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Il talento professionale: essere luce per gli uomini

Tratto da "Lavorare bene, lavorare per amore" - XIII

Autore: Javier López Díaz

«La vocazione cristiana è per sua natura anche vocazione all’apostolato». Come ai primi discepoli, Cristo ci ha chiamati perché lo seguissimo e gli portassimo altre anime: «seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini».

Facendo tesoro di questo paragone del Signore, san Josemaría insegna che il prestigio professionale ha una precisa funzione nei disegni di Dio per coloro che sono stati chiamati a santificare gli altri con il proprio lavoro: è un importante mezzo di apostolato, un «amo di pescatore
d’uomini».

Per questo, a coloro che si avvicinano alla formazione data dall’Opus Dei, suggerisce di cercare il prestigio nella loro professione: «Anche tu hai una vocazione professionale che ti “sprona”. – Ebbene, questo “sprone” è l’amo per pescare uomini. Rettifica, pertanto, l’intenzione, e non trascurare di acquisire tutto il prestigio professionale possibile, al servizio di Dio e delle anime. Il Signore conta anche su questo».
Dio ha creato tutte le cose per manifestare e comunicare la sua gloria e, nel far sì che il nostro lavoro sia una partecipazione al suo potere creatore, ha voluto che rifletta la sua gloria davanti agli altri. «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

La santificazione del lavoro professionale richiede che lo realizziamo con perfezione, per amore a Dio, e che questa perfezione per amore sia una luce capace di attrarre verso Dio coloro che ci stanno attorno.
Non dovremmo cercare la nostra gloria, ma la gloria di Dio, come recita il salmo: Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam: «non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria». Quante occasioni per ripetere queste parole! «Deo omnis gloria. – A Dio tutta la gloria […]. La nostra vanagloria sarebbe appunto questo: gloria vana; sarebbe un furto sacrilego; l’ “io” non deve comparire da nessuna parte».

In molti casi sarà necessario rettificare l’intenzione. Ma un figlio di Dio non deve trascurare di mirare al prestigio professionale per timore di scadere nella vanagloria o di non essere umile, perché è una qualità che serve alla missione apostolica propria dei laici, un talento che si deve far rendere.
Il Magistero della Chiesa ricorda che i laici «si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in tutti i campi» . «I fedeli laici devono compiere il loro lavoro con competenza professionale, con onestà umana, con spirito cristiano, come via della propria santificazione».

San Josemaría invita a considerare che il prestigio professionale non impedisce l’umiltà: «Dato che il lavoro è il cardine della nostra santità, dovremmo raggiungere un prestigio professionale e, ognuno nel suo posto e nella sua condizione sociale, si vedrà circondato dalla dignità e dal buon nome che competono ai suoi meriti, guadagnati in onesta competizione con i colleghi, con i compagni di mansione o di professione». La nostra umiltà non consiste nel mostrarci intimiditi, smarriti o privi di audacia nel nobile campo degli aneliti umani. Con spirito soprannaturale, con desiderio di servizio – con spirito cristiano di servizio –, dobbiamo fare in modo di rimanere tra i primi, nel gruppo dei nostri simili.

Alcuni, con una mentalità poco laicale, concepiscono l’umiltà come mancanza di disinvoltura, come una indecisione che impedisce di agire, come una rinuncia dei diritti – a volte dei diritti della verità e della giustizia –, al fine di non disgustare nessuno e risultare amabile a tutti.
Perciò alcuni non comprenderanno la nostra pratica dell’umiltà profonda – autentica –, e persino la chiameranno orgoglio. Si è molto deformato il concetto cristiano di questa virtù, forse nel tentativo di applicare al suo esercizio, nel bel mezzo della strada, modalità di natura conventuale, che non possono andar bene ai cristiani che devono vivere, per vocazione, nei crocevia del mondo».
Il prestigio professionale di un cristiano non consiste necessariamente nel successo. È vero che il successo umano è simile a una luce che attrae le folle; ma se, quando si avvicinano a una persona di successo non trovano il cristiano, l’uomo dal cuore umile e innamorato di Dio, ma il presuntuoso orgoglioso di sé, allora accade ciò che descrive un punto di Cammino: «Da lontano attrai: hai luce. – Da vicino, respingi: ti manca calore. – Che pena!».

Il prestigio che serve per portare anime a Dio è quello delle virtù cristiane, vivificate dalla carità: il prestigio della persona lavoratrice, competente nella sua attività, giusta, allegra, nobile e leale, onesta, amabile, sincera, servizievole…, virtù che possono essere vive sia in caso di successo che di insuccesso umano. È il prestigio di chi coltiva giorno dopo giorno queste qualità per amore a Dio e agli altri.
San Josemaría ha scritto che «il lavoro nasce dall’amore, manifesta l’amore, è ordinato all’amore». La stessa cosa si deve dire del prestigio nel lavoro: «nasce dall’amore», perché questo dev’essere il motivo che porta a procurarselo, non la vanità o l’egocentrismo; «manifesta l’amore», perché in ogni cristiano che ha prestigio professionale dev’essere evidente lo spirito di servizio; «è ordinato all’amore» perché il prestigio non deve diventare il fine del lavoro, ma il mezzo per avvicinare anime a Dio, concretamente e quotidianamente.

Un prestigio professionale senza frutti apostolici sarebbe un prestigio sterile, una luce che non illumina. Il prestigio dev’essere come l’amo del pescatore, e si può forse dire di uno che è pescatore, se non adopera gli strumenti per la pesca? Non è un gioiello da guardare e riguardare, come un avaro custodisce i suoi tesori, ma da usare al servizio di Dio, senza paura.
Non bisogna ignorare i rischi. Grazie al loro prestigio professionale, i cristiani possono avvicinare persone che, appena si parla loro di Dio, fanno un passo indietro e non li apprezzano più come prima. Addirittura, com’è noto, in certi ambienti – club, gruppi, società influenti… – si aprono le porte a professionisti di prestigio, offrendo vantaggi di relazioni e di appoggi reciproci, a condizione che non manifestino la loro fede, accettando implicitamente una vita impostata in modo tale che la religione resti confinata alla sfera privata. Giustificano un atteggiamento del genere con il rispetto della libertà, ma in pratica escludono che esista la verità in materia religiosa;
in tal modo, in questi ambienti, la verità e la libertà muoiono insieme, perché si rompe il vincolo indicato dal Signore: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». In questi club, laicisti per costituzione, nei quali è proibito – questa è la parola che rispecchia la realtà – parlare di Dio e, in definitiva, fare apostolato, non si vede come possa essere presente un cristiano, obbligato a lasciare fuori la propria fede come si lascia un cappello alla porta.

La conclusione non può essere che ci si debba isolare, ma che si debba mettere in atto una attività apostolica più audace, con la forza e la gioia dei figli di Dio che hanno ricevuto questo mondo in eredità per possederlo e configurarlo. Un lavoro basato sull’apostolato personale di amicizia e di confidenza, capace anche di creare ambienti aperti e liberi che non hanno bisogno di etichette confessionali, nei quali sia possibile dialogare e collaborare con tutte le persone di buona volontà che vogliono costruire una società adeguata alla dignità trascendente della persona umana. Non è un compito facile, ma è irrinunciabile. Il cristiano deve conquistare il prestigio professionale e deve saperlo impiegare per infondere nella società lo spirito cristiano.
Durante gli anni di vita trascorsi a Nazaret, Gesù «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini». Il Vangelo ci dice anche che era conosciuto come «l’artigiano».
Basta unire questi due dati per constatare il prestigio di cui godeva il Signore nel suo lavoro.

Nella sua quotidiana attività di carpentiere, pur senza realizzare prodigi straordinari, i suoi concittadini notavano che cresceva non solo in età, ma anche in sapienza e in grazia. Quanti dettagli raccolgono queste parole! Nel modo di trattare le persone, di ricevere le commissioni e di compierle con maestria professionale, di praticare la giustizia con carità, di servire gli altri, di lavorare ordinatamente e intensamente, di riposare e di fare in modo che gli altri riposassero…; nella sua serenità, nella sua pace, nella sua gioia, e in ogni sua attività, si percepiva un qualcosa che attraeva, che invitava ad avere una relazione con Lui, a confidare in Lui e a seguirne l’esempio: l’esempio di un uomo che vedevano così umano e così divino, che trasmetteva amore a Dio e amore agli uomini, che li faceva sentire in cielo e sulla terra nello stesso tempo, incoraggiandoli a diventare migliori. Come sarebbe diverso il mondo – avranno pensato molti di loro – se cercassimo di essere come Gesù nel nostro lavoro! Come sarebbe diversa la vita nelle città e nelle campagne!

La crescita di Gesù in età, sapienza e grazia, il progressivo manifestarsi della pienezza di vita divina che riempiva la sua natura umana fin dal momento dell’Incarnazione, avveniva durante un lavoro tanto comune come quello di carpentiere. «Davanti a Dio, nessuna occupazione è di per sé grande o piccola. Ogni cosa acquista il valore dell’Amore con cui viene realizzata».
Il prestigio professionale, alla fin fine, è la manifestazione dell’amore con il quale si compie il lavoro. È una qualità della persona, non dell’attività che si svolge. Non consiste nel dedicarsi a una professione prestigiosa agli occhi umani, ma nel compiere in modo prestigioso una qualsiasi professione, brillante o meno.

Gli uomini, invece, considerano alcune attività più brillanti di altre, come, ad esempio quelle che comportano l’esercizio dell’autorità nella società o quelle che hanno una maggiore influenza nella cultura o una maggiore ripercussione sui mezzi di comunicazione, nello sport, ecc.
Proprio per questo – perché godono di una maggiore considerazione e di una maggiore influenza nella società –, è più necessario che coloro che li esercitano abbiano un prestigio non solo tecnico ma morale: un prestigio professionale cristiano. È di estrema importanza che i figli di Dio pratichino con prestigio queste attività dalle quali in buona misura dipende il tono della nostra società.
In genere sono gli intellettuali coloro che le praticano, e per questo «dobbiamo fare in modo che, in tutte le attività intellettuali, vi siano persone rette, di autentica coscienza cristiana, dalla vita coerente, che impieghino le armi della scienza al servizio dell’umanità e della Chiesa». San Josemaría lo ha molto presente quando scrive, spiegando l’attività apostolica dell’Opus Dei, che «ci ha scelti lo stesso Cristo, affinché in mezzo al mondo – nel quale ci ha posti e dal quale non ha voluto segregarci – cerchiamo la santificazione ciascuno nel proprio stato e – insegnando, con la testimonianza della vita e della parola, che la chiamata alla santità è universale – promuoviamo fra persone di tutte le condizioni sociali, e specialmente fra gli intellettuali, la perfezione cristiana in seno alla stessa vita civile».

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