La preghiera personale
Tratto da "La preghiera " IV
Autore: Autori Cristiani
LA PREGHIERA PERSONALE
La preghiera personale, nel Vangelo, si colloca in un luogo preciso: “Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt. 6,6). L’ invece sottolinea un atteggiamento opposto a quello degli “ipocriti, che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze”.
La parola d’ordine è “nel segreto”. A proposito della preghiera, c’è la contrapposizione marcata tra “piazza” e “camera”: Ossia tra ostentazione e segretezza. Esibizionismo e pudore. Frastuono e silenzio. La parola chiave, naturalmente, è quella che indica il destinatario della preghiera: “il Padre tuo…”.
La preghiera cristiana è basata sull’esperienza della paternità divina e della nostra figliolanza. La relazione da stabilire, quindi, è quella tra Padre e figlio. Ossia qualcosa di familiare, intimo, semplice, spontaneo. Ora, se nella preghiera cerchi gli sguardi altrui non puoi pretendere di attirare su di te anche l’attenzione di Dio.
Il Padre, “che vede nel segreto” non ha nulla a che fare con una preghiera destinata al pubblico, offerta in spettacolo devoto, edificante. Quello che conta è la relazione col Padre, il contatto che stabilisci con Lui.
La preghiera è vera soltanto se riesci a chiudere la porta, ossia a lasciar fuori qualsiasi altra preoccupazione che non sia quella d’incontrare Dio. L’amore – e la preghiera o è dialogo d’amore o non è nulla – va riscattato dalla superficialità, custodito nel segreto, sottratto agli sguardi indiscreti, protetto dalla curiosità.
Gesù suggerisce la frequentazione della “camera” tameion ), quale luogo sicuro per la preghiera personale dei “figli”: Il tameion era il locale della casa inaccessibile agli estranei, ripostiglio sotterraneo, rifugio dove si custodisce il tesoro, o, semplicemente, cantina.
I monaci antichi hanno preso alla lettera questa raccomandazione del Maestro ed hanno inventato la cella, luogo della preghiera individuale. Qualcuno fa derivare la parola cella da coelum.
Ossia, l’ambiente dove uno prega è una specie di cielo trasferito quaggiù, un anticipo della felicità eterna.
Noi, non solo siamo destinati al cielo, ma non possiamo vivere senza cielo. La terra diventa abitabile per l’uomo solo quando ritaglia ed accoglie almeno un pezzetto di cielo. Il grigio cupo della nostra esistenza di quaggiù può essere riscattato da regolari “trasfusioni d’azzurro”! La preghiera, appunto.
Altri affermano invece che la parola cella sia in rapporto al verbo celare (= nascondere). Ossia il luogo della preghiera nascosta, consegnata unicamente all’attenzione del Padre.
Intendiamoci: Gesù, quando parla del tameion, non propone una preghiera all’insegna dell’intimismo, di un individualismo compiaciuto ed esasperato. Il “Padre tuo”; è “tuo” soltanto se è di tutti, se diventa il Padre “nostro”. La solitudine non va confusa con l’isolamento. La solitudine risulta, necessariamente comunionale. Chi si rifugia nel tameion ritrova il Padre, ma anche i fratelli. Ti sottrae alla piazza, ma ti colloca al centro del mondo.
In piazza, nella sinagoga, puoi portare una maschera, puoi recitare parole vuote. Ma per pregare devi renderti conto che Lui vede quello che porti dentro. Quindi è proprio il caso di chiudere accuratamente la porta ed accettare quello sguardo in profondità, quel dialogo essenziale che ti rivela a te stesso.
° Pregare di più o pregare meglio?
Un equivoco sempre duro a morire è quello della quantità. In troppa pedagogia sulla preghiera domina ancora la preoccupazione, quasi ossessiva, del numero, delle dosi, delle scadenze.
È naturale allora che molte persone “religiose” compiano il goffo tentativo di far pendere la bilancia dalla loro parte, aggiungendo pratiche, devozioni, pii esercizi. Dio non è un contabile!
“…Lui sapeva quello che c’è in ogni uomo…” (Gv 2,25)
O, secondo un’altra traduzione: “…ciò che l’uomo porta dentro…” Dio riesce a vedere soltanto quello che l’uomo “porta dentro” quando prega. Una mistica d’oggi, Suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso, Carmelitana scalza, ammoniva: ” Date il cuore a Dio nella preghiera, anziché tante parole!”Si può e si deve pregare di più, senza per questo moltiplicare le preghiere. Il vuoto di preghiera, nella nostra vita, non lo si colma con la quantità, ma con l’autenticità e l’intensità della comunione.
Io prego di più quando imparo a pregare meglio.
Devo crescere nella preghiera, piuttosto che aumentare il numero delle preghiere. Amare non vuol dire ammucchiare la maggior quantità di parole, ma stare davanti all’Altro nella verità e trasparenza del proprio essere.
° Pregare il Padre
“…Quando pregate, dite: Padre…” (Lc 11,2).
Gesù ci invita ad usare esclusivamente questo nome nella preghiera: Padre. Anzi: Abbà! (papà).
“Padre” racchiude tutto ciò che possiamo esprimere nella preghiera. E contiene anche “l’inesprimibile”. Continuiamo quindi a ripetere, come in una litania incessante: “Abbà…abbà…”
Non è necessario aggiungere altro. Sentiremo crescere in noi la fiducia. Avvertiremo, attorno a noi, la presenza impegnativa di un numero sterminato di fratelli. Soprattutto, verremo afferrati dallo stupore di essere figli.
° Pregare la Madre
Quando pregate dite anche: ” Madre! ”
Nel quarto vangelo, Maria di Nazareth sembra aver perso il proprio nome. Infatti viene indicata esclusivamente col titolo di “Madre”. La “preghiera del nome di Maria” non può essere che questa: “Mamma … mamma…” Neppure qui esistono limiti. La litania, sempre uguale, può prolungarsi all’infinito, ma arriva certamente il momento in cui, dopo l’ultima invocazione “mamma”, avvertiamo la risposta tanto attesa, eppure sorprendente: “Gesù!”
Maria conduce sempre al Figlio.
° La preghiera come racconto confidenziale
“Signore, ho qualcosa da raccontarti. Ma è un segreto tra Te e me”.
La preghiera confidenziale può iniziale più o meno così e poi snodarsi sotto forma di racconto. Piano, semplice, spontaneo, in una tonalità dimessa, senza reticenze e anche senza amplificazioni.
È molto importante questo tipo di preghiera nella nostra società all’insegna dell’apparire, dell’esibizione, della vanità. L’amore ha bisogno soprattutto di umiltà, di pudore. L’amore non è più amore senza un contesto di segretezza, senza la dimensione di riservatezza. Ritrova, dunque, nella preghiera, la gioia del nascondimento, della non-appariscenza. Illumino veramente se riesco a nascondermi.
° Ho voglia di “litigare” con Dio
Abbiamo paura di dire al Signore, o riteniamo che sia sconveniente, tutto ciò che pensiamo, che ci tormenta, che ci agita, tutto ciò di cui non siamo affatto d’accordo con Lui. Pretendiamo di pregare “nella pace”. E non vogliamo prendere atto del fatto che, prima, bisogna attraversare la bufera. Si arriva alla docilità, all’obbedienza, dopo essere stati tentati dalla ribellione.
I rapporti con Dio diventano sereni, pacati, solo dopo che sono stati “burrascosi”. Tutta la Bibbia propone con insistenza il tema della contesa dell’uomo con Dio. L’Antico testamento ci presenta un “campione della fede”, quale Abramo, che si rivolge a Dio con una preghiera che sfiora la temerarietà. La stessa preghiera di Mosè, talvolta, assume le caratteristiche di una sfida. Mosè, in certe circostanze, non esita a protestare con foga davanti a Dio. La sua preghiera dimostra una familiarità che ci lascia sconcertati.
Anche Gesù, nel momento della prova suprema, si rivolge al Padre dicendo: ” Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc. 15.34). Sembra quasi un rimprovero. Tuttavia occorre notare il paradosso: Dio resta “mio” anche se mi ha abbandonato.
Anche un Dio lontano, impassibile, che non risponde, non si commuove e mi lascia solo in una situazione impossibile, è sempre “mio”. Meglio lamentarsi che fingere la rassegnazione.
La tonalità del lamento, con accenti drammatici, è presente in parecchi Salmi. Scoccano due domande tormentose: Perché? Fino a quando?
I Salmi, proprio perché sono espressione di una fede robusta, non esitano ad impiegare questi accenti, che apparentemente infrangono le regole della “buona educazione” nei rapporti con Dio. Qualche volta è solo opponendosi a lungo che si riesce a cadere, finalmente e felicemente arresi, tra le braccia di Dio.
° Pregare come una pietra
Ti senti freddo, arido, svogliato. Non hai nulla da dire. Un grande vuoto dentro. La volontà inceppata, i sentimenti congelati, gli ideali dissolti. Non hai voglia neppure di protestare.
Ti sembra inutile. Non sapresti nemmeno cosa chiedere al Signore: non ne vale la pena. Ecco, devi imparare a pregare come un sasso. Meglio ancora, come un macigno. Limitarti a stare lì, come sei, col come un macigno. Limitarti a stare lì, come sei, col tuo vuoto, la nausea, l’avvilimento, la non voglia di pregare.
Pregare come un sasso significa semplicemente mantenere la posizione, non abbandonare il posto “inutile”, esserci senza motivo apparente. Il Signore, in certi momenti che tu sai e che Lui sa meglio di te, si accontenta di vedere che stai lì, inerte, a dispetto di tutto.
Importante, almeno qualche volta, non essere altrove.
° Pregare con le lacrime
È una preghiera silenziosa.
Le lacrime interrompono sia il flusso delle parole che quello dei pensieri, e perfino quello delle proteste, dei lamenti.
Dio ti lascia piangere. Prende sul serio le tue lacrime. Anzi, le conserva, gelosamente, ad una ad una. Ce lo assicura il Salmo 56: “…Le mie lacrime nell’otre Tuo raccogli…” Neppure una va persa. Neppure una viene dimenticata. È il tuo tesoro più prezioso. E sta in buone mani. Te lo ritroverai sicuramente.
Le lacrime denunciano che sei sinceramente dispiaciuto, non per aver trasgredito una legge, ma per aver tradito l’amore.
Il pianto è espressione di pentimento, serve a lavarti gli occhi, a purificare lo sguardo.
Dopo, vedrai con più chiarezza il cammino da percorrere. Identificherai con maggior attenzione i pericoli da evitare. “…Beati voi che piangete…” (Lc 7.21). Con le lacrime non pretendi da Dio delle spiegazioni. Gli confessi che ti fidi!
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