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Lessico della Vita Interiore III

Le parole della spiritualità 3

Autore: Autori Vari

ACEDIA. : «Atonia dell’anima.» Così Evagrio Pontico, monaco vissuto nel IV secolo, definiscel’akedia, quel male il cui nome è praticamente intraducibile in una lingua moderna e cheindica la situazione dello spirito afflitto da un malessere le cui sfumature comprendonodisgusto della vita, noia, scoraggiamento, pigrizia, sonnolenza, malinconia, nausea,riluttanza, tristezza, demotivazione… Giovanni Cassiano (IV-V secolo) l’ha trasmessoall’Occidente nella traslitterazione latina acedia e più tardi Gregorio Magno l’haidentificato, nella sua lista dei vizi capitali, con la tristitia. Malessere che secondoEvagrio affligge particolarmente gli anacoreti (coloro che fanno una vita monasticapiuttosto solitaria e ritirata), in realtà l’acedia è soltanto stata osservata e riconosciutacon acutezza e lucidità negli ambienti monastici, ma è «un fenomeno comune a tuttal’umanità, anzi è il prezzo dell’essere uomo», afferma padre Gabriel Bunge, eminentestudioso di Evagrio.L’acedia si manifesta come un’instabilità che rende incapaci di unrapporto equilibrato con lo spazio e con il tempo: non si sopporta di rimanere insolitudine nella propria cella, non si riesce ad abitare il proprio corpo, ad habitaresecum, e si percepisce con pesantezza immane il trascorrere del tempo. Scrive Evagrio:«L’acedia fa sì che il sole appaia lento a muoversi o addirittura immobile, e che ilgiorno sembri di cinquanta ore». È una sorta di asfissia o soffocamento dell’anima checondanna l’uomo all’infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione (dilavoro, affettiva, sociale) in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda dipaure svariate (per esempio, di malattie più immaginarie che reali), inefficiente sullavoro, intollerante e incapace di sopportazione verso «gli altri» (che diventano spesso ilbersaglio su cui scaricare frustrazione e aggressività), impotente a governare i pensieriche si affollano nella propria anima e che lo gettano nello scoramento, in una taleinsoddisfazione di sé che egli si interroga se non abbia sbagliato tutto nella propria vita.Essa può divenire un vero e proprio stato depressivo (il Catechismo della ChiesaCattolica la definisce «una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, a unvenir meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore») in cui l’uomo è tentato diazzerare la propria vita passata (rompere il vincolo matrimoniale o abbandonare i votireligiosi o comunque «cambiare») o addirittura di darsi la morte. L’acedia, scrive Isaccoil Siro, «fa gustare l’inferno».Nelle antiche descrizioni monastiche essa è il «demonemeridiano» che colpisce soprattutto a metà del giorno, durante le ore più calde e pesantidella giornata (fra le dieci e le quattordici) prima dell’unico pasto che i monaciprendevano intorno alle quindici. Troviamo poi descrizioni analoghe, almenoparzialmente, in Pascal e Baudelaire, Kierkegaard e Guardini, Bergson e Jankélévitch;inoltre sono stati rilevati i contatti con forme depressive descritte dalla psicologia. Èinteressante notare che si è vista un’analogia fra questo male che di preferenza colpiscel’uomo nel mezzo del giorno, con la crisi del superamento della metà della vita, che siabbatte sull’uomo appunto fra i trentacinque e i quarant’anni. «Sembra che vi sia unacausa biologica alla base di quel senso di apprensione, di quei tormentati interrogativi,della mancanza di entusiasmo in uomini e donne poco dopo la trentina. È forse questolo stato d’animo che i dotti medievali chiamavano accidia, il peccato capitale di pigriziadello spirito? lo credo di sì» (Richard Church). Le svariate forme di reazione di fronte aquesta crisi sono del resto molto simili a quelle di chi è preda dell’accidia: diniego,rimozione, svalutazione di sé, arroccamento al potere, rigidismo legalista, depressione,eccessi nel bere e nel mangiare, intontimento…Ma come combattere l’acedia? Anzituttoaccettando i limiti costitutivi dell’esistenza umana: il passare del tempo e la mortalità (iPadri monastici esortavano alla memoria mortis), l’assunzione della responsabilità dellapropria vita passata e delle incapacità e imperfezioni che ci abitano, la perseveranza, lapazienza (che è l’arte di vivere l’incompiuto), una vita di relazioni, l’impegnare il corpoin attività lavorative, il farsi aiutare (per i Padri monastici, da un «padre spirituale»), lapreghiera. Evagrio in particolare dà un consiglio: «Fissati una misura in ogni opera».Ovvero, esercitati, dandoti una regola, a divenire padrone di te stesso.DESERTO«L’esperienza del deserto è stata per me dominante. Tra cielo e sabbia, fra il Tutto e ilNulla, la domanda diventa bruciante. Come il roveto ardente, essa brucia e non siconsuma. Brucia per se stessa, nel vuoto. L’esperienza del deserto è anche l’ascolto,l’estremo ascolto» (Edmond Jabès). Forse è questo legame con l’ascolto che fa sì chenella Bibbia il deserto, presenza sempre pregna di significato spirituale, sia cosìimportante. Certo, esso è anzitutto un luogo, e un luogo che nell’ebraico biblico hadiversi nomi: caravah, luogo arido e incolto, che designa la zona che si estende dal MarMorto fino al Golfo di Aqaba; chorbah, designazione più psicologica che geograficache indica il luogo desolato, devastato, abitato da rovine dimenticate; jeshimon, luogoselvaggio e di solitudine, senza piste, senz’acqua; ma soprattutto midbar, luogodisabitato, landa inospitale abitata da animali selvaggi, dove non crescono se nonarbusti, rovi e cardi. Il deserto biblico non è quasi mai il deserto di sabbia, ma è fruttodell’erosione del vento, dell’azione dell’acqua dovuta alle piogge rare ma violente, ed ècaratterizzato da brusche escursioni termiche fra il giorno e la notte (cfr. Salmo 121,6).Refrattario alla presenza umana e ostile alla vita (Numeri 20,5), il deserto, questo luogodi morte, rappresenta nella Bibbia la necessaria pedagogia del credente, l’iniziazioneattraverso cui la massa di schiavi usciti dall’Egitto diviene il popolo di Dio. È insostanza luogo di rinascita. E, del resto, la nascita del mondo come cosmo ordinato nonavviene forse a partire dal caos informe del deserto degli inizi? La terra segnata damancanza e negatività («Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespugliocampestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dionon aveva fatto piovere sulla terra»: Genesi 2,4b-5) diviene il giardino apprestato perl’uomo nell’opera creazionale (Genesi 2,8-15). E la nuova creazione, l’era messianica,non sarà forse un far fiorire il deserto? «Si rallegreranno il deserto e la terra arida,esulterà e fiorirà la steppa, fiorirà come fiore di narciso» (Isaia 35,1-2). Ma tra primacreazione e nuova creazione si stende l’opera di creatio continua, l’intervento salvificodi Dio nella storia. Ed è in quella storia che il deserto appare come luogo delle grandirivelazioni di Dio: nel midbar (deserto), dice il Talmud, Dio si fa sentire comemedabber (colui che parla). È nel deserto che Mosè vede il roveto ardente e riceve larivelazione del Nome (Esodo 3,1-14); è nel deserto che Dio dona la Legge al suopopolo, lo incontra e si lega a lui in alleanza (Esodo 19-24); è nel deserto che colma didoni il suo popolo (la manna, le quaglie, l’acqua dalla roccia); è nel deserto che si fapresente a Elia nella «voce di un silenzio sottile» (1Re 19,12); è nel deserto che attirerànuovamente a sé la sua sposa-Israele dopo il tradimento di quest’ultima (Osea 2,16) perrinnovare l’alleanza nuziale…Ecco dunque abbozzata, tra negatività e positività, lafondamentale bipolarità semantica del deserto nella Bibbia che abbraccia i tre grandiambiti simbolici a cui il deserto stesso rinvia: lo spazio, il tempo, il cammino. Spazioostile da attraversare per giungere alla terra promessa; tempo lungo ma a termine, conuna fine, tempo intermedio di un’attesa, di una speranza; cammino faticoso, duro, traun’uscita da un grembo di schiavitù e l’ingresso in una terra accogliente, «che stilla lattee miele»: ecco il deserto dell’esodo! La spazialità arida, monotona, fatta silenzio, deldeserto si riverbera nel paesaggio interiore del credente come prova, come tentazione.Valeva la pena l’esodo? Non era meglio rimanere in Egitto? Che salvezza è mai quellain cui si patiscono la fame e la sete, in cui ogni giorno porta in dote agli umani lavisione del medesimo orizzonte? Non è facile accettare che il deserto sia parteintegrante della salvezza! Nel deserto allora Israele tenta Dio, e il luogo desertico simostra essere un terribile vaglio, un rivelatore di ciò che abita il cuore umano.«Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questiquarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevinel cuore» (Deuteronomio 8,2). Il deserto è un’educazione alla conoscenza di sé, e forseil viaggio intrapreso dal padre dei credenti, Abramo, in risposta all’invito di Dio«Va’verso te stesso!» (Genesi 1 2,1), coglie il senso spirituale del viaggio nel deserto. Ildeserto è il luogo delle ribellioni a Dio, delle mormorazioni, delle contestazioni (Esodo14,11-12; 15,24; 16,2-3.20.27; 17,2-3.7; Numeri 12,1-2; 14,2-4; 16,3-4; 20,2-5; 21,4-5).Anche Gesù vivrà il deserto come noviziato essenziale al suo ministero: il faccia afaccia con il potere dell’illusione satanica e con il fascino della tentazione svelerà inGesù un cuore attaccato alla nuda Parola di Dio (Matteo 4,1-11). Fortificato dalla lottanel deserto, Gesù può intraprendere il suo ministero pubblico!Il deserto appare anchecome tempo intermedio: non ci si installa nel deserto, lo si traversa. Quaranta anni,quaranta giorni: è il tempo del deserto per tutto Israele, ma anche per Mosè, per Elia,per Gesù. Tempo che può essere vissuto solo imparando la pazienza, l’attesa, laperseveranza, accettando il caro prezzo della speranza. E, forse, l’immensità del tempodel deserto è già esperienza e pregustazione di eternità! Ma il deserto è anche cammino:nel deserto occorre avanzare, non è consentito «disertare», ma la tentazione è laregressione, la paura che spinge a tornare indietro, a preferire la sicurezza dellaschiavitù egiziana al rischio dell’avventura della libertà. Una libertà che non è situata altermine del cammino, ma che si vive nel cammino. Però per compiere questo camminooccorre essere leggeri, con pochi bagagli: il deserto insegna l’essenzialità, èapprendistato di sottrazione e di spoliazione. Il deserto è magistero di fede: esso aguzzalo sguardo interiore e fa dell’uomo un vigilante, un uomo dall’occhio penetrante.L’uomo del deserto può così riconoscere la presenza di Dio e denunciare l’idolatria.Giovanni Battista, uomo del deserto per eccellenza, mostra che in lui tutto è essenziale:egli è voce che grida chiedendo conversione, è mano che indica il Messia, è occhio chescruta e discerne il peccato, è corpo scolpito dal deserto, è esistenza che si fa camminoper il Signore («nel deserto preparate la via del Signore!», Isaia 40,3). TI suo cibo èparco, il suo abito lo dichiara profeta, egli stesso diminuisce di fronte a colui che vienedopo di lui: ha imparato fino in fondo l’economia di diminuzione del deserto. Ma havissuto anche il deserto come luogo di incontro, di amicizia, di amore: egli è l’amicodello sposo che sta accanto allo sposo e gioisce quando ne sente la voce.Sì, è a questaambivalenza che ci pone di fronte il deserto biblico, e così esso diviene cifradell’ambivalenza della vita umana, dell’esperienza quotidiana del credente, della stessacontraddittoria esperienza di Dio. Forse ha ragione Henri le Saux quando scrive che«Dio non è nel deserto. È il deserto che è il mistero stesso di Dio».ATTESA DEL SIGNORE«Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa dellatua venuta.» Al cuore della celebrazione eucaristica, queste parole ricordano al cristianoun elemento costitutivo della sua identità di fede: l’attesa della venuta del Signore. «Ilcristiano», ha scritto il cardinale Newman, «è colui che attende il Cristo.» Certo, neitempi del «tutto e subito», dell’efficacia e della produttività, in cui anche i cristianiappaiono spesso segnati da attivismo, parlare di «attesa» può rischiare l’impopolarità el’incomprensione totale: a molti infatti «attesa» appare sinonimo di passività e inerzia,di evasione e de- responsabilizzazione. In realtà il cristiano, che non si lascia definiresemplicemente da ciò che fa, ma dalla relazione con il Cristo, sa che il Cristo che egliama e in cui pone la fiducia è il Cristo che è venuto, che viene nell’oggi e che verrànella gloria. Davanti a sé il cristiano non ha dunque il nulla o il vuoto, ma una speranzacerta, un futuro orientato dalla promessa del Signore: «Sì, verrò presto» (Apocalisse22,20). In realtà «attendere», a partire dalla sua etimologia latina (ad-tendere), indicauna «tensione verso», «un’attenzione rivolta a», un movimento centrifugo dello spiritoin direzione di un altro, di un futuro. Potremmo dire che l’attesa è un’azione, peròun’azione non chiusa nell’oggi, ma che opera sul futuro. La Seconda lettera di Pietroesprime questa dimensione affermando che i cristiani affrettano, con la loro attesa, lavenuta del giorno del Signore (2 Pietro 3,12).La particolare visione cristiana del tempo,che fa del credente «un uomo che ha speranza» (cfr. 1Tessalonicesi 4,13), «che attendeil Cristo» (Filippesi 3,20; Ebrei 9,28), che è definito non solo dal suo passato ma anchedal futuro e da ciò che il Cristo in tale futuro opererà, dovrebbe diventare una preziosatestimonianza (o, forse, controtestimonianza) per il mondo attuale dominato da unaconcezione del tempo come tempo vuoto che evolve in un continuum che esclude ogniattesa essenziale e ingenera quel fatalismo e quella incapacità di attesa tipici dell’uomomoderno. Venir meno a questa dimensione significa pertanto non solo sminuire laportata integrale della fede, ma anche privare il mondo di una testimonianza di speranzache esso ha diritto di ricevere dai cristiani (cfr. 1Pietro 3,15). L’uomo è anche attesa: sequesta dimensione antropologica essenziale, che afferma che l’uomo è ancheincompiutezza, viene misconosciuta, allora il pericolo dell’idolatria è alle porte, el’idolatria è sempre auto sufficienza del presente. La venuta del Signore impone inveceal cristiano attesa di ciò che sta per venire e pazienza verso ciò che non sa quando verrà.E la pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, di vivere la parzialità e la frammentazionedel presente senza disperare. Essa non è soltanto la capacità di sostenere il tempo, dirimanere nel tempo, di perseverare, ma anche di sostenere gli altri, di sopportarli, cioèdi assumerli con i loro limiti e portarli. Ma è l’attesa del Signore, l’ardente desideriodella sua venuta, che può creare uomini e donne capaci di pazienza nei confronti deltempo e degli altri.E qui vediamo come l’attesa paziente sia segno di forza e di solidità,di stabilità e di convinzione, non di debolezza. E soprattutto è l’attitudine che rivela unprofondo amore, per il Signore e per gli altri uomini: «L’amore pazienta» (1Corinti13,4). Mossa dall’amore, l’attesa diviene desiderio, desiderio dell’incontro con ilSignore (2 Corinti 5,2; Filippesi 1,23). Anzi, l’attesa del Signore porta il cristiano adisciplinare il proprio desiderio, a imparare a desiderare, a frapporre una distanza tra sée gli oggetti desiderati, a passare da un atteggiamento di consumo a uno di condivisionee di comunione, a un atteggiamento eucaristico. L’attesa del Signore genera nelcredente anzitutto la gratitudine, il rendimento di grazie e la dilatazione del cuore che siunisce e dà voce all’attesa della creazione tutta: «La creazione attende con impazienzala rivelazione dei figli di Dio […] e nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitùdella corruzione» (Romani 8,19-21). È la creazione tutta che attende cieli e terra nuovi,che attende trasfigurazione, che attende il Regno. L’attesa della venuta del Signore daparte dei cristiani diviene così invocazione di salvezza universale, espressione di unafede cosmica che consoffre con ogni uomo e con ogni creatura. Ma se queste sono levalenze dell’attesa del Signore, se questa è una precisa responsabilità dei cristiani,dobbiamo lasciarci interpellare dall’accorato e provocante appello lanciato a suo tempoda Teilhard de Chardin: «Cristiani, incaricati, dopo Israele, di custodire sempre viva lafiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa?».RICERCA DI DIO«Dio vuole essere cercato, e come potrebbe non voler essere trovato? Il nipote di R.Baruch, il quale era a sua volta nipote del Baal Shem, giocava una volta a rimpiattinocon un altro ragazzo. Egli si nascose e stette lungo tempo là ad attendere, credendo cheil compagno lo cercasse e non riuscisse a trovarlo. Ma dopo che ebbe aspettato a lungo,uscì fuori, e non vedendo più quell’altro, capì che costui non l’aveva mai cercato. Ecorse nella camera del nonno, piangendo e gridando contro il cattivo compagno. Con lelacrime agli occhi R. Baruch disse: “Lo stesso dice anche Dio”». Dio vuole esserecercato, dice questa storiella chassidica. Oggi, altre storie e altre lacrime, sempreebraiche, pongono in modo differente la questione della ricerca di Dio: sono le storie ele lacrime sgorgate da quell’abisso di male rappresentato da Auschwitz. Scrive ElieWiesel: «Dio e Auschwitz non vanno insieme. Non accetto e reclamo, esigo unarisposta… Dio nel male? In quale male? E Dio nella sofferenza? In quale sofferenza? lonon so. Non ho risposta. Cerco sempre». E accanto ad Auschwitz, prima e dopo, gli altrigenocidi, gli altri sterminii, le sofferenze degli innocenti, di milioni di uomini ovunquenel mondo, pongono in modo tragicamente rinnovato la domanda «dov’è Dio?». Nelconflitto con il male che si gioca nella storia Dio sembra soccombere, e nettamente! Etutto questo non può non dare un orientamento particolare al modo di interrogarsi oggisulla ricerca di Dio, su quel quaerere Deum che è sempre stato uno dei temi piùsignificativi e importanti della spiritualità cristiana. Anzi, tutto questo arriva a porre inradicale questione i termini dell’argomento: quale ricerca? e di quale Dio?La Scritturaattesta l’indiscutibile priorità della ricerca che Dio fa dell’uomo, afferma che l’uomo e ilsuo mondo sono la sfera di interesse di Dio, che la rivelazione di Dio precede e fonda laconoscenza che l’uomo può avere di Lui. Ovviamente non si tratta tanto di una prioritàcronologica, perché il problema di Dio è inscritto nell’uomo stesso, nelle domande cheegli porta su di sé e sul senso della propria vita e del mondo. Pertanto, domanda su Dioe domanda sull’uomo sono naturalmente unite. Le grandi tradizioni religiose hannosempre affermato l’inscindibilità delle due questioni: non solo i tre monoteismi, maanche la religione grecoromana, la cui linfa è stata assorbita dalle nostre radici dieuropei occidentali. L’uomo che si recava al tempio di Apollo a Delfi per consultarel’oracolo si vedeva rimandato a se stesso dall’iscrizione posta sul frontone del tempio:«Conosci te stesso». Riproporre oggi questa tematica implica il rendersi conto delladrammaticità assunta da questa doppia domanda: alla figura del filosofo cinico Diogeneche in pieno giorno si aggira per le strade di Atene con una lanterna gridando: «Cercoun uomo! », si sovrappone la figura del pazzo nietzschiano che, anch’egli in pienogiorno e munito di lanterna, grida sulla pubblica piazza: «Cerco Dio!», e rivela a chi loderide che Dio è morto, è stato assassinato dall’uomo, e celebra il funesto eventoentrando in una chiesa e intonando un Requiem aeternam Deo. E risponde a chi lointerroga: «Che altro sono ancora le chiese se non le tombe e i monumenti funebri diDio?». Ma, osservava giustamente M. Foucault, «più che la morte di Dio, ciò cheannuncia il pensiero di Nietszche è la morte del suo assassino, cioè dell’uomo».Nell’attuale clima culturale nichilista, di secolarizzazione della secolarizzazione,l’uomo contemporaneo «è non solo senza Dio, ma anche senza l’uomo» (C. Geffré).Egli si muove smarrito nell’assenza di certezze, respira un assurdo caratterizzato nontanto dal non-senso, quanto dall’isolamento degli innumerevoli sensi, dall’assenza di unsenso che li orienti, dalla mancanza del senso del senso, come ricordava Lévinas.Sintomatico di questo smarrimento di sé tipico dell’uomo contemporaneo è il tantoconclamato «ritorno di Dio», visibile dietro ai fenomeni di ritorno del sacro, dietro alfiorire di sètte, movimenti sincretistici, aggregazioni varie, dietro al diffondersi disensibilità e atteggiamenti spirituali in cui Dio è immediatamente trovato, più checercato, in un divino impersonale, nella fusione con l’Oceano dell’Essere, nell’evasioneverso il taumaturgico, nella preghiera ridotta a ingiunzione a Dio affinché soddisfi ilbisogno umano. Tutto questo ci dice che oggi ricerca di Dio dev’essere anche ricerca eapprofondimento dell’umano, ricerca di ciò che è veramente umano, capacità diridestare l’umanità là dove è assopita. li Dio rivelato dalle Scritture ebraico-cristianenon ha infatti altri luoghi in cui essere cercato se non la storia e la carne umana,l’umanità. Storia e carne umana che sono anche i due ambiti abitati da Dionell’incarnazione per andare incontro all’uomo, alla sua ricerca, e consentire cosìall’uomo di trovarlo.E non dimentichiamo che Dio non lo si possiede nemmeno quandolo si conosce: «Si comprehendis, non est Deus» scrive Agostino; cioè, «se pensi diaverlo compreso, non è più Dio». La categoria della ricerca salvaguarda la distanza fracercatore e Cercato: distanza essenziale perché il Cercato non è oggetto, ma è anch’eglisoggetto, anzi è il vero soggetto, in quanto è colui che per primo ha cercato, chiamato,amato, suscitando così, come risposta alla sua iniziative, la ricerca e il desideriodell’uomo. L’atteggiamento di ricerca implica l’atteggiamento fondamentaledell’umiltà, grazie alla quale soltanto può fondarsi il rapporto con l’altro. Cercare Diosignifica deporre le presunzioni di autosufficienza, smettere di pensare di essere idetentori della verità, cessare di considerarsi superiori agli altri. Ricerca di Dio, allora,significa anche cercarlo nell’altro che abbiamo di fronte, confessarlo come non estraneoall’altro.PAZIENZALa Scrittura attesta che la «pazienza» è anzitutto una prerogativa divina: secondo Esodo34,6 Dio è makrothymos, «longanime», «magnanimo», «paziente» (in ebraicol’espressione equivalente suona letteralmente: «lento all’ira»). Il Dio legato in alleanzaal popolo dalla «dura cervice» non può che essere costitutivamente paziente. Questapazienza è stata manifestata compiutamente nell’invio del Figlio Gesù Cristo e nella suamorte per i peccatori, ed è ancora ciò che regge il tempo presente: «Il Signore nonritarda nell’adempire la promessa […], ma usa pazienza (makrothymei) verso di voi, nonvolendo che alcuno perisca, ma che tutti giungano a conversione» (2 Pietro 3,9). Lapazienza del Dio biblico si esprime al meglio nel fatto che Egli è il Dio che parla:parlando, dona il tempo all’uomo per una risposta, e quindi attende che questa arrivi allaconversione. La pazienza di Dio non va confusa con l’impassibilità di Dio, anzi, essa èil «lungo respiro della sua passione» (E. Jüngel), è la lungimiranza del suo amore, unamore che «non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ezechiele33,11), ed è una forza operante anche quando il movimento di conversione non è ancoracompiuto. La pazienza di Dio trova così la sua espressione più pregnante nella passionee croce di Cristo: lì la dissimmetria fra il Dio che pazienta e l’umanità peccatrice siamplia a dismisura nella passione di amore e di sofferenza di Dio nel Figlio Gesù Cristocrocifisso. Da allora la pazienza, come virtù cristiana, è un dono dello Spirito (Galati5,22) elargito dal Crocifisso-Risorto, e si configura come partecipazione alle energieche provengono dall’evento pasquale.Per il cristiano la pazienza è dunque coestensivaalla fede: ed è sia perseveranza, cioè fede che dura nel tempo, che makrothymia,«capacità di guardare e sentire in grande», cioè arte di accogliere e viverel’incompiutezza. Questo secondo aspetto dice come la pazienza sia necessariamenteumile: essa porta l’uomo a riconoscere la propria personale incompiutezza, e diventapazienza verso se stessi; essa riconosce l’incompiutezza e la fragilità delle relazioni congli altri, strutturandosi così come pazienza nei confronti degli altri; confessal’incompiutezza del disegno divino di salvezza, configurandosi come speranza,invocazione e attesa di salvezza. La pazienza è la virtù di una chiesa che attende ilSignore, che vive responsabilmente il non ancora senza anticipare la fine e senza ergerese stessa a fine del disegno di Dio. Essa rigetta l’impazienza della mistica comedell’ideologia e percorre la via faticosa dell’ascolto, dell’obbedienza e dell’attesa neiconfronti degli altri e di Dio per costruire la comunione possibile, storica e limitata, congli altri e con Dio. La pazienza è attenzione al tempo dell’altro, nella piena coscienzache il tempo lo si vive al plurale, con gli altri, facendone un evento di relazione, diincontro, di amore. Per questo, forse, oggi, nell’epoca stregata dal fascino del «temposenza vincoli» – in cui la libertà viene spesso immaginata come l’assenza di legami, divincoli, come possibilità di operare dei ricominciamenti assoluti dall’oggi al domani,che riportino a un incontaminato punto di partenza, azzerando o rimuovendo tutto ciò incui prima si viveva, e anzitutto le relazioni e gli impegni assunti – può apparire cosìfuori luogo, e al tempo stesso così urgente e necessario, il discorso sulla pazienza: sì,per il cristiano, essa è centrale quanto l’agape, quanto il Cristo stesso. TI pazientare,cioè l’assumere come determinante nella propria esistenza il tempo dell’altro (di Dio edell’altro uomo), è infatti opera dell’amore. «L’amore pazienta» (makrothymei), dicePaolo (1 Corinti 13,4). E la misura e il criterio della pazienza del credente non possonorisiedere, in ultima istanza, che nella «pazienza di Cristo»(2 Tessalonicesi 3,5:hypomonè tou Christou).Ecco perché spesso la pazienza è stata definita dai Padri dellachiesa come la summa virtus (cfr. Tertulliano, De patientia 1,7): essa è essenziale allafede, alla speranza e alla carità. Ha scritto Cipriano di Cartagine: «Il fatto di esserecristiani è opera della fede e della speranza, ma perché la fede e la speranza possanogiungere a produrre frutti, abbisognano della pazienza» (Cipriano, De bono patientiae13). Innestata nella fede in Cristo, la pazienza diviene «forza nei confronti di se stessi»(Tommaso d’Aquino), capacità di non disperare, di non lasciarsi abbattere nelletribolazioni e nelle difficoltà, diviene perseveranza, capacità di rimanere e durare neltempo senza snaturare la propria verità, e diviene anche capacità di sup-portare gli altri,di sostenere gli altri e la loro storia. Nulla di eroico in questa operazione spirituale, masolo la fede di essere a propria volta sostenuti dalle braccia del Cristo stese sulla croce.In questa difficile opera il credente è sorretto da una promessa: «Chi persevera fino allafine sarà salvato» (Matteo 10,22; 24, 13). Promessa che non va intesa semplicementecome un rimanere saldi in una professione di fede, ma come un mettere in pratica lapazienza e l’attiva sopportazione tanto nei rapporti intra-ecclesiali, intra-comunitari(«sopportatevi a vicenda», Colossesi 3,13), quanto nei rapporti della comunità cristianaad extra, con tutti gli altri uomini («siate pazienti con tutti», 1Tessalonicesi 5,14). Lapazienza diviene così una categoria che interpella la struttura interna della comunitàcristiana e il suo assetto nel mondo, in mezzo agli altri uomini, ai non credenti. E mentreinterpella, inquieta!

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