Lavorare coscenziosamente
Lavorare bene, lavorare per amore - II (parte 1)
Autore: Javier López Díaz
«Se vogliamo davvero santificare il lavoro, dobbiamo inevitabilmente soddisfare la prima condizione: lavorare – e lavorare bene! -, con serietà umana e soprannaturale».
Abbiamo già visto che lavorare per un «motivo soprannaturale» è l’anima della santificazione del lavoro . Ora ci soffermeremo a considerare che la ” materia ” alla quale dà vita qest’ anima è il lavoro ben fatto. Il motivo soprannaturale, se è autentico amore a Dio e al prossimo, richiede necessariamente che ci sforziamo di compiere il nostro lavoro il meglio possibile.
San Josemaría insegna che la santificazione del lavoro richiede una buona realizzazione del lavoro stesso, la sua perfezione umana, il buon compimento di tutti gli obblighi professionali, insieme con quelli familiari e sociali. È indispensabile lavorare coscienziosamente, con senso di responsabilità, con amore e perseveranza, senza trascuratezze o leggerezze.
Per meditare con frutto questo insegnamento è bene osservare che, quando raccomandiamo di “lavorare bene”, ci riferiamo anzitutto all’atto di lavorare, non al risultato del lavoro.
Può succedere che si lavori bene e, tuttavia, il prodotto riesca male, o per un errore involontario o per cause che non dipendono da noi. In questi casi – che si presentano spesso – appare chiaramente la differenza tra chi lavora con un senso cristiano e chi cerca soprattutto il successo umano. Per il primo, ciò che ha valore è, anzitutto, la stessa attività di lavorare e, anche se non si è ottenuto un buon risultato, sa che non si è perduto nulla di ciò che ha cercato di fare bene per amore a Dio e col desiderio di corredimere con Cristo; per questo non si avvilisce per le contrarietà e, nel tentativo di superarle, vede in questo la possibilità di unirsi di più alla Croce del Signore. Per il secondo, invece, se non è riuscito bene, tutto è andato in malora. Evidentemente, chi pensasse in questo modo non potrà mai capire che significa
santificare il lavoro. Lavorare coscienziosamente vuol dire lavorare con perfezione umana per un motivo soprannaturale. Non si tratta di lavorare umanamente bene e “poi” aggiungere un motivo soprannaturale. È qualcosa di più profondo, proprio perché è l’amore a Dio che deve indurre un cristiano a realizzare con perfezione il proprio lavoro, perché «non possiamo offrire al Signore cose che, pur con le povere limitazioni umane, non siano perfette, senza macchia, compiute con attenzione anche nei minimi particolari: Dio non accetta le raffazzonature. Non offrirete nulla con qualche difetto, ammonisce la Sacra Scrittura, perché non sarebbe gradito (Lv 22, 20)» .
Quando si cerca di fare le cose in questo modo, è normale che il lavoro venga bene e si ottengano buoni risultati. Non solo, ma accade spesso che chi si sforza di santificare il lavoro emerga sul piano professionale tra i suoi simili, perché l’amore a Dio spinge a «prodigarsi volentieri e sempre, nel dovere e nel sacrificio» . Però non si deve dimenticare che alle volte Dio permette contrarietà e insuccessi umani affinché purifichiamo l’intenzione e partecipiamo alla Croce del Signore. Questo non significa che non si sia lavorato bene e non si sia santificato quel lavoro.
Per lavorare bene bisogna praticare le virtù umane modellate dalla carità. «Nello svolgere il nostro compito, decisi a santificarlo, entra in gioco tutto un contesto di virtù: la fortezza, per perseverare nel lavoro, nonostante le naturali difficoltà, e per non lasciarsi mai vincere dal loro peso; la temperanza, per spendersi senza riserve superando la comodità e l’egoismo; la giustizia,
per compiere i nostri doveri verso Dio, verso la società, la famiglia, i colleghi; la prudenza, per sapere in ogni circostanza che cosa conviene fare e metterci all’opera senza indugi… E tutto, insisto, per Amore».
Tutte le virtù umane sono necessarie, perché formano un tessuto nel quale i fili si rafforzano l’un l’altro. Però esiste un ordine tra loro: alcuni fili si mettono prima di altri, come si fa quando si tesse un arazzo.
Dato che la prima condizione è lavorare e lavorare bene, si capisce perché san Josemaría sottolinea che «due virtù umane – laboriosità e diligenza – si confondono in una sola: l’impegno di mettere a frutto i talenti che ciascuno ha ricevuto da Dio» .
Come nella parabola del Vangelo, il Signore ha concesso a ciascuno i talenti necessari per compiere la missione di metterlo al centro delle attività umane santificando la professione. Non è lecito comportarsi come il servo malvagio e infingardo che ha sotterrato il talento ricevuto. Dio vuole che facciamo rendere, per amore suo, i doni che ci ha dato. Proprio per questo dobbiamo lavorare con impegno e costanza, in modo rigoroso, con qualità umana, mettendo tutto l’impegno necessario.
La laboriosità e la diligenza inducono, insieme, ad affrontare il lavoro che si deve fare – non qualunque cosa o quello che si preferisce – e a realizzarlo come e quando si deve.
«La persona laboriosa utilizza con profitto il tempo, che non è solo denaro, è gloria di Dio. Fa quello che deve e si impegna in quello che fa, non per abitudine o per riempire le ore, ma come frutto di riflessione attenta e ponderata. Pertanto è diligente. Nell’uso attuale, la parola diligente ci ricorda la sua origine latina. Essa deriva dal verbo diligere, che significa amare, apprezzare, scegliere come risultato di un’attenzione delicata, accurata. Non è diligente la persona precipitosa, bensì chi lavora con amore, con premura» .
Alla laboriosità si oppone la pigrizia, vizio capitale e «madre di tutti i vizi».
Una delle sue forme è il ritardo nel compiere gli obblighi: rinviando ciò che costa e dando la precedenza ad altre cose che piacciono di più o che richiedono uno sforzo minore. «Non lasciare il tuo lavoro per l’indomani» , consiglia san Josemaría, perché alcune volte, «con falsi pretesti, ce la prendiamo troppo comoda, dimentichiamo la benedetta responsabilità che pesa sulla nostre spalle, ci accontentiamo di salvare la faccia, ci lasciamo trascinare da ‘ragioni senza ragione’ per restare con le mani in mano, mentre Satana e i suoi complici non vanno mai in ferie» . Non serviamo Dio con lealtà «quando diamo motivo di essere giudicati scansafatiche, leggeri, superficiali, disordinati, pigri, inutili…» .
All’estremo opposto, la laboriosità si deforma quando non si pongono i dovuti limiti al lavoro, richiesti dal necessario riposo o dalla sollecitudine per la famiglia e per altre relazioni che non si debbono trascurare. San Josemaría mette in guardia dal pericolo di una dedicazione eccessiva al lavoro: la “professionalite”, come chiama questo difetto per far capire che si tratta di una sorta di infiammazione patologica dell’attività professionale.
Il lavoro professionale è un campo che si presta all’esercizio di tutte le virtù umane, imitando l’esempio degli anni di Gesù a Nazaret. L’ordine e la serenità, la gioia e l’ottimismo, la fortezza e la costanza, la lealtà, l’umiltà e la mansuetudine, la magnanimità e le altre virtù, fanno del lavoro professionale un terreno fecondo che si riempie di frutti con la pioggia della grazia.
Nella sua predicazione sulle virtù umane nel lavoro, san Josemaría ricorre spesso all’allegoria del somarello. «Magari conseguissi – le vuoi raggiungere – le virtù del somarello!: umile, indurito nel lavoro e perseverante, cocciuto!, fedele, sicurissimo nel passo, forte e – se ha un buon padrone – riconoscente e obbediente» .
Insiste in modo particolare nel lavoro dell’ “asinello di nòria”: «Benedetta perseveranza dell’asinello di nòria! – Sempre allo stesso passo. Sempre gli stessi giri. – Un giorno dopo l’altro: tutti uguali. Senza di ciò, non vi sarebbe maturità nei frutti, né freschezza nell’orto, non avrebbe aromi il giardino. Porta questo pensiero alla tua vita interiore» . L’esempio gli serve per elogiare la perseveranza nel lavoro e nell’adempimento dei doveri, per elogiare la fortezza e, specialmente, l’umiltà di chi sa di essere uno strumento nelle mani di Dio e non attribuisce a se stesso il merito delle opere che realizza .
La metafora ha un’origine biblica. San Josemaría la prende dalla preghiera del salmista, citandola spesso in latino: «ut iumentum factus sum apud te…», «davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai con il tuo consiglio e poi mi accoglierai nella tua gloria» (Sal 72[73] 22-24). Contempla anche la figura dell’asinello scelto dal Signore per il suo ingresso trionfale a Gerusalemme (cfr. Mc 11, 2-7), considerando che «Gesù accetta di avere per trono un povero animale» : «un asinello fu il suo trono a Gerusalemme!».
Con ciò, commenta il Beato Álvaro, vuole insegnare a «lavorare con umiltà e perseveranza, affinché anche noi possiamo essere il trono del Signore» , lasciandolo regnare nel proprio cuore e mettendolo così al vertice delle attività umane, nonostante le personali miserie .
Senza la lotta per praticare quotidianamente le virtù umane nel lavoro, si arriverebbe facilmente con l’essere simili a coloro che si considerano cristiani “praticanti” perché assistono ad alcuni atti di culto e recitano alcune preghiere, ma permettono che la loro vita professionale trascorra, più o meno sfrontatamente, al margine della morale cristiana, con mancanze di giustizia, di sincerità, di onestà…
Un lavoro di questo genere non è gradito a Dio e non può dirsi che sia ben fatto, né santificato, anche nel caso in cui ottenga risultati brillanti agli occhi umani e si metta in evidenza per la sua perfezione tecnica sotto certi aspetti. San Josemaría ha insegnato sempre a mettere in pratica la fede – a incarnarla! – nel lavoro professionale, con unità di vita. E questo si ottiene mediante le virtù umane modellate dalla carità.
Senza la carità, l’impegno umano non basta a santificare il lavoro, perché la carità è l’essenza della santità. Pur essendo molto efficace, un cristiano che manchi di carità non santifica il proprio lavoro. In realtà, neppure si può dire che lavori bene, perché la carità pervade le virtù, e la sua mancanza prima o poi si manifesta nella loro perdita: nelle ingiustizie, nella superbia, nell’ira, nell’invidia…
L’amore a Dio non è un sentimento inoperante. È l’atto della virtù teologale della carità che, insieme con la fede e la speranza, deve governare la realtà concreta della vita di un figlio di Dio mediante l’esercizio delle virtù umane. Solo così possiamo identificarci a Cristo, perfetto Dio e perfetto Uomo.