Il lavoro del cristiano, contributo per la felicita'
Lavorare bene, lavorare per amore - XV
Autore: Javier López Díaz
La società è come un intreccio di relazioni tra gli uomini. Il lavoro, la famiglia e le altre congiunture della vita creano una rete di vincoli nella quale la nostra esistenza si trova quasi intessuta , sicché quando cerchiamo di santificare una concreta professione, una particolare situazione familiare o il resto dei doveri ordinari, non stiamo santificando una fibra isolata, ma l’intero tessuto sociale.
Questo impegno di santificazione trasforma i cristiani in un potente fermento capace di trasformare il mondo perché rifletta meglio l’amore con il quale è stato creato. Quando la carità è presente in una qualunque attività umana, si riducono gli spazi dell’egoismo, il principale fattore di disordine nell’uomo, nelle sue relazioni con gli altri e con le cose.
Portatori dell’Amore del Padre in mezzo alla società, i fedeli laici «ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico».
L’efficacia trasformatrice di questo lievito cristiano dipende, in gran parte, dal fatto che ognuno faccia in modo da raggiungere una preparazione adeguata al proprio lavoro. Essa non deve limitarsi all’istruzione specifica – tecnica o intellettuale – richiesta da ogni professione. Vi sono altri aspetti che sono imprescindibili per raggiungere una vera “competenza” umana e cristiana, e hanno un’influenza assai diretta sulle relazioni che traggono origine dal lavoro e che
sono fondamentali per ordinare a Dio il tessuto sociale.
Il cristiano che è chiamato a santificarsi nella sua professione dev’essere del mondo ma non mondano. Deve cercare il benessere temporale senza considerarlo il bene supremo. Deve riconoscere con realismo la presenza del male, senza scoraggiarsi quando lo incontra sulla propria strada, cercando, invece, di riparare e di lottare con maggiore impegno per purificarla dal peccato. «Non deve mancare mai l’entusiasmo, né nel vostro lavoro né nel vostro impegno nel costruire la città temporale. Anche se, nello stesso tempo, come discepoli di Cristo che hanno crocifisso la carne con le passioni e le concupiscenze personali (cfr. Gal 5, 24), farete in modo da
mantenere vivo il senso del peccato e della riparazione generosa, a fronte dei falsi ottimismi di coloro che, nemici della Croce di Cristo (Fil 3, 18), valutano ogni cosa in chiave di progresso e di energie umane».
“Essere del mondo”, in senso positivo, porta «ad avere spirito contemplativo in mezzo a tutte le attività umane […], facendo diventare realtà questo programma: quanto più siamo immersi nel mondo, tanto più dobbiamo essere di Dio». Questo anelito, lungi dal provocare un tirarsi indietro viste le difficoltà dell’ambiente, spinge a una maggiore audacia, frutto di una presenza di Dio più intensa e costante. Proprio perché siamo del mondo e siamo di Dio, non possiamo rinchiuderci in noi stessi: «non è lecito ai cristiani abbandonare la loro missione nel mondo, come all’anima non è permesso separarsi volontariamente dal corpo». Per san Josemaría questo compito di cittadini cristiani consiste nel «contribuire a far sì che l’amore e la libertà di Cristo presiedano tutte le manifestazioni della vita moderna: la cultura e l’economia, il lavoro e il riposo, la vita di famiglia e la convivenza sociale».
Una manifestazione profonda dello spirito cristiano sta nel riconoscere che la piena felicità umana si trova nell’unione con Dio, non nel possesso di beni terreni. È esattamente il contrario dell’essere mondani. Il mondano mette tutto il cuore nei beni di questo mondo, senza ricordare che sono fatti per condurlo al Creatore. Può darsi che qualche volta, vista l’esperienza di persone che, lontane da Dio, sembra che abbiano trovato la felicità nei beni che posseggono, venga in mente che l’unione con Dio non sia l’unica fonte di gioia completa. Però non dobbiamo ingannarci.
Si tratta di una felicità spesso superficiale e non priva di preoccupazioni. Queste stesse persone sarebbero incomparabilmente più felici, già su questa terra e dopo pienamente in Cielo, se frequentassero Dio e ordinassero alla sua gloria l’uso di questi beni. La loro non sarebbe più una felicità fragile, esposta a tante eventualità, e non temerebbero – con un timore che toglie la pace – che un giorno venissero a mancare loro questi o quei beni, né li spaventerebbe la realtà del dolore e della morte.
Le beatitudini del Sermone della montagna – «beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti…, quelli che hanno fame e sete della giustizia…, i perseguitati per causa della giustizia…» – rivelano che la piena felicità (la beatitudine) non si trova nei beni di questo mondo. San Josemaría si rammaricava che a volte «si ingannano le anime. Si parla loro di una liberazione che non è quella di Cristo. Gli insegnamenti
di Gesù, il suo Sermone della Montagna, quelle beatitudini che sono una meraviglia dell’amore divino, si ignorano. Si cerca esclusivamente una felicità terrena, che non è possibile ottenere in questo mondo».
Le parole del Signore, tuttavia, non giustificano una visione negativa dei beni terreni, come se fossero cattivi o d’impedimento per raggiungere il Cielo. Non sono di ostacolo, ma materia di santificazione e il Signore non invita a respingerli. Insegna piuttosto che l’unica cosa necessaria per la santità e la felicità è amare Dio. Chi non dispone di questi beni o chi soffre deve sapere non solo che la piena gioia appartiene al Cielo, ma che già su questa terra può avere un anticipo della felicità del Cielo, perché il dolore e, in generale, la mancanza di un bene terreno ha un valore redentore se viene accolto come la Croce di Cristo.
Un figlio di Dio dovrebbe avere un «anima sacerdotale», perché è stato fatto partecipe del sacerdozio di Cristo per corredimere con Lui. Nell’insegnamento di san Josemaría, quando si rivolge a coloro che sono chiamati a santificarsi in mezzo al mondo, questa caratteristica si trova intrinsecamente unita alla «mentalità laicale», che induce a compiere il lavoro e le diverse attività con competenza, secondo le leggi che sono loro proprie, volute da Dio.
Nel quadro delle norme di morale professionale, vi sono molti modi di portare a termine il lavoro secondo il volere di Dio. Esiste un gran numero di opzioni, tutte quante santificabili, tra le quali ognuno può scegliere con libertà. Ciò è tipico della vocazione laicale e fa sì che la partecipazione di ciascuno alla vita sociale possa essere originale e irripetibile.
Non dobbiamo privare gli altri dell’esercizio della nostra libertà, fonte di creatività e di iniziative di servizio. Far proprio sino in fondo questo aspetto è una caratteristica essenziale dello spirito che san Josemaría trasmette: «Libertà, figli miei, libertà, che è la chiave di quella mentalità laicale che tutti noi abbiamo».
L’anima sacerdotale e la mentalità laicale sono due aspetti inseparabili nel cammino di santità che egli insegna. «Noi tutti, sia i sacerdoti che i laici, dobbiamo avere anima veramente sacerdotale e mentalità pienamente laicale, per poter comprendere ed esercitare nella nostra vita la libertà della quale godiamo nell’ambito della Chiesa e nelle cose temporali, considerandoci nel medesimo tempo cittadini della città di Dio (cfr. Ef 2, 19) e della città degli uomini».
Per essere fermento di spirito cristiano nella società è necessario che nella nostra vita avvenga questa unione, in modo che tutta la nostra attività professionale, compiuta con mentalità laicale, sia permeata di anima sacerdotale.
Un chiaro segno di tale unione è porre in primo luogo la relazione con Dio, la pietà, concretizzata in un piano di vita spirituale. Abbiamo bisogno di alimentare l’Amore come impulso vitale della nostra vita, perché non è possibile lavorare realmente per Dio senza una vita interiore sempre più profonda. Come ricordava san Josemaría, «se non avete vita interiore, quando vi dedicate al vostro lavoro, invece di divinizzarlo, vi potrebbe succedere ciò che succede al ferro quando è al rosso e si mette nell’acqua fredda: perde la tempra e si spegne. Dovete avere un fuoco che venga da dentro, che non si spenga, che accenda tutto quello che tocca. Per questo ho potuto dire che non voglio nessuna opera, nessun lavoro, se i miei figli non migliorano in esso. Misuro l’efficacia e il valore delle opere dal grado di santità che acquistano gli strumenti che le realizzano».
Con la stessa forza con cui prima vi invitavo a lavorare, e a lavorare bene, senza paura di stancarvi, con questa stessa insistenza, vi invito ora ad avere vita interiore. Mai mi stancherò di ripeterlo: le nostre Norme di pietà, la nostra orazione, sono la prima cosa. Senza lotta ascetica, la nostra vita non varrebbe niente, saremmo inefficaci, pecore senza pastore, ciechi che guidano altri ciechi (cfr. Mt 9, 36; 15, 4)».
Perché il fermento non si alteri, deve avere la forza di Dio. Egli è Colui che trasforma le persone e l’ambiente che ci circonda. Solo se rimaniamo uniti a Lui saremo veramente fermento di santità. Diversamente, staremo nella massa come semplice massa, senza quel contributo che ci si attende dal lievito. L’impegno di osservare un piano di vita spirituale finirà col produrre il miracolo dell’azione trasformatrice di Dio: prima in noi stessi, dato che il piano è un cammino di unione con Lui, e, come conseguenza, negli altri, nell’intera società.