Vestire gli Ignudi
Le opere di Misericordia Corporale II
Autore: Don Roberto Davanzo
Come tutte le opere di misericordia corporali anche quella del “vestire gli ignudi” porta con sé significati concreti e tangibili assieme a valori psicologici e simbolici di grande spessore.
Ma bisogna partire dal significato della nudità come espressione della radicale fragilità dell’uomo che viene alla luce nudo, bisognoso di ogni protezione. Dunque, l’atto di vestire chi è nudo implica un prendersi cura del suo corpo, ma anche un prendersi cura della sua anima, dato che il vestito sta ad indicare che l’uomo è un’interiorità che necessita di custodia e protezione.
Pensiamo al grande tema del pudore come meccanismo di difesa da ogni sguardo che mi trasforma in un oggetto, in una cosa. Parlare di nudità allora significa parlare di ciò che toglie identità e dignità. Mentre l’animale non ha bisogno di questo tipo di protezione, l’uomo necessita del vestito come di ciò che lo difende dalle inclemenze del tempo, ma insieme dall’umiliazione, dall’indegnità, dall’assenza di difese, dal pericolo.
Ecco perché la Scrittura non perde occasione di sottolineare una compassione per il corpo che si traduce in numerosi comandi. Uno tra tutti: “questo è il digiuno che voglio … vestire uno che vedi nudo” (Is 58,6-7). Non solo. Nel racconto della Genesi Dio stesso si premura di coprire la nudità di Adamo ed Eva a seguito della loro trasgressione: “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” (Gen 3,21). A dire che Dio ama e protegge la creatura umana e le usa misericordia accogliendola in tutti i suoi limiti e le sue fragilità.
Infine, non possiamo non ricordare come nei riti battesimali dei primi secoli era previsto sia il gesto di abbandonare i propri abiti, sia quello di indossare, dopo l’immersione nell’acqua, un abito bianco, segno della nuova dignità di colui che nel battesimo diventava portatore di una nuova vita essendosi “rivestito di Cristo” (cfr Gal 3,27).
Fatte queste premesse di sapore biblico-simbolico, vale la pena di tentare di suggerire qualche condizione per dare significato al gesto di condividere gli abiti con i poveri che da sempre le nostre chiese di occidente hanno trasformato in precise operazioni di raccolta indumenti anche attraverso gli onnipresenti cassonetti gialli.
La prima considerazione è che questo tipo di raccolte non ci devono far cadere nell’illusione di poter sgravare la nostra coscienza. Sia perché svuotare i nostri armadi sempre troppo pieni di vestiti non può essere troppo facilmente contrabbandato come carità (se non per noi stessi!), sia perché molto spesso il valore delle raccolte coi cassonetti ha piuttosto un valore di tipo sociale nel senso di offrire opportunità di lavoro a persone variamente svantaggiate. E quand’anche quelle raccolte dovessero essere destinate ad alimentare i guardaroba parrocchiali, verrebbe comunque meno la possibilità di attivare una relazione con la persona aiutata: il povero non può essere trasformato in un anonimo destinatario di una spedizione o comunque di una distribuzione di abiti dismessi dai ricchi.
Ecco allora che l’opera del vestire gli ignudi si attua in modo autentico solo quando scaturisce da un incontro tra due volti, tra due sguardi, quello di chi dona e quello di chi riceve. Solo così viene salvato dal rischio di essere gesto umiliante: quando diventa incontro con l’altro, quando riesce a salvaguardare l’individualità, l’identità di ciascuno.
Nella tradizione cristiana occidentale il gesto di vestire chi è nudo è espresso, in modo a tutti noto, dall’episodio in cui Martino di Tours taglia il proprio mantello per farne parte ad un povero indifeso contro i rigori di un gelido inverno. Nella Vita di san Martino di Tours viene scritto che con quel gesto «l’uno prende una parte del freddo, l’altro prende una parte del tepore, fra ambedue i poveri è diviso il calore e il freddo, il freddo e il calore diventano un nuovo soggetto di scambio e una sola povertà è sufficiente divisa a due persone». A dire che questa opera di misericordia parla di una via capace di trasformare due nudità, non una sola. Non esistono benefattori e beneficati, ma ricercatori e ricercatrici di possibilità di vita giuste per tutti.