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Croce e risurrezione nel lavoro

Lavorare bene, lavorare per amore - IX (parte 1)

Autore: Javier López Díaz

Con la luce ricevuta da Dio, san Josemaría comprese sino in fondo il significato del lavoro nella vita del cristiano chiamato a identificarsi con Cristo in mezzo al mondo. Gli anni di Gesù a Nazaret gli apparivano pieni di significato nel considerare che, nelle sue mani, «il lavoro, un lavoro professionale simile a quello di milioni di uomini in tutto il mondo, si converte in una impresa divina, in una attività redentrice, in un cammino di salvezza» .
La consapevolezza che il cristiano, grazie al Battesimo, è figlio di Dio e partecipe del sacerdozio di Gesù Cristo, lo portava a contemplare nel lavoro di Gesù il modello della nostra attività professionale. Un modello vivo che si deve plasmare in noi, e non semplicemente un esempio da imitare. Più che lavorare come Cristo, il cristiano è chiamato a lavorare in Cristo, intimamente unito a Lui.

Per questo siamo interessati a contemplare con molta attenzione il lavoro del Signore a Nazaret. Non basta uno sguardo superficiale. È necessario considerare l’unione della sua attività quotidiana con il dono della sua vita sulla Croce e con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo, perché solo così potremo scoprire che il suo lavoro – e il nostro, nella misura in cui stiamo uniti a Lui – è redentore e santificatore.
L’uomo è stato creato per amare Dio, e l’amore si manifesta nel compimento della sua Volontà, con un’obbedienza di figlio. Però l’uomo, fin dall’inizio, ha disobbedito e, a causa della disobbedienza, il dolore e la morte sono entrati nel mondo. Il Figlio di Dio ha assunto la nostra natura per riparare al peccato, obbedendo perfettamente con la sua volontà umana alla Volontà divina. «Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» .

Il Sacrificio del Calvario è il culmine dell’obbedienza di Cristo al Padre: «si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce» . Nell’accettare liberamente il dolore e la morte – le due cose che sono più contrarie agli aneliti naturali della volontà umana –, Gesù ha manifestato nel modo più alto che non è venuto per fare la sua volontà ma la Volontà di Colui che lo ha inviato . Però la donazione del Signore nella sua Passione e morte di Croce non è un atto isolato di obbedienza per Amore; è la suprema espressione di un’obbedienza piena e assoluta che è stata presente durante tutta la sua vita, con manifestazioni sempre diverse: «Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua Volontà» .
A dodici anni, quando Maria e Giuseppe lo trovarono nel Tempio fra i dottori dopo tre giorni di ricerca, Gesù rispose: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» . Il Vangelo non dice altro sulla sua vita nascosta, salvo che obbediva a Giuseppe e a Maria – «stava loro sottomesso» – e che lavorava: era «il carpentiere» .
Tuttavia, le parole di Gesù nel Tempio illuminano gli anni di Nazaret. Indicano che, quando obbediva ai suoi genitori e quando lavorava, «si occupava delle cose di suo Padre», compiva la Volontà divina. E come rimanendo nel Tempio non evitò di soffrire per tre giorni – tre, come nel triduo pasquale –, perché sapeva della sofferenza dei suoi genitori che lo cercavano afflitti, neppure evitò le difficoltà che comporta il compimento del dovere nel lavoro e in tutta la vita ordinaria.

Quella di Nazaret non era una obbedienza minore, ma la medesima disposizione interiore che lo indusse a dare la vita sul Calvario. Una obbedienza con tutte le energie umane, con una piena identificazione in ogni momento con la Volontà divina. Sul Calvario si manifestò spargendo tutto il suo Sangue; a Nazaret, donandolo giorno dopo giorno, goccia dopo goccia, nel suo lavoro di artigiano che costruisce strumenti per coltivare i campi o utili per la casa.
«Era noto come faber, filius Mariae (Mc 6, 3), l’artigiano, figlio di Maria. Ed era Dio e stava compiendo la Redenzione del genere umano, attirando a sé tutte le cose (Gv 12,32)» . Il valore redentivo della vita di Gesù a Nazaret non si può intendere se lo si separa dalla Croce, se non si comprende che nel suo lavoro quotidiano compiva alla perfezione la Volontà del Padre, per Amore, disposto a consumare sul Calvario la sua obbedienza .
Proprio per questo, quando arriva il momento supremo del Golgota, il Signore offre l’intera sua vita, e anche il lavoro di Nazaret. La Croce è l’ultima pietra della sua obbedienza, come la chiave di un arco in una cattedrale: quella pietra che non solo si sostiene nelle altre ma che con il suo peso mantiene la coesione delle altre. Anche così il compimento della Volontà divina nella vita ordinaria di Gesù possiede tutta la forza dell’obbedienza della Croce; e, nello stesso tempo, culmina in essa, la sostiene, e per suo mezzo s’innalza al Padre in Sacrificio redentore per tutti gli uomini.
L’adempimento del dovere «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» . Seguire Cristo nel lavoro quotidiano significa compiere lì la Volontà divina con la stessa obbedienza di Cristo: «usque ad mortem», fino alla morte . Questo non significa soltanto che il cristiano dev’essere disposto a morire prima di peccare. È molto di più. In ogni momento deve fare in modo di morire al proprio egoismo, per assumere la Volontà di Dio.

Gesù ha di suo nella volontà umana le inclinazioni buone e rette della nostra natura, e questo lo offre al Padre nell’Orto degli Ulivi quando prega: «non sia fatta la mia, ma la tua volontà» . In noi, invece, la volontà personale è spesso egoismo, un amore disordinato a se stesso. Il Signore non lo aveva in sé, ma lo caricò su di sé sulla Croce per redimerci.
Da parte nostra, con la sua grazia, possiamo offrire a Dio la lotta per amore contro l’egoismo che si annida nei nostri cuori. Per identificarsi con la Volontà divina ognuno dev’essere in condizioni di dire, come san Paolo, «sono crocifisso con Cristo» .
«Bisogna darsi totalmente, bisogna rinunciare a se stessi totalmente: è necessario che il sacrificio divenga olocausto» . Non si tratta di rinunciare a ideali e progetti nobili, ma di ordinarli sempre al compimento della Volontà di Dio. Egli vuole che noi facciamo rendere i talenti che ci ha concesso. L’obbedienza e il sacrificio della propria volontà nel lavoro consiste nell’impiegarli per la sua gloria e nel servizio agli altri, non per vanagloria e per interesse personale.

Dio, come vuole che usiamo i talenti? Che cosa dobbiamo fare per compiere la sua Volontà nel nostro lavoro? A questa domanda si può rispondere brevemente, se si capisce bene tutto ciò che è implicito nella risposta: Dio vuole che compiamo il nostro dovere. «Vuoi davvero essere santo? – Compi il piccolo dovere d’ogni momento: fa’ quello che devi e sta’ in quello che fai» .
La Volontà di Dio si manifesta nei doveri della vita ordinaria. Per sua natura, il compimento del dovere richiede che si sottometta la propria volontà a quello che si deve fare, e questo costituisce il fondamento dell’obbedienza di un figlio di Dio. Perciò non si deve prendere come norma suprema di condotta il proprio gusto, le proprie inclinazioni o ciò che fa piacere, ma quello che Dio vuole: che compiamo i nostri doveri.
Quali? Il lavoro stesso è un dovere indicato da Dio fin dal principio, e per far questo dobbiamo cominciare con il lottare contro la pigrizia. Poi, questo dovere generale si concretizza per ognuno nella professione che svolge, in accordo con la propria vocazione professionale che fa parte della propria vocazione divina , con alcuni obblighi specifici. Tra essi, le esigenze generali della morale professionale, fondamentali nella vita cristiana, e altre che derivano della situazione di ciascuno.

Adempire questi doveri è Volontà di Dio, perché Egli ha creato l’uomo perché con il suo lavoro perfezionasse la creazione, e questo comporta, nel caso dei comuni fedeli, che si compiano le attività temporali con perfezione, in accordo con le loro leggi, e per il bene delle persone, della famiglia e della società: un bene che si scopre con la ragione e, in modo più sicuro e completo, con la ragione illuminata dalla fede viva, «la fede che opera per mezzo della carità» .

Comportarsi così, adempiendo la Volontà di Dio, vuol dire avere buona volontà. Certe volte questo può richiedere eroismo, e certamente in ogni caso si richiede eroismo nel curare le piccole cose di ogni giorno. Un eroismo che Dio benedice con la pace e la gioia del cuore: «pace in terra agli uomini che Egli ama» ; «gli ordini del Signore […] fanno gioire il cuore» .

L’ideale cristiano del compimento del dovere non consiste nella persona diligente che compie strettamente i propri obblighi di giustizia. Un figlio di Dio ha un concetto molto più ampio e profondo del dovere. È convinto che lo stesso amore sia il primo dovere, il primo mandato della Volontà divina. Per questo cerca di compiere per amore e con amore i doveri professionali di giustizia; o meglio, si prodiga in questi doveri. Dato che questo amore – la carità dei figli di Dio – è l’essenza della santità, si comprende perché san Josemaría insegna che essere santi si riassume nel compiere il dovere momento per momento.

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