Alloggiare ed accogliere i pellegrini
Le opere di Misericordia Corporale III
Autore: Don Roberto Davanzo
Ammettiamolo: la formulazione della quarta opera di misericordia corporale è certamente tra le più controverse.
Infatti, se nel catechismo tradizionale in italiano suona “alloggiare i pellegrini”, lo stesso racconto del giudizio universale di Matteo così recitava: “Ero forestiero e mi avere accolto” (Mt 25,35). Nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una ulteriore formulazione: “Le opere di misericordia corporale consistono nel dare da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senzatetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti” (n. 2447). Ed appare subito evidente che altro è alloggiare i pellegrini (che peraltro oggi non si muovono certo verso Roma o Gerusalemme o Santiago de Compostela o Assisi, … senza aver prima prenotato una adeguata sistemazione alberghiera) altro è ospitare i senzatetto, opera che ci educa al servizio radicale dell’altro, che richiede una spiritualità cristiana solida e una saggia capacità organizzativa. Senza parlare di come diventa impegnativo tradurre questa opera a livello individuale, accogliendo uno sconosciuto nella propria casa! Se le altre opere possono essere messe in pratica anche in strada, aprire la porta della propria casa a una persona sconosciuta è un fidarsi dell’altro illogico, pericoloso e illegale nella società moderna. Solo la capacità di vedere Gesù negli altri può giustificare un gesto così apparentemente scriteriato. Solo una profonda e matura vita di fede può farci dire – come Santa Rosa da Lima che rispondeva alla madre che la rimproverava di accogliere in casa poveri e infermi – “Quando serviamo i poveri e i malati, serviamo Gesù”.
Fatta questa lunga premessa, come tradurre in termini più praticabili questa opera così impegnativa? E a favore di quali categorie? Nel momento in cui scriviamo queste riflessioni il nostro Paese vive due forme di emergenza rispetto alle quali immaginare e organizzare risposte adeguate e rispettose della dignità delle persone.
La prima è quella dei “senza dimora”, di chi vive per strada, ai margini di una società che non è stata capace di intercettarli nel momento in cui cominciavano ad esserne esclusi: per la perdita del lavoro, per la rottura del loro matrimonio, per una patologia psichiatrica, per l’abuso di alcol o di sostanze stupefacenti. Sono stimati dall’Istat (inverno 2015) attorno alle 50.000 unità in tutto il Paese, 5000 solo a Milano. Sono spesso invisibili, non disturbano più di tanto e, finché non muoiono di freddo, non fanno neppure notizia. Non possono essere un problema del singolo cittadino, della singola parrocchia, della singola associazione benefica. All’ente pubblico dobbiamo chiedere una strategia capace di integrare l’azione politica e legislativa con quella del privato sociale (pensiamo solo all’immenso patrimonio abitativo inutilizzato da anni che potrebbe essere affidato al terzo settore perché accompagni in percorsi di reinserimento nella società qualcuna di queste persone). Non serve a molto proliferare mense e dormitori se poi ogni anno non riusciamo a contare quanti dalla strada sono finalmente usciti per ricominciare una vita dignitosamente autonoma.
Ma non possiamo tacere una seconda categoria a proposito della quale abbiamo già scritto molto, ma che ha bisogno di essere fatta oggetto consapevole della quarta opera di misericordia corporale: quella dei migranti e dei richiedenti asilo. Con abilità satanica abbiamo cercato di sgravarci la coscienza rispetto al dovere di accoglierli e ospitarli. Li abbiamo appellati col nome di “clandestini” a dire che si tratta come minimo di imbroglioni disonesti che non rispettano le regole, che non bussano prima di entrare in casa nostra. Poi abbiamo paventato una “invasione” senza vergognarci del fatto che se lo scorso anno in Europa (500 milioni di abitanti) ne sono arrivati un milione, in Libano (4 milioni di abitanti) ne sono arrivati un milione e mezzo! Alla fine abbiamo inventato la distinzione tra “rifugiati” – meritevoli di accoglienza in quanto in fuga da guerre e persecuzione – e “migranti economici” da rimandare a casa loro dal momento che la fame o la siccità decennale o l’assenza di prospettive per il futuro … non sono motivi sufficienti che giustificano una qualche forma di protezione.
Bastino queste considerazioni a dire la straordinaria attualità della quarta opera di misericordia corporale, ma anche l’atteggiamento preoccupato con cui almeno coloro che si dichiarano credenti in Gesù di Nazaret devono affrontare queste emergenze. Di fronte allo straniero che è tra noi, all’immigrato che ci scomoda, il cristiano si pone l’elementare domanda: come potrebbe essere possibile respingere lo straniero e continuare a pregare il Dio che rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli dà pane e vestito? Come affrontare il giudice giusto che ci chiederà conto: “ero straniero e non mi avete ospitato” (Mt 25,43)?
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