interpretare il senso della preghiera nella nostra avventura di Cristiani. Molti sono in grado di offrirci preghiere “nuove”. Soltanto Uno ci insegna a non fabbricare preghiere, ma a scoprire la preghiera, crearla. Soltanto Lui ci invita a superare quella distanza, per entrare nello spazio della Sua solitudine e così sentirci un po’ meno estranei…..
“… Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: -Hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà. Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele crediate. Voi dunque pregate così: – Padre nostro…” (Mt. 6.6)
La preghiera del Cristiano, quindi, si caratterizza per l’obbedienza a quell’inquietante invece. NÈ come gli ipocriti, NÈ come i masticatori di formule, la preghiera vera, autentica, si costruisce sull’invece. Ossia sulla contrapposizione al formalismo e al vuoto rimbombante, all’esibizionismo irrilevante (agli occhi del Padre) ed alla quantità fragorosa inefficace. Una preghiera basata sull'”invece” evita sia lo spettacolo, sia la ripetizione meccanica, che invece di produrre l’accoglienza, provoca il fastidio. Vediamo di misurarci su alcuni aspetti di quello scomodo “tu invece”…
Le due categorie di persone sono separate da un abisso!
Una è attestata sul versante aspro del dovere. L’altra sulla sponda vertiginosa ed inebriante dell’amore.
Ci sono i recitanti. Ed esistono, per fortuna, gli oranti.
I primi sono soddisfatti quando hanno macinato con le labbra tutta la serie prescritta di formule. Gli altri avvertono l’esigenza di stabilire il contatto del cuore. Per gli uni la preghiera…sono le preghiere, le devozioni, le pratiche. Per gli altri, la preghiera è un dialogo con un Tu. Il recitante è preoccupato del numero. All’orante sta a cuore l’intensità della comunione, la qualità della relazione. Il recitante si aggrappa alle parole; l’orante ha molta familiarità anche con il silenzio. Per il primo la domanda fondamentale è: “Che cosa devo dire?” L’altro considera la preghiera come possibilità inaudita di un “faccia a faccia” atteso e desiderato. È quindi sorpresa, gioia, apertura! Sul versante delle preghiere domina la noia, la monotonia, il “mestiere” sulle labbra. Su quello della preghiera s’impone la vita, la spontaneità, la freschezza (che non vuol dire facilità, e neppure assenza di sforzo).
Quando si recita, la preghiera è caratterizzata dalla velocità. A sentire i componenti di certe assemblee che “dicono le preghiere”, par di udire dei sassi che precipitano fragorosamente giù per la china di una montagna. Voci che si rincorrono affannosamente, si sopravanzano, fino al tonfo finale e sospirato dell’ “amen”.
L’orante, invece, non è toccato dalla fretta. Sale lentamente, con calma, con passo leggero, su per il sentiero della tranquilla contemplazione. Sarebbe assurdo correre. Lui respira profondamente. Sosta ad osservare il panorama circostante, familiare e sorprendente. Ogni volta lo scopre, lo inventa, quasi fosse la prima volta. Ed è capace di meraviglia, di affascinanti scoperte. Il recitante percorre la preghiera come un’autostrada, dove tutto è previsto, regolamentato, segnalato.
L’importante è arrivare. Lui ha pagato il pedaggio! L’orante esplora il bosco sconfinato della preghiera. Essenziale è scoprire una Presenza.
Lui ha l’impressione di ricevere la preghiera in dono.
Uno “sa” le preghiere. L’altro non sa dove lo porta la preghiera.
Se vengono solo recitate le preghiere sono un “suono”. La preghiera autentica è Luce.
Il recitante, quando ha esaurito la dose prescritta di preghiere, si sente a posto. L’orante prova un senso indicibile di pace.
Il primo ha regolato i conti. Il secondo si è arricchito. La linea di separazione è proprio quell’insopprimibile “Tu invece….”
L’atteggiamento fondamentale è quello dell’attesa. Chi non sa attendere, si dimostra non idoneo alla preghiera, negato per la preghiera. L’attesa richiede un’applicazione tale da scoraggiare i faciloni, gli improvvisatori, i nevrotici collezionisti di emozioni. Attendere significa letteralmente “tendere verso”.
L’attesa è una posizione che prende, occupa la persona nella sua totalità. L’attesa realizza una stupefacente armonia ed unità della persona. Nella preghiera, interpretata come attesa, la creatura viene afferrata dall’ essenziale. All’apparenza, una persona che aspetta dà l’impressione di perdere tempo, di non avere niente da fare. L’attesa della preghiera, invece, è positiva. È pienezza. Attività. Incontro anticipato.
Una persona che attende, non ha tempo per altre cose. È totalmente ed esclusivamente occupata nell’attesa.
La preghiera, oltre a farci frequentare “un altro mondo”, ci proietta in un “altro tempo”. Il tempo di Dio, i suoi ritmi, non sono i nostri”…Ai Tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte…” (Salmo 90,4) Pietro sottolineerà la stessa “sfasatura”: “…Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo…” ( 2 Pietro 3,8)
All’ansia di arrivare, deve sostituirsi la capacità di ascoltare. L’attesa è fatta di calma, pace, pazienza, libertà, tempi lunghi, capacità di resistere allo sconforto e alla delusione.
È necessario rendersi conto che nella preghiera niente viene concesso alla velocità, alla frenesia, all’agitazione. Niente arriva nel tempo che stabiliamo noi.
Dio si fa attendere. Dio sovente è in ritardo, ma soltanto sulla nostra fretta, non sulla Sua promessa. Tra noi e Lui si spalanca una distanza infinita. Non siamo noi che la copriamo. Soltanto Lui la può annullare. È Dio che si fa vicino. Nessun passo, da parte nostra, ci può condurre a raggiungerlo.
Sul nostro versante, l’unica possibilità che abbiamo è l’attesa.
Soltanto l’attesa riduce, in un certo senso, quella distanza abissale. È Dio che si muove verso di noi nella preghiera.
Attendere vuol dire, paradossalmente, essere consapevoli che… siamo attesi! Proprio così: sono io che aspetto e, nello stesso tempo, sono atteso. Nell’attesa rinunciamo a disporre del tempo. È il tempo che dispone di noi. Il tempo dell’attesa è il tempo della speranza. Si attende perché si spera. L’attesa è un ponte lanciato verso ciò che non c’è ancora, ma di cui sentiamo struggente il bisogno, verso una presenza possibile di cui non possiamo fare a meno. “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” (Salmo 130,6). Molto spesso ci aspettiamo un Dio “sorprendente”, che esaudisca ogni nostra richiesta in tempi brevi, secondo le nostre aspettative. Al contrario, il Dio “sorprendente” è l’opposto di un Dio ostaggio dei nostri piani. “Le vostre vie non sono le Mie vie” (Is.55,8).
Dovremmo preferire un Dio che ci sorprende ad un Dio che ci accontenta; dovremmo fidarci più delle Sue risposte che delle nostre domande, del Suo dono che delle nostre richieste.
Dovremmo fidarci di più delle Sue meraviglie che dei nostri desideri!
La vera preghiera non ci consegna un Dio alla nostra portata, largamente prevedibile, ma ci consente di aprire uno spiraglio sull’infinita libertà del Suo Amore.