Il cammino da una fede infantile ad una fede adulta
Tratto da "Le caratteristiche di una fede matura" (I)
Autore: Paul-André Giguère
L’aspirazione alla maturità nella fede.
Non dovrebbe essere difficile per nessuno riconoscere che si può parlare di immaturità e di maturità nella fede. Basta che ogni lettore e ogni lettrice interroghi la propria esperienza di fede o che volga lo sguardo a qualche personalità significativa in campo religioso.
L’idea della maturità nella fede non è certo una novità. Basta scorrere le lettere di san Paolo per rendersi conto che questo concetto gli era familiare. Con un tono di rimprovero e di tristezza, scrive ai Corinzi: «Io, fratelli, non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali [che hanno lo Spirito di Dio], ma come ad esseri carnali [cioè, imperfetti], come a neonati in Cristo [cioè, nella fede]. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci» (1 Cor 3,1-2). La stessa immagine e lo stesso rimprovero sono ripresi nella lettera agli Ebrei: «Su questo argomento [la sofferenza e la morte di Cristo] abbiamo molte cose da dire, difficili da spiegare, perché siete diventati lenti a capire. Infatti, mentre dovreste essere ormai maestri per ragioni di tempo, avete di nuovo bisogno che qualcuno insegni a voi i primi elementi degli oracoli di Dio e siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido. Ora, chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia, perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido invece è per gli adulti, che per la pratica hanno le facoltà esercitate a distinguere il buono dal cattivo. Perciò lasciata da parte l’istruzione iniziale di Cristo, passiamo a ciò che è più completo…» (5,11-6,1). Con un tono più positivo, Paolo si augura che i Corinzi cessino di comportarsi come bambini nei giudizi, che siano come bambini quanto a malizia, uomini maturi quanto ai giudizi (lett. «perfetti nel ragionamento, nel discernimento», 1 Cor 14,20). E rivolgendosi a tutta la comunità, egli può insegnare che Dio diversifica i suoi doni «al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. Questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore…» (Ef 4,12-14).
Dunque, nella natura stessa dell’esperienza del credere c’è un appello a divenire «adulti nella fede». Si tratta adesso di andare oltre e di cercare di mettere in luce le caratteristiche di questa maturità. Segni indicatori di una fede adulta? Alcuni associano istintivamente la maturità nella fede alla frequenza delle esperienze mistiche. Per loro la crescita nella fede conduce ad esperienze di trascendenza sempre più frequenti e sempre più intense. Va subito detto che non è affatto così. È necessario fare una distinzione fra tali esperienze e la tappa definita, nel capitolo secondo, «unione» o «mistica», che designava un modo consueto di vivere nella fede.
Qui si parla piuttosto di esperienze interiori, più o meno isolate. È un fatto che un numero considerevole di persone nel corso della loro vita sperimentano sporadicamente momenti intensi nei quali si sentono invasi da un senso di completo appagamento, spesso accompagnato dalla certezza della presenza di Dio. Queste esperienze lasciano un’impressione durevole e spesso costituiscono la causa determinante di una nuova conquista nel processo spirituale o nel viaggio interiore. Dal momento che possono fornire un incentivo verso la maturità del credere o favorire il cammino, quando sopraggiungono meritano attenzione e apprezzamento. Ma questa intensità non può durare; perciò i tratti della maturità nella fede vanno cercati altrove, più vicino al quotidiano e all’esperienza comune. Ho spesso proposto ad alcuni gruppi di completare la frase seguente: «Mi sembra che colui che si avvicina alla maturità nella fede sia una persona che…». Prima di continuare la lettura, perché non dare anche voi una risposta spontanea a questa domanda? Quali sono le prime riflessioni che vi vengono in mente? Quando si propone questo esercizio, la prima cosa che colpisce è la molteplicità delle risposte. È del tutto evidente che la maturità nella fede non ha un’unica dimensione.
Si tratta di una realtà troppo ricca e complessa per poterla esprimere in poche parole. Citiamo a caso alcuni modi fra i più ricorrenti di completare la frase proposta. Li potrete confrontare con la vostra risposta. Colui che si avvicina alla maturità della fede è una persona che… – è sicura nelle discussioni – ha fiducia, si abbandona – vive la sua fede all’interno di una comunità – è capace di perseverare – vive il Vangelo più di quanto ne parli – si impegna – può riconoscere, discernere la volontà di Dio – è sicura nel parlare della propria fede – ha una giusta conoscenza della propria fede – si serve degli eventi per incontrare Dio – può accettare dubbi e riserve – accoglie il Regno di Dio come un bambino – è capace di alterità: Dio e l’altro restano altri – fa la volontà di Dio, fino al sacrificio della vita se le circostanze lo richiedono. Maturità o maturazione? Il termine «maturità» si applica soprattutto ai vegetali. Designa lo stato che si manifesta al termine del loro sviluppo. Indica completamento e perfezione.
Sarebbe dunque improprio applicarlo senza sfumature all’esperienza del credere. Suggerire che la maturità nella fede possa un giorno essere raggiunta, tanto che non si potrebbe più migliorarla, significherebbe creare o alimentare un’illusione. Se la fede cristiana è un processo dinamico di trasformazione destinato a culminare nella somiglianza con Dio, non si può immaginare che questa trasformazione possa un giorno avere termine. Nessun credente si è mai fermato nel suo percorso di fede ritenendolo compiuto. Si può parlare di maturità nella fede solo attraverso modalità analogiche. Sarebbe più appropriato parlare di maturazione nella fede, indicando le vie della crescita. Per questo motivo presenteremo il cammino verso la fede adulta come un continuum sul quale tutti i credenti si vengono a trovare, fra l’immaturità e la maturità, diretti verso quest’ultima, ma con la possibilità di regressione o di stagnazione. In quest’ambito si trovano pochi modelli teorici. [1] Ci siamo ispirati a quello proposto dallo psicologo americano Gordon Allport. Il terzo capitolo della sua opera, intitolata L’individuo e la sua religione, [2] è dedicato alla descrizione dei caratteri della maturità di ciò che egli chiama il «sentimento religioso».
Per «sentimento religioso» Allport intende «una disposizione, costituitasi attraverso l’esperienza, a rispondere favorevolmente ed in determinati modi abituali agli oggetti e princìpi concettuali che l’individuo considera come d’importanza suprema nella sua vita personale e come correlati con ciò che egli reputa permanente o centrale nella natura delle cose» (ed. cit., pag. 110s). Il «contenuto» di questo sentimento religioso può dunque variare. Quello che interessa Allport è la struttura interiore, una maniera stabile di porsi di fronte all’assoluto. La fede cristiana, in quanto esperienza soggettiva, rientra in questa tipologia. Così, apportando qualche modifica, possiamo fare nostre le prospettive dello psicologo americano. [3] Continuità e rottura Per l’essere umano il Dio dei cristiani è un «vangelo», cioè una «buona notizia». Alla sua anima inquieta egli si presenta come una promessa. Lo rassicura nel suo desiderio, lo libera dalle sue contraddizioni e dalla paura della morte (Eb 2,15), gli apre una via per raggiungere la pienezza umana. Offrendo la propria fede a questo Dio, il credente non rinuncia alla realizzazione del suo essere, anzi, trova se stesso. La via di questa realizzazione passa però attraverso un profondo cambiamento dello spirito. Il Vangelo presenta esigenze che sono in contrasto con i criteri della saggezza umana. Propone modi e atteggiamenti di pensiero e di vita che non sono per nulla scontati, che si scontrano con ciò che il Nuovo Testamento chiama la mentalità del «mondo». Non si è cristiani se non si accettano numerose rinunce.
Il movimento verso la fede adulta può essere presentato in due tempi. In una prima parte esamineremo la maturazione della fede dal punto di vista della continuità con le aspirazioni umane fondamentali; nel capitolo successivo, l’analizzeremo nell’ottica della rottura. [4] 1. Una risposta sempre più libera e personale La fede come risposta La fede o la spiritualità è la forma che l’individuo dà al suo bisogno di attribuire un carattere assoluto a una realtà e di organizzare intorno ad essa la propria vita e in particolare la propria ricerca di senso. Per ottenere questa forma la persona si serve di ogni mezzo: correnti sociali, ideologie politiche, tradizioni di saggezza e soprattutto tradizioni religiose. I filosofi, i saggi, i guru, i grandi maestri spirituali e gli iniziatori di ogni genere sono riusciti a formulare in modo coerente una propria sintesi e a proporla agli altri con chiarezza. Si può dire che questa «fede» è una risposta, nel senso che la persona risponde ad un bisogno sentito nel suo intimo. Per i cristiani, la fede è risposta in un altro senso, che non esclude il precedente. L’esistenza cristiana può essere compresa soltanto come una risposta all’iniziativa di Dio. Ebrei, cristiani e musulmani hanno in comune il fatto di credere che Dio si è rivelato attraverso la mediazione di esseri umani, che essi chiamano «profeti».
Per loro la fede è essenzialmente l’accettazione di questa rivelazione. Per gli ebrei, Dio ha parlato attraverso Mosè, per i musulmani si è pienamente rivelato con Maometto. Per i cristiani, Gesù è l’immagine perfettamente rivelatrice di Dio, poiché Dio stesso assume la nostra condizione. «Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato», spiega Giovanni (1,18). La fede cristiana è la risposta che uomini e donne formulano dal profondo del cuore e con la loro vita a una proposta che viene loro fatta su Dio, su sé stessi e sul mondo, per e in Gesù Cristo. La fede è risposta a un invito preciso: «Seguimi» (Mc 2,14; 10,21), «Se vuoi» (Mt 19,21), «Venite e vedrete» (Gv 1,39), «Se qualcuno vuol venire dietro di me…» (Mc 8,34), «Vi esorto, dunque, fratelli…» (Rm 12,1; 1 Cor 1,10; 2 Cor 2,8; 10,1, ecc.). La rivelazione è un appello alla libertà: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30,15). Affermare che la fede cristiana è una risposta a Dio che prende l’iniziativa di chiamare, non significa che essa non abbia un collegamento con la richiesta di senso e con la ricerca spirituale. Gesù non paragona forse il regno di Dio ad un tesoro trovato in un campo o a perla a lungo cercata (Mt 13,44-46)? Più di una volta nel vangelo di Giovanni troviamo persone in ricerca che vengono da Gesù: i discepoli di Giovanni Battista, Nicodemo, Greci di passaggio a Gerusalemme (1,37-38; 3,1ss; 12,20ss).
La storia della Chiesa comprende anche personalità che, come Agostino, hanno cercato a lungo prima di trovare. Carattere libero e personale dell’atto di fede Se la fede cristiana è una risposta, si capisce quanto sia importante che sia libera e personale. Libera, prima di tutto. Questa parola può suscitare timori, alle persone e alle istituzioni. Alle persone,anzitutto. L’esistenza individuale si svolge al centro di un tale flusso di influenze e di determinismi, più o meno percepiti dalla coscienza, che è impossibile parlare di libertà in senso assoluto. Bisogna ammettere che la libertà dell’atto di fede è sempre più o meno determinata, come la libertà di sposarsi o di non sposarsi, di avere figli o non averli, di fare un certo mestiere piuttosto che un altro. Anche quando tutte le condizioni interiori o esteriori sembrano concordare perché una persona compia un atto libero, questa libertà intimorisce, perché richiede un impegno e perché nel suo esercizio si fa esperienza della ricchezza e al tempo stesso del limite del proprio essere.
Più un atto è libero, più è grande, ma insieme più provoca angoscia. «La libertà non è un diritto, ma un obbligo» (Nikolai Berdiajev). Decidere o scegliere significa impegnarsi, dire sì a qualche cosa o a qualcuno, ma anche dire no a tutto il resto. Vuol dire anche correre il rischio di sbagliarsi. Inquietante ed esigente per l’individuo, la libertà dell’atto di fede è fonte di timore anche per l’istituzione religiosa. Come ogni istituzione sociale, essa ha bisogno di riprodursi. Preoccupata per la sua sopravvivenza, rivolge una particolare attenzione ai figli dei suoi membri per socializzarli e integrarli alla propria vita. Instancabilmente cerca di reclutare nuovi adulti e può anche rendere difficile il distacco di quanti mettono in discussione la loro appartenenza. In quanto istituzione, deve anche mantenere la propria coesione e a questo scopo deve imporre norme di appartenenza e di conformità. Sarebbe del tutto irreale immaginare una Chiesa che possa sottrarsi a questa necessità. È dunque difficile che la Chiesa possa allo stesso tempo mettersi anche al servizio della libertà dei suoi membri. Questo rappresenta per essa una fonte costante di tensione, poiché la rivelazione che annuncia al mondo e che i credenti cercano di incarnare nella loro vita è rivelazione di uno spazio di libertà. Si dovrebbe a questo punto evocare tutta la teologia di san Paolo. Per lui la fede implica una tale accettazione dell’amore salvifico di Dio che il credente è liberato della preoccupazione di conformarsi agli obblighi di leggi rituali o etiche imposti dall’esterno.
Il cristiano impara a lasciarsi guidare da un dinamismo interiore che Paolo chiama lo Spirito. La donna e l’uomo cristiani vivono sempre di più «secondo lo Spirito» (Rm 8,4). Questa novità radicale è stata contestata fin dal tempo in cui Paolo era in vita e bisogna leggere la sua lettera alle Chiese della Galazia per vedere con quale vigore egli si fa difensore della libertà cristiana. Compito di tutta la vita Quanto si è appena detto a proposito della libertà dell’atto di fede non riguarda soltanto il primo momento dell’adesione alla proposta che viene da Dio, ma è il compito di tutta una vita. A mano a mano che il credente prende coscienza delle influenze che con diverso peso hanno determinato la sua decisione iniziale, deve riassumerla alla luce della nuova percezione. Ma si vive sempre con la percezione del momento. Parlando della libertà dell’atto di fede, si è dovuto sottolineare il suo carattere personale. Non si dovrebbe essere cristiani anzitutto e soprattutto perché lo è la propria famiglia o il proprio ambiente sociale. Il gruppo non può mai sostituire la persona nell’atto di fede. Nella Chiesa è tradizione che la professione di fede sia formulata in prima persona: «Credo in Dio… e in Gesù Cristo… e nello Spirito Santo…». Nessuno può credere al posto di un altro. Nessuno può impegnare un altro al posto suo. Anche se la fede cristiana comporta una dimensione comunitaria, non può mai fare a meno della decisione personale: la ragione di questa necessità è da ricercarsi nella natura stessa della rivelazione cristiana. La proposta che, come si è detto, viene da Dio, è rivelazione di un amore e invito a intrecciare una relazione.
Paolo esprime in modo molto semplice quello che intende per esistenza cristiana: «Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Per i cristiani, credere non significa in primo luogo accettare una dottrina religiosa, un certo modo di rappresentarsi Dio e il rapporto con lui. Vuol dire accogliere l’invito a condividere una vita, a entrare in una relazione. Questo amore di Dio, che la Bibbia paragona a quello di un padre, di una madre, di un parente o di un amico, è senza dubbio universale e globale, nel senso che Dio ama l’umanità intera. Giovanni scrive ancora: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (3,16). Ma Dio non ama solo l’umanità nel suo insieme o il mondo in generale, ama ogni individuo, nella sua unicità, e a ciascuno rivolge l’invito a entrare in relazione con lui. Il testo di Paolo citato in precedenza illustra bene questa esperienza: Paolo e Gesù non si sono mai conosciuti né incontrati, tuttavia Paolo parla dell’amore di Cristo per lui. Nella sua fede, egli è entrato in una relazione personale con lui. Ora è evidente che nessuno può vivere una relazione al posto di un altro. Ecco la ragione profonda per cui la fede del cristiano è un’esperienza del tutto personale, che ovviamente va vissuta all’interno di una comunità e di una istituzione, ma che non può essere ridotta senza snaturarla a un’appartenenza convenzionale o, peggio, a una sottomissione da gregario. Deve essere una fede sempre più libera e personale. «Quando ero giovane avevo la fede. I miei genitori, i vicini, erano tutti cattolici. Frequentavo la scuola cattolica. Credere era normale. Oggi non è più la stessa cosa.
Molti, anche nella mia famiglia, non credono più a niente; altri credono, ma non vanno in chiesa. Altri ancora sostengono che quello che conta è avere una religione, una qualsiasi, perché in fondo il messaggio delle diverse religioni è lo stesso: amare il prossimo. Io continuo a considerarmi cattolico perché sono stato allevato in quella religione». Ecco uno degli aspetti possibili di una fede infantile. La persona che si esprime in questo modo non si è ancora liberata dalle influenze che l’hanno portata alla fede. Ovviamente, ad essa si accede sempre attraverso qualche mediazione. In un primo tempo si è sollecitati, invitati, sedotti, poi seguono l’iniziazione e l’illuminazione, successivamente si è sostenuti e stimolati nella ricerca religiosa dall’intervento più o meno influente delle persone e delle istituzioni. In un modo o nell’altro si è sempre discepoli. Queste mediazioni hanno il compito di risvegliare e di stimolare il percorso interiore. Fanno nascere la persona credente a se stessa. Esse rivelano il segreto dinamismo della crescita spirituale e indicano le vie da percorrere per crescere. Tuttavia può succedere che queste influenze esterne siano costrittive e impongano una determinata visione delle cose, una morale e un modello di vita credente.
Esse possono rivelarsi soffocanti e alienanti e screditare qualsiasi approfondimento, ogni espressione di dissidenza sia nei modi di vivere che di pensare. Rottura coraggiosa Per molti adulti, uno dei primi passi verso un’autentica crescita spirituale consiste nel rompere coraggiosamente con un ambiente coercitivo e anche, in certi casi, a prendere – come dicono loro – le distanze dalla religione. Per altri la sfida consiste nel lasciare la sicurezza interiore di un universo di senso che proviene dall’esterno, spesso attraverso la mediazione di persone significative (parenti, amici, autori e maestri spirituali), per inoltrarsi su percorsi che non sempre sono segnati da indicazioni precise. Le modalità variano, ma per la maturità nella fede è necessario lasciarsi alle spalle una situazione di dipendenza per potere accedere in uno stato di libertà interiore. La maturità nella fede comincia necessariamente con un consenso: consenso ad una esperienza interiore, intensa o diffusa, o consenso a ricevere dall’esterno un richiamo proveniente dal modo di essere e di vivere di una persona o di un gruppo di persone. Senza questo consenso iniziale, si rimane nella conformità e ci si trova, spesso senza saperlo, alla mercé dei cambiamenti esterni. È così che la secolarizzazione della società ha portato molte persone all’indifferenza religiosa, senza averci neppure riflettuto. Il consenso, prima o poi, si trasforma in opzione personale e decisione.
Arriva un momento in cui si può dire, come la gente di un villaggio della Samaria: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42). Questa decisione è presa in modo esplicito nel caso di un adulto che accede alla fede cristiana e chiede di essere battezzato. Fra coloro che hanno ricevuto il battesimo da bambini, il movimento verso la fede personale avviene senza scosse. Ma l’opzione richiede un’analisi specifica e l’adulto è indotto a nuovi consensi quando tutto è rimesso in discussione e riesaminato in occasioni di passaggi e transizioni cruciali dell’esistenza. Come ogni decisione, l’atto di fede comporta un rischio. Nella fede si accetta di procedere in una certa direzione perché si ha fiducia. Ma da un punto di vista psicologico, non si hanno mai certezze assolute. Pascal a suo modo lo diceva: la fede è una scommessa. Credere significa fare una scommessa sul senso e sul futuro dell’avventura umana e della propria esistenza. Significa aver fiducia nella parola di Gesù, il quale rivela che Dio avvolge la storia in una promessa. Vuol dire rischiare di iscrivere la propria vita nella logica di questa rivelazione. Tutto ciò è meno difficile di quanto a volte si immagina. Gli adulti sono abituati a questo genere di decisioni che riguardano il loro futuro. Che si tratti di intrecciare una relazione amorosa, di acquistare una casa con un mutuo di venticinque anni, di avviare un’impresa, di decidere di avere dei figli, bisogna sempre riflettere bene, ma l’incertezza che riguarda il futuro non ha l’ultima parola. Impegnarsi in un progetto con l’intenzione di riuscire, significa dedicare a quel progetto un’energia che aumenta le probabilità di successo. Fatte le debite proporzioni, per la decisione che riguarda la fede è la stessa cosa. La fede si interiorizza dunque lentamente in un’opzione che va riconsiderata di continuo e alla quale bisogna spesso dare un volto nuovo. La maturità nella fede si acquisisce al termine di un lungo processo di liberazione interiore. Le meditazioni sono necessarie, ma devono sempre essere interiorizzate e superate.
La fede adulta è sempre più libera e personale. 2. Una fede che dà sempre più senso alla vita La fede come senso Veniamo a un secondo aspetto della fede adulta. Per le spiegazioni che fornisce, per le piste che apre, per la speranza che nutre e soprattutto per l’uso che fa dei grandi miti e dei simboli dell’umanità, la religione propone un senso a questa vita, in cui la sofferenza, l’ingiustizia e la morte seminano tanti elementi di incoerenza. Uno dei primi nomi dati ai cristiani, dalla prima metà del sec. I, è stato «seguaci della Via» (At 9,2). Presentare la fede cristiana come una via, significa riconoscere che essa imprime una direzione alla vita. Lo abbiamo già detto: questo senso che il Vangelo propone all’esistenza umana comporta dei paradossi ed esige delle rotture. E non risponde neppure a una ricerca di senso puramente umana. Il Vangelo fornisce punti di riferimento, ideali, assoluti, regole di vita. Di fronte al dolore, invita a essere solidali con le donne e gli uomini che soffrono e all’accettazione della propria sofferenza. Senza cercare di condannare o di giustificare Dio, invita il credente che soffre a «tenere fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce… e si è assiso alla destra del trono di Dio» (Eb 12,2). Di fronte alla morte, offre la speranza della risurrezione e della vita eterna, a immagine di quella che Dio ha operato in Cristo: «Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (1 Cor 6,14). Un senso globale La fede cristiana risponde dunque alla profonda aspirazione umana di unificazione dell’esistenza. C’è, nel progetto cristiano, una visione (o forse più visioni) dell’avventura umana che stimola i credenti ad assumersi la propria vita e a impegnarsi a indirizzare il senso della storia nella direzione di una più vasta umanizzazione. In questo senso, la fede cristiana, come la fede ebraica o musulmana, è totalizzante. Scrivere con la propria vita il quinto vangelo in un’apertura universale, ridimensionare l’avere, offrire solidarietà ai più deboli e un perdono sempre pronto, coinvolge tutte le dimensioni della vita.
Eppure, accettare questo aspetto della fede oggi è particolarmente difficile. Un tempo le religioni monopolizzavano le vie della conoscenza dell’universo e della vita. Anche i filosofi e i sapienti erano religiosi. Da due secoli a questa parte, la filosofia e le scienze hanno acquisito la loro autonomia e oggi, nei rispettivi ambiti, rispondono sempre di più a questo bisogno di capire. Adesso disponiamo di strumenti razionali per spiegare quei fenomeni che erano così misteriosi per i nostri antenati e che essi interpretavano in una prospettiva religiosa, si trattasse del fulmine o dell’epilessia o di conflitti psichici. E inoltre c’è molta più indipendenza di quanto si creda fra morale e religione. Sbagliano quelli che credono che soltanto la religione possa fornire solide convinzioni etiche. Tuttavia va detto con altrettanto vigore che le convinzioni etiche profonde hanno bisogno di un fondamento che presenti un carattere assoluto. Per quanto riguarda questo argomento, è più difficile, anche se non impossibile, arrivare a un consenso sociale fondamentale in una prospettiva secolare che in un sistema religioso fondato sull’assoluto di Dio. La secolarizzazione del pensiero umano costituisce un progresso per l’umanità. È meglio conoscere e padroneggiare i meccanismi della riproduzione umana piuttosto che credere che essa dipenda dalla benevolenza o dal capriccio di una divinità rappresentata da un toro. È importante sapere che le disuguaglianze sociali non rientrano nella natura delle cose secondo un ordine imposto da Dio, ma che l’umanità può modificare le strutture socio-politiche e orientarle verso una maggiore giustizia.
Il mondo attuale non ricorre più a Dio per conoscere la realtà, e perciò i credenti sono sottoposti a una pressione del tutto nuova. Essi appaiono ad alcuni come persone che ubbidiscono a riflessi superati, e trovano difficile giustificare la loro fede come elemento centrale del proprio sistema di valori e di senso. Malgrado ciò, essi non respingono le spiegazioni razionali della verità. Però ritengono che le scienze non dispongano degli strumenti necessari per rispondere in modo soddisfacente alle domande ultime sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla libertà, per spiegare la creazione artistica, la disparità di opportunità o l’immensità del desiderio di assoluto custodito nel cuore dell’essere umano. Essi vedono nella fede un fattore di integrazione di tutti gli aspetti della realtà, che comunque non si sostituisce all’apporto della scienza e della tecnica. Ma soprattutto sono coscienti che la fede non rientra anzitutto nei sistemi esplicativi, anche se questa è una delle sue funzioni. Essa è parte della relazione vivente, interpersonale, e in quanto tale li raggiunge là dove nessun’altra realtà potrebbe convincerli. Non mancano tuttavia modi di vivere la fede in maniera riduttiva. Per certi cristiani la fede è un fatto intimo fra il credente e Dio.
Per essi, la vita di fede si riassume in un modo privato di rispondere alle grandi domande sul senso dell’esistenza, e si manifesta nei momenti di preghiera individuale in cui si vive la relazione segreta fra il credente e Dio. Per altri, la fede concerne l’azione. Consiste essenzialmente in una morale individuale. Prescrive dei doveri di carità, di misericordia e di perdono verso gli altri. Impone obblighi di verità e di giustizia nelle relazioni interpersonali, sia nella vita privata che nella vita sociale e professionale. Indica un modo ben definito di gestire le grandi energie psichiche della sessualità e dell’aggressività. Ma la sua utilità si esaurisce lì. Esiste dunque una riduzione «spiritualista» e una riduzione «morale» della fede cristiana. La prima riduce la fede in quanto ne fa una specie di filosofia religiosa per l’individuo, mentre l’invito del Vangelo mira a una trasformazione della persona in tutte le sue relazioni: con sé stessa, con gli altri, con Dio. La seconda riduce la fede in quanto ne fa un codice di condotta personale, un’aspirazione ad una vita virtuosa, mentre la proposta evangelica contempla l’umanità intera. Tutta la storia e tutta la cultura hanno dunque qualche elemento in comune con la fede. La fede ha una sua dimensione sociale e in nome di questa dimensione donne e uomini cristiani intervengono in dibatti politici, sociali, economici. Se da un lato la dimensione globale della fede risponde bene alle aspettative della gente, dall’altro implica un rischio, quello dell’intolleranza. Quando una sola coerenza appare vera e il garante di questa coerenza non è altri che Dio, ogni dissidenza sembra sacrilega. Ecco allora che la libertà di coscienza diventa inconcepibile e fanno capolino il fanatismo e il dogmatismo. Il periodo storico della cristianità ha rappresentato uno sforzo gigantesco per edificare tuttala società e la cultura sulla base della religione cristiana. Nessuno può contestare i vertici di umanità e i capolavori culturali che la cristianità ha tramandato al genere umano. Ma in questo contesto l’essere ebrei o musulmani era inaccettabile. La libertà di coscienza era considerata un errore.
Oggi certi ambienti ebraici di Israele e soprattutto certi paesi islamici impongono una coerenza simile, ispirata dalla religione, che porta direttamente al fanatismo. I cristiani devono perciò vivere la tensione fra due tendenze: quella di ridurre il campo dell’esistenza cristiana e quella di assolutizzare le coerenze che può mettere in atto. Una fede al centro dell’esistenza «L’altro giorno mi sono infuriato… In un telegiornale si vedeva una manifestazione contro il governo. Ho letto in uno striscione: “GRUPPO GIUSTIZIA E FEDE”.
Questo non lo capisco proprio. Invece di manifestare contro il governo, quella gente dovrebbe piuttosto occuparsi dei fatti propri e ricordare al mondo le grandi verità della religione che si stanno dimenticando. E dovrebbero pregare invece di manifestare). Anche queste parole denotano una fede immatura. Non sono del tutto prive di fondamento, ma rivelano che per quanto riguarda la fede siamo ancora al punto di partenza. Per un gran numero di adulti, se non per la maggioranza, la religione rappresenta un aspetto della loro vita, più o meno importante a seconda delle circostanze. Essa costituisce un settore dell’esistenza, un mondo che coesiste con altri: lavoro, relazioni sociali, politica, cultura, ecc. Una dimensione dell’esistenza accanto alla «vera vita». Questi fedeli vivono una sorta di divorzio fra la religione e la vita. Certi gesti, certi riti, certi luoghi, certi tempi della vita sono religiosi. Il resto non lo è. Di solito cominciano a superare questo stadio di separazione quando sono posti di fronte alle grandi domande dell’esistenza. «Penso sovente alla morte e ne resto angosciato. Mi chiedo spesso a cosa serve vivere se dobbiamo morire. Che cosa c’è di veramente importante? Per fortuna, ho tanti piccoli buoni motivi per vivere: la mia relazione con Cristina, le vacanze che si avvicinano… La religione? Ha il suo posto, insegna buoni principi, come il rispetto degli altri. E poi, nei momenti importanti della vita bisogna poter fare riferimento a qualcosa di sacro». Questa riflessione potrebbe condurre il suo autore verso una maturazione. La religione è sempre considerata come un settore particolare e un po’ separato dell’esistenza: «Ha il suo posto». Ma l’interrogativo sul senso della vita è diventato esplicito. La maturità nella fede risiede in gran parte proprio nella capacità di indirizzare in modo positivo la ricerca di senso nell’esistenza. Il passaggio verso la maturità nella fede ha dunque come punto di partenza una concezione della religione intesa come un settore della vita. Una tappa è superata appena si comincia a mettere l’universo della fede in relazione con le inquietudini centrali dell’esistenza umana. Il capitolo primo ha messo in luce come l’adulto spesso si definisca attraverso i suoi ruoli e in essi trovi i luoghi abituali della sua realizzazione. Si progredisce verso la maturità nella fede quando si comincia a riconoscere qualcosa di sacro nell’esercizio di quei ruoli che possono essere correttamente interpretati come una vocazione, una missione, una forma di collaborazione con Dio. In questo modo a poco a poco la fede diventa principio di unificazione e di coerenza. «Chiediamo a Dio che abbiate la piena conoscenza della sua volontà con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore per piacergli in tutto» (Col 1,9-10). All’opposto di questa ricerca di coerenza, c’è quello che il Vangelo chiama l’ipocrisia degli scribi di tendenza farisaica: «Dicono e non fanno» (Mt 23,3). È chiaro che in loro la fede e la vita reale sono due cose distinte. Unificare la propria vita in funzione della fede, essere «logici» nel momento delle scelte, è un compito necessario e mai finito della maturazione della fede. Il Vangelo di Matteo è il più esplicito a questo proposito: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (7,21). Se si deve credere a Matteo, il criterio determinante della fede adulta per Gesù è quello che sarà stato fatto o non fatto a quelli che hanno fame e sete, a quelli che sono nudi, malati, prigionieri o stranieri (25,34-45). Non bisogna immaginare che sia facile unificare la vita intorno alla fede che le dà senso. L’unificazione della vita e della fede è l’impegno di tutta la vita. Una fede che dà sempre più senso all’esistenza Questo processo segue da vicino quello dell’integrazione di qualsiasi valore o di un comportamento fondamentale. D.R. Krathwohl ha dimostrato che si tratta di un processo a cinque tappe. [5] Per facilitare la comprensione di questo modello forzatamente schematico, prenderemo l’esempio del comportamento che chiamiamo «tolleranza».
La prima tappa è quella della ricezione. Spesso, a causa di un avvenimento della vita che sconvolge, succede che ci si accorge dell’esistenza di un certo valore. Se ne resta sensibilizzati, poi si accetta di sentirne parlare o di esporsi agli avvenimenti che lo mettono in luce. Per esempio, si accetterà di leggere un articolo o di guardare una trasmissione televisiva che illustra situazioni di intolleranza e propone la tolleranza come percorso positivo da esplorare. Ma evidentemente non si diventa più tolleranti solo perché si è sentito parlare di tolleranza. Ci sono educatori, anche in ambito religioso, i quali immaginano che basti parlare di un valore o di un comportamento per farlo accettare. Non si rendono conto di bruciare le tappe. Rimanere in questa prima fase, significa piuttosto favorire il reclutamento forzato, rischiare l’indottrinamento. Una seconda tappa è essenziale: quella della risposta. In questa tappa non si è più passivi, ma attivi. Ci si lascia interrogare, si riconosce che c’è qualcosa di interessante che merita di essere considerata e discussa, e si arriva anche a trovare piacevole interessarsi a quel valore. Per riprendere il nostro esempio, la tolleranza diventa oggetto di riflessione, di discussione, di dibattito. Il terzo tempo è quello della valorizzazione. Il valore a questo punto è accettato in quanto degno di essere integrato nella propria vita. Si è pronti a preferirlo ad altri atteggiamenti e ci si sorprende di esserne i difensori perfino accaniti in un dibattito. Così si prenderà parte ad una manifestazione contro il razzismo o si prenderà posizione durante un conflitto. Il quarto tempo è quello dell’organizzazione. Il valore o il comportamento si inseriscono in maniera solida e ben articolata nel nostro sistema di valori. Si è in grado di analizzarne la portata e di dimostrarne la pertinenza non solo in una dimensione oggettiva, ma anche in coerenza con la propria vita. Per esempio, si vede e si sente come la tolleranza si colleghi ad altri atteggiamenti fondamentali, come l’accoglienza e il rispetto della libertà di coscienza, o come la ricchezza del pluralismo in una società. L’ultimo tempo di questo percorso è quello della caratterizzazione. La tolleranza, per continuare con il nostro esempio, è diventata una disposizione generale e permanente. Gli altri possono prevedere quale sarà la nostra reazione se siamo posti in situazione di conflitto. Si arriva ad essere talmente identificarti con quell’atteggiamento o con quel valore che evocare la persona significa evocare il valore. Cosicché basta il nome di Gandhi per associarlo alla non violenza, o quello di Madre Teresa per collegarlo alla compassione. La maturità nella fede non si misura con la perfezione morale, ma con la tenacia nell’unificare la propria vita alla luce delle proprie convinzioni. La fede adulta dà sempre più significato all’esistenza. È un lungo tragitto verso una maturità che raramente si raggiunge. Ma è incoraggiante sapere che si può vivere la propria vita sospinti in avanti da una spinta interiore che non viene mai meno. 3. Una fede sempre più illuminata La fede come conoscenza Veniamo ad una terza caratteristica della maturità nella fede, che prolunga le grandi aspirazioni umane. Moltissimi compiono nella loro vita esperienze di trascendenza.
Queste possono coglierli all’improvviso, oppure vi giungono in virtù di una ricerca deliberata condotta con l’aiuto di tecniche diverse sui percorsi dell’interiorità. Queste esperienze si manifestano anche nella vita dei cristiani. La fede cristiana, infatti, essendo una risposta libera e personale, ed essendo un processo dinamico di integrazione dell’universo interiore proprio di ogni individuo, affonda le radici nelle zone più profonde dell’essere. Per questo è difficile descriverla e parlarne. Come tutte le esperienze intime, essa comporta qualcosa di inesprimibile, e le parole per definirla risultano sempre limitate o inadeguate. Eppure l’esperienza religiosa è tutt’altro che indicibile. Infatti, rientra nell’ambito di una vera conoscenza. Nella Bibbia, la parola «conoscere» indica anzitutto la conoscenza che si acquista mediante il contatto familiare e la frequentazione con una persona o con una realtà. Poiché rientra nell’ordine intuitivo molto più che in quello riflessivo, questa conoscenza è assai più ricca e più certa della stessa conoscenza intellettuale. Ci sono donne e uomini poco istruiti, poco portati ai discorsi o alla lettura, che sulle realtà essenziali della fede hanno certezze e una rettitudine superiori a quelle di tanti teologi. Queste persone conoscono per esperienza il primato della carità, la bontà universale di Dio, la ricchezza dei simboli liturgici. Davanti alla morte mantengono una tranquilla sicurezza e si sentono libere di fronte a certe esigenze pedanti delle istituzioni religiose. Certamente troverebbero molto difficile esprimere tutto questo in un discorso e giustificare le loro certezze con argomenti biblici o teologici. L’importante è quello che sanno. «E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, se non avessi la carità, non sarei nulla» (1 Cor 13,2). Questo non può essere contestato. Nello stesso tempo bisogna ammettere che la fede cristiana non comincia con la fede di ogni individuo. È piuttosto la fede di ogni individuo che si iscrive in una continuità. Nei venti secoli della loro storia i cristiani hanno pregato, cercato, vissuto, dubitato. Hanno interpretato la loro esperienza, l’hanno narrata e trasmessa. L’hanno fatto con un dialogo incessante con la primissima testimonianza su Gesù Cristo consegnata nel Nuovo Testamento. Si è così elaborato, nel corso dei secoli, un «discorso» cristiano, una dottrina, un insieme di credenze, espressi con formule comuni, universalmente accettate, che traducono bene quello che c’è di universale e di autentico nell’esperienza di Dio che tutti possono fare. Le parole della fede, il messaggio cristiano, l’insegnamento della Chiesa costituiscono sia un invito all’esperienza religiosa, sia una chiave di lettura di questa esperienza. La maturità nella fede cristiana non può essere estranea al modo in cui una persona riesce ad inserirsi nell’ambito più vasto di questa tradizione. Una fede sempre più illuminata «Ehm… perché vogliamo fare battezzare nostro figlio? Beh, ehm… Perché… perché essere battezzati è importante.
Che cosa potrebbe accadere al bambino se non fosse battezzato? È sempre meglio non correre rischi, no? E poi… nella nostra famiglia si è sempre fatto… Sa, non è che si parli spesso di queste cose. E poi, che cosa è più importante, che io sappia cos’è il battesimo o che il bambino sia battezzato?». Educatori e catechisti spesso deplorano l’ignoranza di molti adulti nei confronti dei misteri della fede. L’esempio che precede è uno dei tanti. Dietro a questo biasimo si nasconde una implicita convinzione che questo stato di ignoranza sia anormale e che dimostri una mancanza di maturità nella fede. Il fatto non è una novità. Rivolgendosi ai Corinzi, Paolo scrive: «Alcuni dimostrano di non conoscere Dio. Ve lo dico a vostra vergogna» (1 Cor 15,34). Per riprendere la celebre espressione della prima lettera di Pietro, i credenti non dovrebbero essere sempre «pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15)? La tradizione ebraica va nella stessa direzione: «Sii vigile nello studio della Scrittura e sappi rispondere ai miscredenti» (Mishna, Abót, 11,14). Per questo le Chiese organizzano numerosi servizi di formazione e di educazione, e pubblicano molte riviste e opere di divulgazione teologica. Nella Chiesa di Dio la conoscenza non può essere riservata a un gruppo scelto. La verità non è appannaggio delle autorità ecclesiastiche né dei teologi e di altri specialisti della fede. Lo sforzo per aprire un accesso diretto alle sorgenti della fede, in particolare alla Bibbia, e per rendere accessibili e comprensibili le formulazioni della fede stessa, è un’esigenza centrale della vita ecclesiastica. Un responsabile nella Chiesa che nega a un adulto o a un bambino l’accesso alle sorgenti del sapere, tradisce la verità della condizione cristiana. Purtroppo non è raro sentire ancora certe persone anziane o anche certi adulti ricordare con amarezza di essersi sentiti dire da un responsabile della comunità al quale avevano rivolto una domanda di spiegazione: «Bisogna credere senza farsi domande».
Si sono visti e si vedono ancora certi ambienti o movimenti sconsigliare ai loro membri lo studio teologico o biblico. Questi atteggiamenti non fanno che ritardare la maturazione della fede e possono anche determinare il progressivo allontanamento da una Chiesa che sembra avere paura della verità. Noi riteniamo che il segno di una maggiore maturità nella fede sia la capacità di parlare correttamente della propria fede mettendola in relazione con l’esperienza degli altri e in particolare riprendendo le parole della tradizione. Esiste una professione di fede, il Credo, che esprime quello che è comune a tutti i discepoli di Cristo. Esistono formule ereditate dai cristiani e dalle cristiane che ci hanno preceduti, nelle quali essi hanno riversato la loro personale esperienza dell’azione di Dio nel mondo. Tutti i credenti le conoscono e le ripetono. Ma non tutti capiscono quello che professano. Tuttavia, diventando credente e procedendo verso la maturità nella fede, il cristiano non rinuncia alla sua intelligenza, al suo bisogno di capire e di appropriarsi della verità. È importante che ognuno sappia distinguere l’essenziale dal secondario, e la verità dalla superstizione. La maturità del credente implica un’espressione della fede che confonde sempre meno le cose e si va progressivamente precisando. In questo senso la fede adulta è sempre più illuminata. Si può dunque parlare di tre aspetti della maturità nella fede in armonia con la continuità della natura e delle aspirazioni umane. La fede non è né oppressione, né assurdità, né oscurantismo. È piuttosto la buona novella per la libertà, saggezza per l’unificazione della vita e luce per l’intelligenza.
Il prossimo capitolo permetterà di esaminare altri tratti della maturità del credere che viceversa si collocano più nell’ambito della rottura che in quello della continuità.
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