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Parole come insegnamenti di vita : Vita spirituale e ascesi

Riflessioni e prefazioni a "Lessico della vita interiore" - Le parole di spiritualità

Autore: Enzo Bianchi

Abba Antonio disse: «Verrà un tempo in cuigli uomini impazziranno e al vedere uno che non sia pazzo gli si avventeranno controdicendo: ”Tu sei pazzo!” a motivo della sua dissimiglianza da loro».

Prefazione alla nuova edizione

Sono trascorsi ormai cinque anni da quando decisi di raccogliere alcune riflessioni su«parole» capaci di tracciare un percorso attraverso gli elementi costitutivi della «vitainteriore», di sondare quella dimensione che ogni persona custodisce nel suo intimo e che tuttavia a volte trascura, soprattutto in quest’epoca in cui sembra prevalerel’apparenza, l’esteriorità, l’immagine.

Ne nacquero pagine che, con mia gradita sorpresa,hanno valicato oltre ogni attesa gli spazi entro i quali erano state pensate: tradotte anchei n francese e in inglese, hanno incontrato interesse e favore presso lettori di mondi culturali assai diversi. Conferma, questa, del dato che l’interiorità è elemento umano che travalica l’universo religioso e di pensiero che la definisce e la plasma per ogni singola persona.

Sono, infatti, pagine che attingono la loro linfa dalla tradizione ebraico-cristiana e dalla mia assiduità con i testi biblici e con il vissuto della spiritualità delle chiese d’oriente e di occidente, eppure credo che, proprio grazie a questo profondo radicamento, riescano a cogliere elementi universali in cui ogni essere umano possa ritrovarsi. In una stagione in cui troppi si affrettano a dipingere scenari da guerre di religione e scontri di civiltà, ho cercato di riproporre «luoghi comuni» per un dialogo possibile, per un riconoscimento reciproco di quanto sta a cuore a ciascuno. E in questa seconda edizione alcune nuove «voci» testimoniano che l’itinerario non è concluso, che la scoperta di ciò che ci abita non è un circolo vizioso, ma un avvincente intreccio di conoscenza di sé e di conoscenza dell’altro, di custodia del passato e di sguardo a perto sul futuro, di ricerca di un Dio che dà senso alla vita e di lotta contro falsi dèi che asserviscono l’uomo.

Come ogni lessico, anche questo non sostituisce l’essenza della realtà che cerca di delineare: come «conoscere» alcune parole non significa saper articolare un linguaggio sensato e comprensibile, così definire la «vita interiore» non significa viverla quotidianamente.

Eppure aiuta a farlo.

ENZO BIANCHI -27 gennaio 2004, Giornata della Memoria

Prologo

PERCORSI

«Abba, dimmi una parola!»

All’inizio del IV secolo, quando ormai il cristianesimo si avviava a divenire religione ufficiale dell’impero e a permeare i costumi della società pagana, questa frase di sconcertante semplicità iniziò a risuonare con insolita frequenza nei deserti di Egitto e di Palestina, di Siria e di Persia.

Visitatori occasionali o fratelli inesperti erano soliti indirizzarsi così a un «anziano» per chiedergli un insegnamento che, nato da un’esperienza di vita nello Spirito, potesse diventare prezioso aiuto nelc ammino sulle tracce del Signore: una parola per la vita che, tratta dal vissuto quotidiano, potesse fornirlo di un senso; una parola proveniente dall’esterno ma capacedi scendere nelle profondità dell’essere; un evento esteriore capace di orientare l’interiorità dell’ascoltatore.

Trasmesse da bocca a orecchio, accolte nel cuore, meditate e messe in pratica, queste parole, echi della Parola, finirono ben presto per costituire unvero e proprio «lessico del deserto», fornendo un linguaggio alla spiritualità e dando un nome alle realtà dello Spirito: e «dare il nome» alle cose significa compiere il primo passo per la loro conoscenza, la presa di possesso, l’acquisizione di una consapevolezzache al nome non si ferma.

Nacquero ben presto raccolte di «detti e fatti dei Padri del deserto», redatte con l’intento di diffondere maggiormente queste perle di sapienza, di ovviare all’inevitabile rarefazione – nel tempo e nello spazio – di «padri» autentici e di ritardare il conseguente declino della qualità della vita cristiana.

Chi le compilava era consapevole dei propri limiti – anzi, proprio da questa consapevolezza nasceva il desiderio di diffondere messaggi che quei limiti varcassero – e dei rischi che assumeva nell’intraprendere una simile opera: «I profeti scrissero dei libri, i padri compirono molte cose ispirandosi ad essi, i loro successori li impararono a memoria, la nostra generazione li ha copiati su papiri e pergamene e li ha messi in ozio sugli scaffali».

Purtuttavia la trasmissione avveniva: nuove generazioni ponevano domande e trovavano risposte, se non direttamente dalle labbra dell’abba, almeno dalle righe di qualche manoscritto letto o ricopiato, oppure dalle riflessioni condivise in una collatio comunitaria, in uno di quei momenti di scambio fraterno in cui ciascuno è al contempo abba e discepolo dell’altro, alla sola condizione di essere autentico nel parlare e nell’agire.

È di questa ininterrotta trasmissione che vorrei farmi anello con le pagine che seguono. La loro origine del resto è analoga a quella delle ben più autorevoli raccolte dei primi secoli del cristianesimo. Nate in risposta a sollecitazioni di fratelli, sorelle e ospiti della mia Comunità, hanno assunto la forma scritta con l’intento di tessere un dialogo con un uditorio più vasto, ma non meno interessato, all’interno e, più sovente ancora, all’esterno stesso della compagine ecclesiale. E se le più famose raccolte antiche erano ordinate in modo «alfabetico» (secondo il nome dell’abba) o «sistematico»(secondo l’argomento trattato), ho qui preferito seguire il metodo di un percorso fatto di rimandi e richiami, in cui un termine ne e voca un altro, ne spiega alcuni aspetti, ne tralascia altri per riprenderli più avanti.

Metodo antichissimo che, a partire dalle concordanze bibliche, ha dato vita a infinite varianti di dizionari analogici o lessici tematici e che continua a fornire le griglie di selezione per le «voci» da inserire – anchese in rigoroso ordine alfabetico – nelle più moderne enciclopedie. Metodo che ha trovato una forse inattesa ma dirompente attualità nella navigazione «in rete»: cosa sonoi tanto decantati «link» se non il frutto di associazioni di pensiero, di «connessioni»mentali prima che informatiche?

In queste pagine allora ho cercato di lasciarmi guidare dalla tradizione biblica e patristica che mi ha preceduto e formato per rispondere alle sollecitazioni che mi vengono da quanti, con sincerità e passione, non cessano di«chiedermi ragione della speranza che è in me» (cfr. 1Pietro 3,15).

In questo percorso non lineare ma sempre orientato, il lettore si troverà a volte a ritornare su cammini già abbozzati: ma ogni volta il panorama che si dischiude è diverso, il punto di vista cambia, l’opzione scelta a un bivio è differente.  Alcuni «luoghi» li ho attraversati velocemente, confidando che la loro ricchezza balzasse agli occhi con pochi, essenzialitratti.  In altri invece – è il caso della preghiera, per esempio – ho voluto attardarmi, cercando con approcci diversi di pervenire a un’irraggiungibile globalità di comprensione, come la farfalla che danza attorno al fuoco e finisce per conoscerlo inverità solo gettandovisi in mezzo.

È il prezzo che ho creduto di dover pagare nel miot entativo di restare docile allo Spirito, attento al nuovo che si fa strada nelle nostre vite,in ascolto dell’altro che sconvolge i piani previsti. Perché c’è una sorta di filo rosso che mi ha accompagnato in questo itinerario nella spiritualità cristiana ed è la convinzione che la nostra vita ha un senso e che a noi non spetta né inventarlo né determinarlo, ma semplicemente scoprirlo presente e attivo in noi e attorno a noi: riconosciutolo, ci reca in dono la libertà di accoglierlo.

VITA SPIRITUALE

Non si dà vita cristiana senza vita spirituale! Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienzadi Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari, perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità.

Questa riduzionedell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.

La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7: «noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!»(Genesi 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi […]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti»(Salmo 139,5 e sgg.). Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal ilenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento; a sinistra lo cerco e non lo scorgo,mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9).

Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita,attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le «crisi», imomenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.

L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, cip reviene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là!

E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «nessuno viene al Padre senon per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6).  Cioè l’esperienza spirituale è anchee sperienza filiale.  Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostroc ammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!».

Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo! Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.

Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale.  Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi: questo è il doloroso, ma necessario inizio della conversione, il momento in cui si frantuma l’«io» non reale ma ideale che ci siamo forgiati e che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi.  Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito. Se non c’è questa morte a se stessi non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4).

Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, cioè l’adesione alla realtà, perché è nella storia e nel quotidiano, con gli altri e non senza di essi, che avviene la nostrac onoscenza di Dio e cresce la nostra relazione con Dio.

È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e fedeltà alla terra in una vita di fede, disperanza e di carità. È a quel punto che noi possiamo dire il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti che caratterizzano la nostra creaturalità. Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi.

Scrive Paolo ai cristiani di Corinto: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita invoi?» (2 Corinti 13,5).

La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo,nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità. È lì che va riconosciuta l’autenticitàdel nostro essere cristiani. La vita cristiana infatti non è un «andare oltre», sempre alla ricerca di novità, ma un «andare in profondità», uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo!

Si tratta infatti di«adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5).

Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione, cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23).

Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina, è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione». «Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio», scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore sintetizza in modo sublime: «La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina, fino al perdono dei nemici come Cristo in croce. Quand’è che tu diventi Dio? Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire: “Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”». A questo ci trascina la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.

ASCESI

«Non si nasce cristiani, lo si diventa» (Tertulliano).

Questo «divenire» è lo spazio in cuisi inserisce l’ascesi cristiana. Ascesi è oggi parola sospetta, se non del tutto assurda ebincomprensibile per molti uomini e, ciò che più è significativo, anche per un granbnumero di cristiani. In realtà «ascesi», termine che deriva dal greco askein, «esercitare»,«praticare», indica anzitutto l’applicazione metodica, l’esercizio ripetuto, lo sforzo peracquisire un’abilità e una competenza specifica: l’atleta, l’artista, il soldato devono«allenarsi», provare e riprovare movimenti e gesti per poter pervenire a prestazionibelevate.

L’ascesi è dunque anzitutto una necessità umana: la stessa crescita dell’uomo,lba sua umanizzazione, esige un corrispondere interiore alla crescita anagrafica. Esige un dire dei «no» per poter dire dei «sì»: «Quando ero bambino, parlavo e pensavo da bambino ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» scrive sanPaolo (1Corinti 13,11).

La vita cristiana poi, che è rinascita a una vita nuova, a una vita«in Cristo», che è adattamento della propria vita alla vita di Dio, richiede l’assunzione di capacità «non naturali» come la preghiera e l’amore del nemico: e questo non è possibile senza un’applicazione costante, un esercizio, uno sforzo incessante. Purtroppo il mito della spontaneità, che domina ancora in questa fase di adolescenze interminabili e  che porta a contrapporre esercizio e autenticità, si rivela un ostacolo determinante alla maturazione umana delle persone e alla comprensione dell’essenzialità dell’ascesi per una crescita spirituale.

Certo, deve essere chiaro che l’ascesi cristiana resta sempre un mezzo ordinato all’unico fine da conseguire: la carità, l’amore per il Signore e per il prossimo. Non è possibile senza la continua esperienza di cadute, di fallimenti, di«peccati», che fan sì che l’ascesi cristiana rettamente intesa sia sempre assolutamentei ndissociabile dalla grazia: «Che uno possa vincere la sua natura non è tra le cosepossibili» (Giovanni Climaco).

La storia cristiana ha conosciuto molte deviazioni ed eccessi dell’ascesi, ma ha anche sempre saputo condannare tali eccessi che riducevanol a vita cristiana a un insieme di imprese eroiche. E ha saputo farlo anche con senso dello humour: «Se praticate l’ascesi di un regolare digiuno, non inorgoglitevi. Se per questo vi insuperbite, piuttosto mangiate carne, perché è meglio mangiare carne che gonfiarsi evantarsi» (Isidoro Presbitero).

Essa non mira al perfezionamento del proprio «io», ma all’educazione dell’«io» alla libertà e alla relazione con l’altro: il suo fine è l’amore, la carità. L’ascesi prende sul serio il fatto che non si possono servire due padroni e che l’alternativa all’obbedienza a Dio è l’asservimento agli idoli. Anche l’interiorità va educata, anche l’amore va sempre affinato e purificato, anche le relazioni vanno rese sempre più intelligenti e rispettose: questo dice l’ascesi!

In particolare, «il sudore e la fatica» (Cabasilas) dello sforzo ascetico sono l’apertura al dono di Dio, il disporre tutta la propria persona a ricevere il dono di grazia; possiamo riassumere la dimensione cristiana dell’ascesi in questa affermazione: la salvezza viene da Dio in Gesù Cristo. L’ascesi non è altro che l’accettazione a essere se stessi soltanto per grazia di quell’Altro che ha nome Dio, è il dire di sì a ricevere la propria identità nella relazione con questo Altro.

In particolare, l’ascesi corporale, che ha rivestito spesso connotati meramente negativi e di disprezzo del corpo, soprattutto a seguito dell’assunzione di un modello antropologico di tipo dualista, afferma come essenziale per la conoscenza teologica il coinvolgimento dell’intero corpo! Senza questa dimensione il cristianesimosi riduce a esercizio intellettuale, a gnosi, oppure alla sola dimensione morale. Di più,essendo a servizio della rivelazione cristiana che attesta che la libertà autentica dell’uomo si manifesta nel suo divenire capace di donazione di sé, per amore di Dio e del prossimo, aprendosi al dono preveniente di Dio, l’ascesi tende a liberare l’uomo dalla philautia, cioè dall’amore di sé, dall’egocentrismo, e a trasformare un individuo inpersona capace di comunione e gratuità, di dono e di amore.

Ancora una volta, la tradizione cristiana antica mostra capacità di autocritica nelle parole di un padre del deserto che constata: «Molti hanno prostrato il loro corpo senza alcun discernimento, ese ne sono andati senza trovare alcunché. La nostra bocca esala cattivo odore a forza di digiunare, noi sappiamo le Scritture a memoria, recitiamo tutti i Salmi, ma non abbiamo ciò che Dio cerca: l’amore e l’umiltà».

Solo un’ascesi intelligente e condotta con discernimento risulta gradita a Dio. E risulta umanizzante e non disumanizzante. Risulta capace di aiutare l’uomo nel compito di fare della propria vita un capolavoro, un’opera d’arte. Forse non è casuale che askein sia utilizzato, nella letteratura greca antica, anche per indicare il lavoro artistico. Questo dunque il fine dell’ascesi: porre la vita delc redente sotto il segno della bellezza, che nel cristianesimo è un altro nome della santità.

SANTITÀ E BELLEZZA

La tradizione cristiana, soprattutto occidentale, ha operato un’interpretazione essenzialmente morale della santità.

Questa però non consiste propriamente nel non peccare, bensì nel fare affidamento sulla misericordia di Dio che è più forte dei nostri peccati e capace di rialzare il credente che è caduto.

Il santo è il canto innalzato alla misericordia di Dio, è colui che testimonia la vittoria del Dio tre volte santo e tre volte misericordioso. La santità cioè è grazia, dono, e chiede all’uomo l’aperturaf ondamentale per lasciarsi invadere dal dono divino: la santità dunque testimonia anzitutto il carattere responsoriale dell’esistenza cristiana, un carattere che afferma il primato dell’essere sul fare, del dono sulla prestazione, della gratuità sulla legge.

Possiamo dire che la santità cristiana, anche nella sua dimensione etica, non ha un carattere legale o giuridico, ma eucaristico: è risposta alla charis di Dio manifestata inCristo Gesù.  Ed è segnata perciò dalla gratitudine e dalla gioia; il santo è colui che dice a Dio: «Non io, ma Tu». Questa ottica di grazia preveniente ci porta ad affermare ch ealtro nome della santità è bellezza. Sì, nell’ottica cristiana la santità si declina anche come bellezza.

Già il Nuovo Testamento associa queste due esortazioni ai cristiani: avere «una condotta santa» non è altro che avere «una condotta bella» (cfr. 1 Pietro1,15-16 e 2,12).

Articolata come bellezza, la santità appare anzitutto essere impresa non individualistica, non frutto dello sforzo, magari eroico, del singolo, ma evento dicomunione. È la comunione raffigurata iconicamente in Mosè ed Elia «apparsi nellagloria» (Luca 9,3r) e nei discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni radunati attorno al Cristo splendente nella luce della trasfigurazione. È la communio sanctorum, la comunione dei santi, di coloro che partecipano alla vita divina communicantes in Unum, comunicando con Colui che è l’unica sorgente della santità (cfr. Ebrei 2,11).

Come non ricordare la cattedrale di Chartres con le statue dei santi dell’Antico e del Nuovo Testamento radunati attorno al Beau Dieu come tanti raggi che promanano dall’unico sole? La gloria di Colui che è «l’autore della bellezza» rifulge sul volto di Gesù, il Cristo (2Corinti 4,6), il Messia cantato dal Salmista come «il più bello tra i figli dell’uomo» (Salmo 45,3), e si effonde nel cuore dei cristiani grazie all’azione dello Spirito santificato re, che plasma il loro volto a immagine e somiglianza del volto di Cristo,trasformando le loro individualità biologiche in eventi di relazione e comunione.

E così la vita e la persona del cristiano possono conoscere qualcosa della bellezza della vita divina trinitaria, vita che è comunione, pericoresi di amore. La santità è bellezza che contesta la bruttura della chiusura in sé, dell’egocentrismo, della philautia. È gioia che contesta la tristezza di chi non si apre al dono di amore, come il giovane ricco che «sene andò triste» (Matteo 19,22).

Ha scritto Léon Bloy: «Non c’è che una tristezza, quella di non essere santi». Ecco la santità, e la bellezza, come dono e responsabilità del cristiano. All’interno di un mondo che «è cosa bella» – come scandisce il racconto della Genesi – l’uomo viene creato da Dio nella relazione di alterità maschio-femmina estabilito come partner adeguato per Dio, capace di ricevere i doni del suo amore, e quest’opera creazionale viene lodata come «molto bella» (Genesi 1,31).

In un mondo chiamato alla bellezza, l’uomo, che è posto come responsabile del creato, ha la responsabilità della bellezza del mondo e della propria vita, di sé e degli altri. Se labellezza è «una promessa di felicità» (Stendhal), allora ogni gesto, ogni parola, ogni azione ispirata a bellezza è profezia del mondo redento, dei cieli nuovi e della terra nuova, dell’umanità riunita nella Gerusalemme celeste in una comunione senza fine.

La bellezza diviene profezia della salvezza: «è la bellezza» ha scritto Dostoevskij «che salverà il mondo».

Chiamati alla santità, i cristiani sono chiamati alla bellezza, ma allora noi ci possiamo porre questo interrogativo: che ne abbiamo fatto del mandato di custodire, creare e vivere la bellezza?

Si tratta infatti di una bellezza da instaurare nelle relazioni, per fare della chiesa una comunità in cui si vivano realmente rapporti fraterni,ispirati a gratuità, misericordia e perdono; in cui nessuno dica all’altro: «lo non ho bisogno di te» (1 Corinti 12,21), perché ogni ferita alla comunione sfigura anche labellezza dell’unico Corpo di Cristo.

È una bellezza che deve caratterizzare la chiesa come luogo di luminosità (cfr. Matteo 5,14-16), spazio di libertà e non di paura, di dilatazione e non di conculcamento dell’umano, di simpatia e non di contrapposizione con gli uomini, di condivisione e solidarietà soprattutto con i più poveri.

È bellezza che deve pervadere gli spazi, le liturgie, gli ambienti, e soprattutto quel tempio vivente diDio che sono le persone stesse. È la bellezza che emerge dalla sobrietà, dalla povertà,dalla lotta contro l’idolatria e contro la mondanità. È la bellezza che rifulge là dove si fa vincere la comunione invece del consumo, la contemplazione e la gratuità invece del possesso e della voracità. Sì, il cristianesimo è philocalia, via di amore del bello, e la vocazione cristiana alla santità racchiude una vocazione alla bellezza, a fare dellapropria vita un capolavoro di amore. Il comando «Siate santi perché io, il Signore, sono santo» (Levitico 19,2; 1Pietro 1,16) è ormai inscindibile dall’altro: «Amatevi gli uni glialtri come io vi ho amati» (Giovanni 13,34).

La bellezza cristiana non è un dato, ma un evento. Un evento di amore che narra sempre di nuovo, in maniera creativa e poetica, nella storia, la follia e la bellezza tragica dell’amore con cui Dio ci ha amati donandoci suo Figlio, Gesù Cristo.

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