Le parole della spiritualità : Perdono, Amore del nemico, Umiltà, Conoscenza di sè
Tratto da "Lessico della Vita Interiore" IX
Autore: Enzo Bianchi
PERDONO :
Il cuore del cristianesimo, cioè l’evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo crocifisso, è letto da Paolo come evento dell’amore di Dio per gli uomini nel loro peccato, nel loro essere nemici di Dio (Romani 5,8-11). E questo evento è segnato dall’amore e dalla gratuità di Dio, non da una volontà giuridica di risarcimento dell’offesa portata a Dio dal peccato umano.
Questo significa che il dono del Figlio all’umanità è anche, e contemporaneamente, perdono, remissione dei peccati. La rivelazione biblica esprime molto chiaramente il fatto che il perdono è incondizionato:esso non è preceduto, quasi come da necessaria premessa, dal pentimento, ma anzi, èesso stesso che fonda e rende possibile il pentimento. La parabola del figlio prodigo (Luca 15,11-32) afferma che il pentimento del figlio potrà iniziare solo dal momento incui egli si rende conto dell’amore fedele del Padre, che non ha cessato di amarlo mentre si era allontanato da lui. Ciò che il figlio legge come perdono, in realtà agli occhi del Padre non è che un amore che non ha mai smentito se stesso.
Il perdono è coglibile solo nello spazio della libertà dell’amore, solo nello spazio del dono.
Anche etimologicamente esso ci rinvia a quel dare-in-più che si traduce nella rinuncia a un rapporto di tipo giuridico in nome di un rapporto di grazia.
Capiamo pertanto che il perdono è costitutivo dell’identità del cristiano: l’indicativo di Dio (ciò che Dio ha fatto nel Figlio Gesù Cristo) diventa l’imperativo dell’uomo (ciò che il credente, comes ingolo e come chiesa, è chiamato a testimoniare).
Non stupisce allora che le tre tappe decisive del formarsi della chiesa attestate dai Vangeli siano contrassegnate dalla remissione dei peccati. L’autorità conferita a Pietro, roccia basilare nell’edificio ecclesiale, è essenzialmente potere di perdono (Matteo 16,19); l’eucaristia, che dà forma all’intera comunità ecclesiale, è memoria efficace dell’evento in cui Cristo ha versato ilsuo sangue «in remissione dei peccati» (Matteo 26,28); il mandato missionario consegnato ai discepoli li abilita alla remissione dei peccati (Giovanni 20,23). Appare così come «la chiesa sia una comunità di peccatori convertiti, che vivono nella grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri» (Joseph Ratzinger).
Se è vero che ritroviamo il perdono in altri ambiti religiosi e culturali, tuttavia nell’economia cristiana esso è inscindibilmente connesso allo scandalo e al paradosso della croce, all’evento pasquale.
La forza e la debolezza della croce si riflettono nell’onnipotenza (tutto può essere perdonato) e nell’estrema debolezza del perdono (esso non garantisce che colui che ne ha beneficiato arrivi al pentimento, e neppure che non faccia del perdono il pretesto per continuare a compiere il male).
Il perdono afferma che la relazione conl’offensore è più importante dell’offesa da lui recata alla relazione: esso porta pertantol’offeso ad assumere come passato il male ingiustamente subìto, affinché questo nonprecluda il futuro della relazione.Vi è un’asimmetria nel perdono cristiano, che consistenel fatto che l’offeso, perdonando, lascia unilateralmente all’offensore l’unicapossibilità di ripresa della relazione. Per il cristiano questo è possibile solo grazie allafede in Cristo e al dono dello Spirito santo. Questa asimmetria, infatti, è stata vissuta dalCristo sulla croce: «Il Giusto del quale a Pasqua si celebra la resurrezione è colui che,asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre ilperdono a chi non lo domanda» (Francis Jacques).
Ed è lo Spirito alitato dal Crocifissorisorto sui discepoli (Giovanni 20,22-23) che li abilita alla remissione dei peccati.Nell’economia cristiana il perdono non si colloca su un piano etico, ma escatologico.Esso è profezia del Regno, segno dell’azione dello Spirito, manifestazione delle energiedel Risorto, svelamento dell’amore del Dio Padre. Riflesso dell’amore trinitario di Dio,il perdono è partecipazione alla vittoria di Cristo sulla morte: se la resurrezione «dice»che la morte non ha l’ultima parola, il perdono «dice» che il peccato non ha l’ultimaparola, non è la verità dell’uomo. Il perdono ricorda che il peccatore è un uomo, non unpeccato personificato, e che è ben più grande delle azioni pur negative che può avercompiuto. In questo senso, il perdono è anche segno di umanità e forza diumanizzazione.Certo, occorre ribadire che il perdono non è una legge, ma unapossibilità senza limiti (si pensi al «perdonare settanta volte sette», Matteo 18,22)offerta alla fede e alla libertà di ciascuno. E men che meno è una legge da imporre aglialtri. Lo spazio vitale del perdono è la libertà. Come gesto non libero esso non sarebbeneppure gesto di amore e non saprebbe raccontare la libertà e la gratuità dell’agire diDio.
AMORE DEL NEMICO
«Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani.» Queste parole diTertulliano (Ad Scapulam 1,3), che vogliono esprimere la differenza cristiana, vertonosignificativamente sull’amore per i nemici. Questo appare come vera e propria sintesidel Vangelo: se tutta la Legge si sintetizza nel comando dell’amore di Dio e delprossimo (Marco 12,28-33; Romani 13,8-10; Giacomo 2,8), la vita secondo il Vangelotrova il suo compimento nelle parole e nei gesti di Gesù che indicano nell’amore delnemico l’orizzonte della prassi cristiana. Dice infatti Gesù: «Amate i vostri nemici, fatedel bene a coloro che vi odiano» (Luca 6,27; cfr. Luca 6,28.29.35; Matteo 5,43-48) etutta la sua vita – fino al momento della lavanda dei piedi anche a Giuda, colui che siera fatto suo nemico; fino alla croce, luogo del suo amore «fino alla fine» per i suoi(Giovanni 13,1); fino alla preghiera per i suoi carnefici mentre lo crocifiggevano (Luca23,33-34) – attesta questo amore incondizionato rivolto anche al nemico. Il cristiano,chiamato ad assumere il sentire, il pensare, il volere di Cristo stesso (cfr. Filippesi 2,5),si trova dunque sempre confrontato con questa esigenza.
Ma occorre chiedersi: èrealmente possibile amare il nemico, e amarlo mentre manifesta la sua ostilità einimicizia, il suo odio e la sua avversione? È umanamente possibile tale scandalosasimultaneità? L’esperienza infatti ci rivela che il fascino per l’assolutezza dell’amoredel nemico svanisce in assoluta dimenticanza e diviene incapacità di dargli consistenzaesistenziale di fronte alle precise e concrete situazioni di inimicizia. E forse già questorappresenta un primissimo, e umanamente fondamentale, momento del cammino versol’amoredel nemico. Inoltre il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso ilnemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienzadi fede basilare dacui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico!Scrive Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatorie nemici, Cristo è morto per noi» (cfr. Romani 5,8-10). Su questa esperienza di fedeoccorre innestare la progressività di una maturazione umana che conduce ad acquisire ilsenso positivo dell’alterità, la capacità dell’incontro, della relazione e quindi dell’amore.
Già l’Antico Testamento, quando invita l’israelita ad amare il prossimo come se stesso,propone una sorta di itinerario: «lo sono il Signore, non coverai odio verso tuo fratello;rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Nonti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuoprossimo come te stesso. lo sono il Signore» (Levitico 19,17-18). Anzitutto è richiestal’adesione di fede a colui che è il Signore, quindi l’israelita è chiamato a impedirsisentimenti di odio (atteggiamento negativo), poi a correggere colui che fa il male(atteggiamento positivo) proibendosi di farsi vendetta da sé (atteggiamento negativo) eamando così il suo prossimo come se stesso (atteggiamento positivo). All’amore siarriva attraverso un cammino, un esercizio.L’amore non è spontaneo: esso richiededisciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Cosìsi perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraternadenunciando «costruttivamente» il male commesso da altri. L’amore del nemico non vaconfuso con la complicità con il peccatore!
Anzi, proprio la libertà di chi sa correggeree ammonire chi compie il male nasce dalla profondità della fede e da un amore per ilSignore che sono la necessaria premessa per l’amore del nemico. Chi non serba rancoree non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare; e ilperdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamentedi rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti.Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia! AncheGesù, quando chiede di amare il nemico, immette il credente in una tensione, in uncammino. Dallo sforzo per superare sempre di nuovo la legge del taglione, cioè latentazione di rendere il male che si è ricevuto, il credente deve pervenire a non opporsial malvagio, a contrapporre al male l’attivissima passività della non violenza, fidandonel Dio unico Signore e Giudice dei cuori e delle azioni degli uomini. Anzi, mossi dallaconvinzione che il nemico è il nostro più grande maestro, colui che può veramentesvelare ciò che abita il nostro cuore e che non emerge quando siamo in buoni rapporticon gli altri, i credenti possono obbedire alle parole del loro Signore che invitano aporgere l’altra guancia, a devolvere anche la tunica a chi vuole toglierci il mantello…Maperché tutto questo sia possibile è indispensabile ciò che sempre è ricordato dai Vangeliaccanto al comando di amare i nemici, e cioè la preghiera per i persecutori,l’intercessione per gli avversari: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostripersecutori» (Matteo 5,44).
Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si èfatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nellapreghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona edella sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo! Ma dev’essere chiaro chel’amore del nemico è questione di profondità di fede, di «intelligenza del cuore», diricchezza interiore, di amore per il Signore, e non, semplicemente di buona volontà!
UMILTÀ
L’umiltà è una virtù sospetta. Questa parola ci giunge carica del peso di un’eredità chel’ha resa virtù individuale, meta della ricerca di autoperfezionamento del singolo.Inoltre essa appare sinonimo di auto annientamento della creatura di fronte al Dio che ètutto e di diminuzione di sé di fronte agli altri, ciò che oggi è sentito comeatteggiamento non più adeguato al Dio che non schiaccia l’umano, ma lo assume e lovalorizza. A volte, poi, sembra riferirsi a un atteggiamento posticcio, un mostrarsi dameno di quel che si è e si vale, Gli psicologi vi preferiscono certamente il vocabolo«autenticità» (tutto sommato non distante dal significato del termine antico humilitas).
Nietzsche colloca l’umiltà nell’alveo della ricerca religiosa di consolazione dellapropria impotenza. Ma l’umiltà non è solo sospetta, forse è anche pericolosa. Èpericoloso predicare l’umiltà e fame una legge, perché occorre valutare la ricezione chedi essa possono avere le diverse persone. Probabilmente essa rischierebbe di nonscalfire mai chi ha un «super io» e di trovare una non equilibrata accoglienza in chi sinutre di un «io minimo».Ma soprattutto ci dobbiamo chiedere: che cos’è l’umiltà? Lemolteplici definizioni che la tradizione cristiana ne ha dato ci orientano a coglierne ilcarattere relativo: relativo cioè alla diversità delle persone e delle libertà personali.
Lastessa definizione più attestata, e che meglio coglie il suo carattere proprio, la vede nontanto come una virtù, ma come il fondamento e la possibilità di tutte le altre virtù.«L’umiltà è la madre, la radice, la nutrice, il fondamento, il legame di tutte le altrevirtù», dice Giovanni Crisostomo, e in questo senso si comprende che Agostino possavedere «in essa sola, l’intera disciplina cristiana» (Sermo 351,3,4). Occorre pertantosottrarre l’umiltà alla soggettività e al devozionalismo e ricordare che essa nasce dalCristo che è il magister humilitatis (maestro dell’umiltà), come lo chiama Agostino. MaCristo è maestro di umiltà in quanto «ci insegna a vivere» (Tito 2,12) guidandoci a unarealistica conoscenza di noi stessi. Ecco, l’umiltà è la coraggiosa conoscenza di sédavanti a Dio e davanti al Dio che ha manifestato la sua umiltà nell’abbassamento delFiglio, nella kénosi fino alla morte di croce. Ma in quanto autentica conoscenza di sé,l’umiltà è una ferita portata al proprio narcisismo, perché ci riconduce a ciò che siamoin realtà, al nostro humus, alla nostra creaturalità, e così ci guida nel cammino dellanostra umanizzazione, del nostro divenire homo.
Ecco l’humilitas: «O uomo, riconoscidi essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti» (Agostino) .Imparata dacolui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29), l’umiltà fa dell’uomo il terreno sucui la grazia può sviluppare la sua fecondità. Poiché l’uomo conosce la propriacreaturalità, i propri limiti creaturali, ma poi anche il proprio essere peccatore, econtemporaneamente sa di aver tutto ricevuto da Dio e di essere amato anche nellapropria limitatezza e negatività, l’umiltà diviene in lui volontà di sottomissione a Dio eai fratelli nell’amore e nella gratitudine.
Sì, l’umiltà è relativa all’amore, alla carità. «Làdov’è l’umiltà, là è anche la carità» afferma Agostino, e un filosofo contemporaneo glifa eco: «L’umiltà dispone e apre alla grazia, ma non l’umiltà è questa grazia, bensì solola carità» (V. Jankélévitch). In questo senso essa è anche elemento essenziale alla vita incomune, e non a caso nel Nuovo Testamento risuona costantemente l’invitodell’apostolo ai membri delle sue comunità a «rivestirsi di umiltà nei rapporti reciproci»(1 Pietro 5,5; Colossesi 3,12), a «stimare gli altri, con tutta umiltà, superiori a se stessi»(Filippesi 2,3), a «non cercare cose alte, ma piegarsi a quelle umili» (Romani 12,16):solo così può avvenire l’edificazione comunitaria, che è sempre condivisione delledebolezze e delle povertà di ciascuno. Solo così viene combattuto e sconfitto l’orgoglio,che è «il grande peccato» (Salmo 19,14), o forse, meglio, il grande accecamento cheimpedisce di vedere in verità se stessi, gli altri e Dio.
Più che sforzo di autodiminuzione, l’umiltà è allora evento che sgorga dall’incontro fra il Dio manifestato inCristo e una precisa creatura. Nella fede, l’umiltà di Dio svelata da Cristo (cfr. Filippesi2,8: «umiliò se stesso») diviene umiltà dell’uomo.Certo, perché nasca la vera umiltà,perché l’umiltà sia anche, verità, perché si giunga ad aderire alla realtà obbedendo conriconoscenza a Dio, spesso occorre l’esperienza dell’umiliazione. Per noi umiliarci, inlibertà e per amore, è operazione difficile, e compierla in modo puro è quasiimpossibile: c’è infatti un’umiltà che è un pretesto per una vanagloria raddoppiata… Perquesto l’umiltà non è tanto una virtù da acquistare, quanto un abbassamento da subire;dunque l’umiltà è anzitutto umiliazione. Umiliazione che viene dagli altri, soprattutto ipiù vicini a noi, umiliazione che viene dalla vita che ci contraddice e ci sconfigge,umiliazione che viene da Dio che con la sua grazia è capace di umiliarci e di innalzarcicome nessun altro può farlo. Più che mai l’umiliazione è luogo per conoscere se stessiin verità e imparare l’obbedienza, come Cristo «imparò l’obbedienza dalle cose chepatì» (Ebrei 5,8), e tra queste «l’infamia e la vergogna» (cfr. Ebrei 12,2; 13,13).
L’umiliazione è l’evento in cui si va a fondo del proprio abisso frantumando il cuore(cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies, Salmo 51,19). Allora, grazie aquesta esperienza, si possono ripetere con verità le parole del Salmista: «Bene per meessere stato umiliato, ho imparato i tuoi comandamenti» (Salmo 119,71).
CONOSCENZA DI SÉ
Uno degli elementi più distintivi della spiritualità cristiana è sempre stata l’attenzionealla dimensione dell’interiorità: la santità non consiste in un insieme di prestazioni,fossero pure buone, sante o eroiche, ma si colloca sul piano dell’essere e tende allaconformazione a Cristo dell’intera persona. Questo significa che la sequela di Cristoesige che l’umano non venga mai disgiunto dallo spirituale e che al movimento diconoscenza del Signore si accompagni sempre il parallelo movimento di conoscenza disé. È questo un tema che traversa tutta la tradizione cristiana la quale non ha esitato ariprendere e riformulare nei termini suoi propri l’iscrizione posta sul frontone deltempio di Apollo a Delfi: «Conosci te stesso».
Così Origene e i Cappadoci, Ambrogio eAgostino, Gregorio Magno, Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo, i padri Certosini eVittorini hanno ripreso e approfondito il senso di questo movimento essenziale all’uomoper umanizzarsi («Non conduce vita umana chi non si interroga su se stesso», Platone) eal cristiano per iniziare autenticamente la propria sequela Christi (il rinnegamento di séchiesto da Cristo deve poter essere attuato in libertà e per amore, e questo comporta laconoscenza di sé). Senza vita interiore, senza sforzo di conoscenza di sé, non saràpossibile una vita spirituale cristiana e neppure la preghiera!
Purtroppo oggi si assiste aquel deprecabile scollamento fra chiesa e vita spirituale, fra chiesa e vita interiore, che èelemento di crisi molto più grave di quello «numerico-quantitativo», perché dice che lachiesa è venuta meno al compito di iniziazione sia alla vita che alla vita secondo loSpirito. Non si può inoltre tacere che l’attenzione oggi prestata all’«io» e alle istanzedella soggettività presenta molte ambiguità: il narcisismo culturale («Quando laricchezza occupa un posto più alto della saggezza, quando la notorietà è più ammiratadella dignità e quando il successo è più importante del rispetto di sé, vuol dire che lacultura stessa sopravvaluta l’immagine, e deve essere considerata narcisistica», A.Lowen), la pornografia dell’anima (l’esibizione dell’intimo, la scomparsa del pudore neldare in pasto a milioni di telespettatori le confessioni personali o i problemi familiari),la compressione dell’individualità da parte della cultura tecnologica (a cui interessa unesecutore funzionale di un lavoro già programmato) che provoca l’ipertrofia dell’ionegli altri ambiti esistenziali, sono tutti elementi che rendono, da un lato, prudente,dall’altro, urgente, un discorso sulla conoscenza di sé. Ne va infatti della libertàdell’uomo!
È veramente libero chi conosce se stesso, perché questi può nutrire unrapporto equilibrato con la realtà e con gli altri e scoprire motivi di speranza e di fiducianel futuro.Il processo della conoscenza di sé consiste nella risposta a un appello:l’appello che si fa sentire in noi, per esempio, quando proviamo il bisogno di starcenesoli per un po’di tempo per riflettere e pensare, per «tirarci fuori» dal quotidiano cherischia di intontirci con la sua ripetitività o di travolgerci con i suoi ritmi esasperati. Sitratta della chiamata a compiere un esodo verso l’interiorità, un viaggio all’interno di sestessi, viaggio che si svolge ponendosi domande, interrogando se stessi (Chi sono? Dadove vengo? Dove vado? Che senso ha ciò che faccio? Chi sono gli altri per me?…),riflettendo, pensando, elaborando interiormente ciò che si vive di fuori.
Solo così,attraverso l’interiorizzazione, si diviene soggetti della propria vita e non ci si lasciavivere. Certo, questo cammino nella propria interiorità, questa discesa nel proprio cuoresono molto faticosi e dolorosi: normalmente noi li respingiamo, ne abbiamo paura,perché temiamo ciò che di noi può emergere, ciò che di noi può esserci svelato.Nietzsche ha parlato del grande dolore di cui fa uso la verità quando vuole svelarsiall’uomo.La conoscenza di sé esige attenzione e vigilanza interiore, quella capacità diconcentrazione e di ascolto del silenzio che aiuta l’uomo a ritrovare l’essenziale grazieanche alla solitudine. Allora si perviene ad habitare secum, ad abitare la propria vitainteriore, e si consente alla propria verità interiore di dispiegarsi in noi: è allora che laconoscenza di noi stessi diviene anche conoscenza dei limiti, delle negatività, dellelacune che fanno parte di noi e che normalmente tendiamo a rimuovere pur di nondoverli riconoscere.
La conoscenza della propria miseria, accompagnata dallaconoscenza di Dio, può allora divenire esperienza della grazia, della misericordia, delperdono, dell’amore di Dio. Ciò che prima si conosceva per sentito dire ora divieneesperienza personale. Si tratta di mai scindere questi due momenti dell’itinerariospirituale: la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio. Infatti la conoscenza di sé senzala conoscenza di Dio ingenera la disperazione, e la conoscenza di Dio senza laconoscenza di sé produce la presunzione.
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