La fedeltà nel tempo
tratto da "Lessico della Vita Interiore" IV
Autore: Enzo Bianchi
FEDELTÀ NEL TEMPO :
«Ascoltate oggi la sua voce» (Salmo 95,7): nella Bibbia è l’alleanza con il Signore chedefinisce il tempo di Israele, del popolo di Dio: un tempo esistenziale misurato suldavar, la parola-evento del Signore, e sull’obbedienza del popolo di Dio a questaparola. Il tempo nella Scrittura è sempre legato alla storicità radicale dell’uomo, alla sua struttura di creatura che nell’oggi decide il proprio destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. Per questo la storia è orientata a un télos – fine e meta –svelato dagli interventi di Dio che si manifesta nei progressi e nelle regressioni dell’umanità, ed è storia di salvezza perché Dio chiama continuamente l’uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli fornisce i mezzi per farlo nell’attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini.
È questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la «pienezza del tempo» (Galati 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la suapassione-morte-resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell’attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero. Con la primavenuta di Gesù nella carne ha inizio un kairos, un tempo propizio che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che il tempo è compiuto(Marco 1,15), che l’ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi ecredere all’Evangelo (Marco 1,15; Matteo 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo di grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente sicché l’oggi concreto è immerso nella luce della salvezza.
Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza (cfr. 2 Corinti 6,2)!
Il primo atteggiamento del cristiano di fronte al tempo è allora quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza allaParola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Chronos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (cfr. Luca 12,56), di «discernere i segni dei tempi» (Matteo 16,3) per giungere a cogliere «il tempo della visita di Dio» (Luca 19,44). Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: «Ho detto: Tu il mio Dio; i miei tempi nella tua mano»(Salmo 3I,I5B-I6A).
È l’atteggiamento fondamentale: i nostri giorni infatti non ciappartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’orante chiede a Dio: «Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni» (Salmo 39,5) e invoca: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza» (Salmo 90,12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dioche irrompe nel proprio oggi.
Il cristiano deve «vegliare e pregare in ogni tempo» (Luca21,36), impegnato in una lotta antidolatrica in cui il tempo alienato è l’idolo, il tirannoche cerca di dominare e rendere schiavo l’uomo. Per Paolo il cristiano deve cercare diusare il tempo a disposizione per operare il bene (cfr. Galati 6,10), deve approfittare del tempo e, soprattutto, quale uomo sapiente, deve salvare, redimere, liberare, riscattare iltempo (cfr. Efesini 5,16; Colossesi 4,5).
Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza.
Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del «dio di questo mondo» (2 Corinti 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio (cfr. 1Pietro 1,17), in attesa dellarealtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Corinti 15,28). Il cristiano infatti sa– e non ci si stancherà mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlarené di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e l’attualità – il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei 13,8; cfr. Apocalisse 1,17). Il télos delle nostre vite è la vitaeterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.Se questa è la dimensione autentica del tempo del cristiano, allora capiamo in profondità la portata di queste affermazioni di Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio,dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro.
Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, “memoria”, altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno “smemorato”, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile».Scritte più di cinquant’anni fa, queste parole sono ancora molto attuali e pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensioni a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei «valori di una volta» potrebbe auspicareun ritorno. Ma se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, laperseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazionecon l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza perseveranza e fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune,fatta insieme.
Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sabene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio GesùCristo, «l’Amen, il Testimone fedele e verace» (Apocalisse 3,14) in cui «tutte le promesse di Dio sono diventate sì» (cfr. 2 Corinti 1,20).Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica. La fede esce dall’astrattezza quando non si limita a informare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della suaintera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato,di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale. La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso.
E questo indica che le dimensioni della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un«tu», a una persona amata o a una causa amata come un «tu»: non ogni fedeltà è pertanto autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni.
Jankélévitch definisce la fedeltà come «la volontà di non cedere all’inclinazione apostatica».
Essa è pertanto un’attiva lotta la cui arena è il cuore umano. È nel cuore che si gioca la fedeltà! Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture diimpegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano frequentemente in questa griglia. E dicono come sia limitante, all’interno della chiesa, ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare. In gioco vi è sempre il mistero di una persona, non semplicemente un gesto di rottura da sanzionare. Il gesto di rottura va assunto come rivelatore della situazione del cuore, cioè della persona.
Anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità traversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano «fedele» è colui che è capace di memoria Dei, che ricordal’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa,avviene nell’anamnesi eucaristica.
CONVERSIONE
«Convertitevi e credete all’Evangelo!» (Marco 1,15); «Convertitevi, perché il Regno deicieli è vicinissimo!» (Matteo 4, I 7 ). La richiesta di conversione è al cuore delle due differenti redazioni del grido con cui Gesù ha dato inizio al suo ministero di predicazione. Collocandosi in continuità con le richieste di ritorno al Signore di Osea,di Geremia e di tutti i profeti fino a Giovanni Battista (cfr. Matteo 3,2), anche Gesù chiede conversione, cioè ritorno (in ebraico teshuvah) al Dio unico e vero. Questa predicazione è anche quella della chiesa primitiva e degli apostoli (cfr. Atti 2,38; 3,19) e non può che essere la richiesta e l’impegno della chiesa di ogni tempo.Il verbo shuv, cheappunto significa «ritornare», è connesso a una radice che significa anche «rispondere»e che fa della conversione, del sempre rinnovato ritorno al Signore, la responsabilitàdella chiesa nel suo insieme e di ciascun singolo cristiano.
La conversione non è infattiun’istanza etica, e se implica l’allontanamento dagli idoli e dalle vie di peccato che sistanno percorrendo (cfr. 1 Tessalonicesi 1,9; 1 Giovanni 5,21), essa è motivata e fondataescatologicamente e cristologicamente: è in relazione all’Evangelo di Gesù Cristo e alRegno di Dio, che in Cristo si è fatto vicinissimo, che la realtà della conversione trovatutto il suo senso. Solo una chiesa sotto il primato della fede può dunque vivere ladimensione della conversione. E solo vivendo in prima persona la conversione la chiesapuò anche porsi come testimone credibile dell’Evangelo nella storia, tra gli uomini, edunque evangelizzare. Solo concrete vite di uomini e donne cambiate dall’Evangelo,che mostrano la conversione agli uomini vivendola, potranno anche richiederla aglialtri. Ma se non c’è conversione, non si annuncia la salvezza e si è totalmente incapacidi richiedere agli uomini un cambiamento. Di fatto, dei cristiani mondani possonosoltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di vederel’efficacia della salvezza: così essi sono di ostacolo all’evangelizzazione e depotenzianola forza dell’Evangelo. Dice un bel testo omiletico di Giovanni Crisostomo: «Non puoipredicare? Non puoi dispensare la parola della dottrina? Ebbene, insegna con le tueazioni e con il tuo comportamento, o neobattezzato.
Quando gli uomini che ti sapevanoimpudico o cattivo, corrotto o indifferente, ti vedranno cambiato, convertito, nondiranno forse come i giudei dicevano dell’uomo cieco dalla nascita che era stato guarito:“È lui?”. “Sì è lui!” “No, ma gli assomiglia”. “Non è forse lui?”». Possiamo insommadire che la conversione non coincide semplicemente con il momento iniziale della fedein cui si perviene all’adesione a Dio a partire da una situazione «altra», ma è la formadella fede vissuta.Si pone qui un problema per la maggioranza dei cristiani: essi,normalmente, sono cristiani per tradizione familiare, battezzati alla nascita, istruiti dalcatechismo e approdati naturalmente alla vita ecclesiale. Essi pertanto non conosconoquel cambiamento tra un prima e un dopo, tra una situazione non cristiana e unpassaggio alla fede che caratterizza, in senso stretto, il «convertito». Al tempo stessooggi riappaiono all’orizzonte persone che riprendono un cammino cristiano dopo moltianni di esilio dalla fede, o che si dicono convertite perché hanno incontrato in modo
imprevedibile il Cristo oppure perché hanno maturato lentamente questa adesione alcristianesimo. Ricompare cioè, anche nei nostri paesi di antica cristianità, il fenomenodella conversione, e questo potrebbe aiutare tutti i cristiani a comprendernel’essenzialità, a vedere come la vita cristiana stessa si debba intendere in termini diconversione sempre da rinnovarsi.La conversione attesta la perenne giovinezza delcristianesimo: il cristiano è colui che sempre dice: «Io oggi ricomincio».
Essa nascedalla fede nella resurrezione di Cristo: nessuna caduta, nessun peccato ha l’ultimaparola nella vita del cristiano, ma la fede nella resurrezione lo rende capace di crederepiù alla misericordia di Dio che all’evidenza della propria debolezza, e di riprendere ilcammino di sequela e di fede. Gregorio di Nissa ha scritto che nella vita cristiana si va«di inizio in inizio attraverso inizi che non hanno mai fine». Sì, sempre il cristiano e lachiesa abbisognano di conversione, perché sempre devono discernere gli idoli che sipresentano alloro orizzonte, e sempre devono rinnovare la lotta contro di essi permanifestare la signoria di Dio sulla realtà e sulla loro vita. In particolare, per la chiesanel suo insieme, vivere la conversione significa riconoscere che Dio non è un propriopossesso, ma il Signore. Implica il vivere la dimensione escatologica, dell’attesa delRegno di Dio che deve venire e che la chiesa non esaurisce, ma annuncia. E annunciacon la propria testimonianza di conversione.
ATTENZIONE
La tradizione cristiana ha definito prosoché, «attenzione», l’atteggiamento di«concentrazione», di «tensione interiore verso», di «fissazione della mente su».L’espressione (anche nel latino attentio e attendere) ha una connotazione dinamica percui chi fa attenzione è colui che è teso verso qualcosa. In profondità essa non è l’atto diuna particolare facoltà dell’uomo, ma un movimento dell’intero essere umano, corpo espirito. Scoperto il senso, il centro, lo scopo di un’esistenza, l’attenzione è la condottaunificata dell’uomo alla luce di tale meta, è la dedizione profonda a tale centro.Crescere nella capacità di attenzione significa crescere nell’unificazione personale. Lediscipline ascetiche e le tecniche di meditazione orientali conoscono bene l’attenzione:secondo il buddhismo è attraverso di essa che si può pervenire alla visione penetrativadella realtà, a quella che i Padri del deserto e la tradizione cristiana chiamano «dio rasi»(cioè visione profonda, al di là delle apparenze e delle esteriorità). Tuttavia, per ilcristianesimo le radici della prosoché affondano nella dottrina ebraica della kawwanah,cioè dell’atteggiamento interiore di attenzione e vigilanza del cuore e dei sensi nellarelazione con Dio, di adesione di tutto l’essere alle parole della preghiera e dellaScrittura e soprattutto, attraverso di esse, alla presenza di Dio. Ecco perché nellatradizione cristiana l’attenzione sarà richiesta particolarmente nella celebrazioneliturgica (opus Dei) e nella lettura biblica (lectio divina).Ma l’attenzione è realtàinfinitamente più profonda. Essa è una lucida presenza a se stessi che divienediscernimento della presenza del Dio che è nell’uomo. Scrive Basilio commentando ilversetto biblico «Sii attento a te stesso» (Deuteronomio 15,9): «Sii attento a te stessoper essere attento a Dio». Questa attenzione diviene lotta contro i pensieri che dis-traggono l’uomo, che lo allontanano dal suo centro, diviene custodia del cuore:«L’attenzione è il silenzio ininterrotto del cuore da ogni pensiero» (Esichio di Batos).
Vi è cioè un aspetto di lotta insito nell’attenzione: occorre vigilare sui pensieri chesorgono nel cuore, riconoscerli nella loro natura e origine, estirpare quelli che sonoperniciosi e impedire che la suggestione diventi azione, cioè consumazione di peccato,grazie al dialogo, all’intrattenimento interiore con essa. L’attenzione opera così lapurificazione del cuore e diviene preghiera. Giocando sull’assonanza fra prosoché(attenzione) e proseuché (preghiera) i Padri greci hanno mostrato i legami strettissimifra le due realtà. «L’attenzione che cerca la preghiera troverà la preghiera: la preghierainfatti segue l’attenzione ed è a questa che occorre applicarsi» (Evagrio Pontico);«L’attenzione somma è propria della preghiera continua» (Esichio di Batos). In tempipiù vicini a noi Simone Weil, riprendendo Malebranche, ha parlato dell’attenzione intermini di preghiera: «L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa dellapreghiera. Suppone la fede e l’amore. L’attenzione assolutamente pura è preghiera». Èuno stato di veglia, di lucidità, che si oppone a tutte quelle inclinazioni dell’animoumano che tendono ad abbrutirlo, quali la pigrizia, la sonnolenza, la negligenza, lasuperficialità, la dispersione, il divertissement. Proprio per questo essa è estremamentedifficile, a caro prezzo.Sempre Simone Weil scrive: «C’è nella nostra anima qualcosache rifugge dalla vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni lafatica». Nell’attenzione si opera uno spogliamento dell’«io»: l’«io» viene come calatonell’«oggetto» desiderato e assunto in lui. Anzi, nell’attenzione si può vedere che ciòche ci fa vivere in verità è ciò su cui fissiamo il desiderio, l’attesa, l’amore. L’attenzionerende presente l’atteso, il desiderato. Una parola di san Paolo rende chiaro cosasignifichi tutto questo in termini cristiani: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vivein me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato eha dato se stesso per me» (Galati 2,20).
ASCOLTO
«Incapaci di ascoltare e di parlare»: così sono gli uomini secondo un frammento diEraclito. li cristiano ha piena coscienza che la sua capacità di parlare al suo Dio, cheegli non può vedere, dipende dall’ascoltarlo. La fede nasce dall’ascolto: fidesex auditu(Romani 10,17), e la preghiera è anzitutto ascolto, un ascolto di Dio attraverso quelsacramento della sua Parola che sono le Scritture, e un ascolto di Dio nella storia, nelquotidiano; un ascolto possibile quando la lunga frequentazione con l’Evangelo haeducato il discernimento del credente. Il cristiano trova infatti la fonte del suo vederenell’ascoltare. Non stupisce pertanto che il cristianesimo sia anzitutto un’ascesidell’ascolto, un’arte dell’ascolto. Il Nuovo Testamento chiede di prestare attenzione achi si ascolta, a ciò che si ascolta, a come si ascolta. Il che implica un continuodiscernimento fra la Parola e le parole, una faticosa opera di riconoscimento dellaParola di Dio nelle parole umane, della sua volontà negli eventi storici, e la disposizioneglobale di tutta la persona umana.
Nella vita spirituale si cresce a misura che si scendenelle profondità dell’ascolto. Ascoltare infatti significa non solo confessare la presenzadell’altro, ma accettare di far spazio in se stessi a tale presenza fino a. essere dimoradell’altro. L’esperienza dell’inabitazione della presenza divina in se stessi (le visite delVerbo di cui san Bernardo più volte si confessa beneficiario a seguito della sua lectiobiblica) non è dissociabile dal divenire capaci di «dare ospitalità» agli altri grazie
all’ascolto. Si comprende così che colui che ascolta, che definisce la sua identità in baseal paradigma dell’ascolto, sia anche colui che ama: in radice è vero che l’amore nascedall’ascolto, amor ex auditu. L’ascolto «di Dio», con tutte le dimensioni – di silenzio, diattenzione, di interiorizzazione, di sforzo spirituale per trattenere ciò che si è ascoltato,di decentramento da sé e ricentramento sull’Altro – che esso esige, diviene accoglienza,o meglio, svelamento in sé di una presenza intima a noi più ancora di quanto lo sia ilnostro stesso «io». L’ascolto porta il credente a rifare l’esperienza di Giacobbe, quandoil patriarca esclamò: «li Signore è qui e io non lo sapevo» (Genesi 28,16). Ma il luogo diDio non è altro che la persona umana. Per la Bibbia, infatti, Dio non è «Colui che è»,ma «Colui che parla», e parlando cerca relazione con l’uomo e suscita la sua libertà:infatti, se la Parola è un dono, essa può sempre essere accolta o rifiutata. Per questo lavita spirituale cristiana fa anche della lettura un’ascesi, un movimento di incontro conColui che parla attraverso la pagina biblica.La tradizione ebraica chiama Miqra’ laBibbia, con un termine che indica una «chiamata» a uscire «da» per andare «verso»:ogni atto di lettura della Bibbia, per un credente, è l’inizio di un esodo, di un camminodi uscita da sé per incontrare un Altro.
Un esodo che avviene essenzialmentenell’ascolto! Non a caso le narrazioni bibliche dicono che il grande ostacolo al camminodi liberazione esodico del popolo d’Israele dall’Egitto fu la «durezza di cuore», la «duracervice», cioè l’ostinazione a non ascoltare Dio per ascoltare solo se stessi. Ma è anchevero che l’esperienza biblica, e poi l’esperienza del credente, scopre che Dio è anche«Colui che ascolta la preghiera». L’ascolto dell’uomo porta a conoscere l’ascolto di Diocome dimensione in cui egli stesso è immerso, che lo precede e fonda. Dice Paolo: «InLui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (Atti 17,28). L’ascolto è l’atteggiamentocontemplativo, antidolatrico per eccellenza.
Grazie ad esso il cristiano cerca di viverenella coscienza della presenza di Dio, dell’Altro che fonda il mistero irriducibile di ognialterità. Il cristiano vive di ascolto.MEDITAZIONEIl carattere proprio della meditazione cristiana è stato colto dal cristianesimo anticonella sua applicazione e nel suo rapporto con la Bibbia. Spezzato, o affievolito, questorapporto nei secoli dell’esilio della Scrittura dalla chiesa, si è assistito, nell’epoca delladevotio moderna, e particolarmente nell’epoca barocca, a un fiorire di molteplici formedi metodi di meditazione, sempre più schematici e complessi, isolati e assolutizzati, chesi applicavano a temi di meditazione sempre più dettagliati (vite dei santi, dottrine deiteologi ecc.), fino a cadere nell’artificiosità, nella macchinosità, nella razionalizzazionee intellettualizzazione, nella ginnastica psicologica. Del resto, ci si trovava nel momentostorico dell’emergere e dell’affermarsi della coscienza riflessa.Per la Bibbia «meditare»(in ebraico hagah) significa «mormorare», «sussurrare», «pronunciare a mezza voce», esi applica alla Torah, cioè alla rivelazione scritta della volontà di Dio. La meditazionebiblica si propone infatti come fine la conoscenza della volontà di Dio, per poterlapraticare, vivere, obbedire. Il latino meditari rinvia etimologicamente all’idea diesercizio, di ripetizione che conduce alla memorizzazione, all’assimilazione di unaParola che non deve semplicemente essere capita, ma vissuta, incarnata. La meditazioneè dunque organica a un atto di lettura che sia «incarnazione» della Parola.
Non a caso laterminologia biblica e poi della letteratura cristiana parla di manducazione della Parola,
di masticare e ruminare le Scritture. E se l’uso linguistico è arrivato a riservareexercere alle attività fisiche e meditari a quelle dello spirito, è però vero che lameditazione era intesa come applicazione di tutto l’essere personale: «Per gli antichimeditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto,cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con lamemoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà chedesidera metterlo in pratica» (Jean Leclercq). Questo legame tra corpo e meditazione,tra lettura orante e gestualità è ben visibile nei molti atteggiamenti motòri e nei dondoliidel corpo e della testa che ritmano la recitazione dei versetti in scuole coraniche o inscuole talmudiche.
Ma anche nei monasteri cristiani la prassi della lectio divina hasempre cercato di legare corpo e lettura: la parola deve imprimersi nel corpo! Ugo diSan Vittore (XII secolo) distingue la cogitatio, che è analisi concettuale delle parole,dalla meditatio, che è invece immedesimazione. La meditazione dunque muove dallalettura, ma evolve verso la preghiera e la contemplazione. Capiamo perché lameditazione cristiana ci porti inevitabilmente a far riferimento alla lectio divina, cioèalla prassi di lettura-ascolto della Scrittura condotta non con intento speculativo, masapienziale e rispettoso del mistero, che tenta di farne emergere la Parola di Dio perportare il credente ad applicare se stesso al testo e il testo a se stesso in un processodialogico che diviene preghiera e sfocia nella condotta di vita conforme alla volontà diDio espressa dalla pagina biblica. Questo processo è stato elaborato come cammino inquattro tappe definite rispettivamente lectio, meditatio, oratio, contemplatio.Lameditazione è l’operazione spirituale (mossa cioè dallo Spirito santo e attuata da tuttol’uomo, corpo e intelligenza) che dall’ascolto della parola conduce alla risposta dipreghiera e di vita al Dio che esprime la sua volontà attraverso la parola scritturistica.
Questa centralità della Scrittura nella meditazione cristiana non è casuale, ma derivadirettamente dal carattere proprio del cristianesimo: Dio si rivela parlando, e la suarivelazione definitiva è la Parola fatta carne, Gesù Cristo. Perciò la meditazionecristiana sarà sempre la ricerca di appropriazione e interiorizzazione della Parola di Dio.Se di questa Parola la Scrittura è sacramento, è però anche vero che essa raggiungel’uomo attraverso le vie dell’esistenza, degli incontri umani, degli eventi della vita. Maanche allora il credente sarà chiamato a leggere e ascoltare, quindi ad approfondire, ainterpretare pensando e riflettendo, a meditare, cioè a dar senso a eventi e incontri, perpoi discernere la presenza, la Parola di Dio nel mondo e nella storia, e quindi a vivereconformemente ad essa. Del resto la lettura del libro della Scrittura deve accompagnarequella del libro della natura e del libro della storia.
La meditazione cristiana nonconsiste perciò in una tecnica, né mai può assegnare come fine al soggetto la sua stessasoggettività, ma sempre cerca di aprire il soggetto all’alterità, alla carità e allacomunione guidandolo ad avere in sé lo stesso sentire e lo stesso volere che furono in
Cristo Gesù.
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