Pregare «sempre»
Tratto da "Lessico della Vita Interiore V - Le parole della spiritualità 5"
Autore: Enzo Bianchi
.MEMORIA DEI : Due testi biblici chiedono al cristiano di pregare «sempre», «senza interruzione».
Nel
Vangelo di Luca Gesù pronuncia una parabola sulla «necessità di pregare sempre, senzastancarsi» (Luca 18,1), e Paolo comanda: «Pregate senza interruzione» Com’è possibile? E com’è possibile conciliare questo comando con l’altro che chiede di lavorare (2 Tessalonicesi 3,12) e con l’esempio di Paolo stesso che afferma di lavorare «notte e giorno» (2 Tessalonicesi 3,8)? E com’è possibile pregare mentre si dorme?Questi interrogativi hanno traversato il cristianesimo antico, soprattutto il monachesimo, ricevendo diversi tentativi di risposta.
Da quello radicale ed estremista dei «messaliani» (o «euchiti», «coloro che pregano») i quali, rifiutando assolutamente il lavoro, pretendevano di dedicarsi unicamente alla preghiera, a quello, altrettanto estremista e altrettanto votato all’impossibilità, degli «acemeti» («coloro che non sic oricano»), che cercavano di ridurre il più possibile il tempo di sonno per consacrarsi solamente alla preghiera. Altre risposte, più estrinseche, e tipiche del monachesimo cenobita, hanno cercato di moltiplicare le ore di preghiera liturgica e di assicurare, mediante appropriati turni e rotazioni dei monaci del monastero, una continua preghiera liturgica, una laus perennis.
Altre risposte hanno battuto la via dell’interiorità, dellapreghiera ritmata sul battito del cuore, sul ritmo del respiro, sulla ripetizione di un’invocazione rivolta a Dio, fino a giungere alla cosiddetta «preghiera monologica», che cioè ripete instancabilmente una sola parola, per esempio, il nome di Gesù. Frutto diquesta concentrazione dello spirito dell’uomo sul nome del suo Signore, di questa attenzione che vuota il cuore di ogni altro pensiero e lo fa inabitare solamente dalp ensiero di Dio, è la cosiddetta mnéme theou, la memoria Dei, il «ricordo di Dio».
Espresso soprattutto dall’insegnamento spirituale dello Pseudo-Macario, il ricordo di Dio è un atteggiamento spirituale profondo di unificazione del cuore davanti alla presenza di Dio interiorizzata. È ricordo nel senso di custodia nel cuore, cioè nella mente e nell’intimo della persona, della presenza di Dio così che alla luce di tale presenza venga unificata e integrata nella vita interiore anche la vita esteriore dell’uomo. È ricordo alla cui luce si vive e si ricomprende il presente giudicandolo nella fede.
La memoria Dei diviene così la matrice del discernimento che forgia la sapienza spirituale e rende l’uomo capace di vivere ogni atto e ogni parola alla luce del terzo che il credente fa regnare in ogni relazione: Dio. L’uomo spirituale autorevole nasce da questa vivificante memoria.È memoria che si associa ad amore, carità, zelo, ardore,compunzione, nei confronti di Dio stesso. Dice lo Pseudo-Macario: «Il cristiano deve sempre custodire il ricordo di Dio, perché non deve amare Dio solamente in chiesa ma anche camminando, parlando, mangiando». Questa memoria diviene presenza interiore,dunque preghiera, cioè vita davanti a Dio e nella coscienza di tale presenza. Il credenteè così reso «dimora del Signore», come afferma l’apostolo Paolo.
Ovvio allora che tale memoria non sia semplicemente un movimento psicologico: in effetti essa è azione dello Spirito santo. Il quarto Vangelo, per cui lo Spirito ha la funzione di «insegnare e ricordare» (Giovanni 14,26), afferma che lo Spirito insegnerà e ricorderà «tutto» ciò che Gesù ha detto e fatto. Lo Spirito appare dunque memoria di totalità. Ma questa totalitànon è data dalla somma di gesti compiuti e di parole pronunciate e fissate nellaScrittura, bensì dalla presenza stessa di Gesù. È memoria delle parole e del silenzio diGesù, del detto e del non detto, del compiuto e del non compiuto, del già e del nonancora, dunque anche di ciò che ancora non vi è stato. Opera dello Spirito, questamemoria è anche profezia. Essa guida a quella consonanza profonda con Cristo, con ciòche sta a monte del suo parlare e del suo agire, che infonde nel credente la capacità diobbedire creativamente all’Evangelo, guidato dallo Spirito che fa abitare in lui il Cristo.Questa memoria Dei cela in sé un’attitudine di riconoscenza e di ringraziamento, difedeltà e di impegno, di dedizione e di speranza.
È memoria che unifica il passato, dàluce e senso al presente e apre all’attesa e alla speranza per il futuro. Capiamo perchéGregorio Sinaita (XIV secolo) abbia potuto affermare che il comando «Ricordati delSignore tuo Dio in ogni tempo» è il più fondamentale di tutti i comandi. È grazie adesso, infatti, che gli altri possono essere adempiuti.MEMORIA«Tu che prevedi l’avvenire degli uomini, aiutami a non staccarmi dal mio passato».Così Elhanan, l’anziano protagonista del romanzo L’oblio di Elie Wiesel, si rivolge alsuo Dio: è un anziano la cui memoria ormai «è un colabrodo… una foglia d’autunnoavvizzita, bucherellata… un fantasma». Sì, la memoria è l’esile filo interiore che ci tienelegati al nostro passato: quello personale, quello familiare di ciascuno, come quellodella società civile cui apparteniamo o della comunità di fede in cui ci riconosciamo.
Certo è difficile e faticoso vivere in modo fecondo questo rapporto intimo con il propriopassato perché corriamo sempre due pericoli di segno opposto: il restare prigionieri delpassato o la tentazione di spezzare ogni legame con esso.Memoria e oblio, passato efuturo si intrecciano, assieme alla consapevolezza che chi sa far tesoro del suo passato èpiù «anziano» della propria età perché è intessuto delle generazioni che lo hannopreceduto. È l’intuizione che Bernardo di Chartres già nel 1100 aveva reso conun’efficacissima immagine: siamo «nani che camminano sulle spalle di giganti».Intuizione costantemente ripresa e rielaborata che, per esempio, fa ribadire a PaulRicoeur l’importanza di «lavorare la memoria per aprire un futuro al passato… Ciò chepiù bisogna liberare del passato è ciò che non è stato effettuato nel passato, le promessenon mantenute. Gli uomini del passato hanno avuto anch’essi dei progetti, cioè avevanoun futuro che fa parte del nostro passato. Ma forse è il futuro del nostro passato chebisogna liberare per ingrandire il passato».
Viviamo in una stagione che fatica a gestire ilproprio passato in funzione di un presente aperto al futuro: molti sogni delle generazioniche ci hanno preceduto sono svaniti, magari dopo essersi tramutati in incubi; incompenso c’è chi cerca di rimuovere o negare gli incubi che già i contemporanei nonavevano voluto vedere, quando addirittura non si arriva a riscrivere la storia per piegarlaai propri opportunismi. Come ha osservato Barbara Spinelli, non riusciamo, a «usare lastoria nell’immediato»: così, per esempio, assistiamo all’estendersi di sentimenti,atteggiamenti e legislazioni xenofobe a cerchie di persone che hanno già dimenticato ilpassato prossimo in cui «gli albanesi eravamo noi»; così finiamo per confondere lecause con gli effetti e attribuiamo a un presunto odio ancestrale le guerre tra due popolidimenticando che, viceversa, sono proprio le guerre a generare l’odio; così succede cheil ricordo delle nostre sofferenze ci rende ciechi e insensibili a quelle degli altri suiquali, anzi, riversiamo la nostra sete di rivalsa.Ma la legislazione sugli stranieri sancitanel libro dell’Esodo non si fondava proprio sulla riflessione inversa: «Non opprimerai ilforestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nelpaese d’Egitto» (Esodo 23,9)? In realtà la Bibbia ci fornisce a più riprese una preziosaindicazione: la memoria, cioè il rapporto con il passato, è innanzitutto un fatto interiore,essenziale per discernere il presente e per operare in un futuro nuovo. Un’interiorità che,come ci ricorda Jorge Semprun, un sopravvissuto dei campi di sterminio nazisti,conosce «una dialettica tra il tempo della memoria e il tempo della capacità di ascoltoche sfugge completamente alla volontà dei testimoni».
Non è certo un caso se solo inquesti ultimi anni stiamo assistendo a una maggior disponibilità, quasi a uno sfogoliberatorio, da parte degli ultimi sopravvissuti nel narrare l’inenarrabile dell’infernoconcentrazionario: quelle stesse persone cui gli aguzzini avevano predetto l’incredibilitàdei loro racconti, quelle persone cui amici e familiari avevano suggerito di cercare didimenticare, quelle persone che avevano visto morire, assieme a ogni umanità, anche leproprie facoltà di comunicazione.A noi, nel nostro quotidiano in cui raramente siamoobbligati a chiederci come ci esorta Primo Levi «se questo è un uomo», spetta ilcompito di tener desta la memoria anzi, siamo paradossalmente chiamati a ricordarci diquello che non abbiamo mai appreso e perfino di ciò che ignoriamo. Tutto questoaffinché sia viva l’identità, affinché restino aperte vie di senso, affinché l’umanità nonperda se stessa: «L’uomo – scrive Wiesel – è definito dalla sua memoria individuale,legata alla memoria collettiva. Memoria e identità si alimentano reciprocamente… Per questo dimenticare i morti significa ucciderli una seconda volta, negare la vita chehanno vissuto, la speranza che li sosteneva, la fede che li animava». Dimenticaresignifica uccidere assieme alloro passato anche il futuro che esso conteneva, significamortificare il nostro presente privandolo di ogni sbocco futuro, significa nutrirsi dimenzogna e negarsi ogni possibilità di giungere alla propria e all’altrui verità, comericorda l’anziano Elhanan nella sua preghiera: «Dio di verità, ricordaTi che senza lamemoria la verità diventa menzogna poiché essa non prende che la maschera dellaverità. RicordaTi che è grazie alla memoria che l’uomo è capace di ritornare alle fontidella propria nostalgia per la Tua presenza».
LA PREGHIERA, UN CAMMINO
«L’opera più difficile è la preghiera.»
Quanti giovani monaci si sono sentiti dare questarisposta dall’anziano, dall’abba da loro interrogato. E la difficoltà resta nel tempo purassumendo sfumature differenti. Ogni generazione, e ogni uomo in ogni generazione, hail compito di raccogliere l’eredità di preghiera che gli viene consegnata e laresponsabilità di ridefinirla. E di ridefinirla vivendola! Oggi è difficilmentecomprensibile quella definizione della preghiera come «elevazione dell’anima a Dio»che ha traversato tanto l’Oriente quanto l’Occidente. Dopo Auschwitz è stato postol’interrogativo circa la possibilità stessa della preghiera.
Ma io penso che la risposta nondebba limitarsi a rimpiazzare il titolo di «Onnipotente» dato da sempre a Dio con quellodi «Impotente» (vi è chi parla dell’«onnidebolezza» di Dio). Mi sembra che così si restisempre all’interno di una logica di teodicea. Invece, prendendo sul serio il fatto chemolti anche ad Auschwitz, come in tanti altri inferni terreni, sono morti pregando, pensoche si possa comprendere la preghiera come cammino del credente verso il suo Dio. Omeglio, come coscienza di tale cammino. La preghiera cristiana appare così come lospazio di purificazione delle immagini di Dio.
Dunque come la faticosa e quotidianalotta per uscire dalle immagini manufatte del divino per andare verso il Dio rivelato nelCristo crocifisso e risorto, vera immagine di Dio consegnata all’umanità.
Se la preghieraè il colloquio fra Dio e l’uomo, fatto, di ascolto della Parola divina contenuta nelleScritture e di risposta umana (risposta che implica anche responsabilità), essa allora èla via che apre l’uomo alla dimensione della comunione, con Dio e con gli altri uomini.Così essa diviene adattamento dell’uomo all’ambiente divino, vita davanti a Dio e conDio, relazione con Dio. Nella preghiera il cuore, cioè il centro della persona, siconcentra su Colui che gli parla, che lo chiama, e così si decentra da sé entrando nelmovimento dell’«estasi», dell’uscita da sé per conoscere e incontrare il Signore. Cosìavviene la preghiera: come costante e interminabile itinerario del credente verso il suoDio, un Dio la cui conoscenza non è mai già data, ma sempre «diviene» in una storia, inuna vita. E non è neppure mai pienamente realizzata: la preghiera infatti è ricerca delvolto di Dio, ricerca incessante e ostinata da parte di colui che è stato vinto da unaPresenza, anche se forse questi non saprà mai pienamente render ragione, tradurreverbalmente l’esperienza ineffabile che ha vissuto, che l’ha segnato e che ha fatto di luiun credente.La preghiera allora è la coscienza della vita cristiana come cammino versoDio.
Un Dio che è invisibile e silenzioso, ma la cui invisibilità e il cui silenzio sonoquelli del Padre: non è l’assente, ma il Presente che cela la sua presenza dietro alsilenzio e al nascondimento, è il Padre che, grazie al suo ritiro e al suo silenzio fa dellasua presenza un appello, una chiamata, una vocazione. E così la preghiera, forma dicomunicazione con Colui che non si vede e che resta nel silenzio, può rispondere a taleappello liberando la libertà dell’uomo, la sua espressione, portando l’orante allaconoscenza di sé mentre lo guida alla ricerca di Dio. La preghiera dell’uomo a Dio è larisposta alla preghiera che Dio rivolge all’uomo. In questo dialogo entra tutto l’uomo:l’uomo è attesa, domanda, desiderio, relazione… e la preghiera conosce le sue molteplicimodulazioni: ringraziamento, invocazione, intercessione, richiesta…«Norma» dellapreghiera cristiana è la preghiera di Gesù, il Figlio di Dio: la sua preghiera conosceanche il non-esaudimento nel momento cruciale del Getsemani, quando Gesù chiede alPadre che «passi da lui quell’ora» tragica, che gli possa essere risparmiato il calicedell’amarezza, ma tutto rimette al compimento della volontà di Dio, non della sua.
Lapreghiera non è la sublimazione del desiderio umano, la richiesta che Dio compia lanostra volontà, ma il cammino attraverso il quale avviene il riconoscimento el’accettazione della volontà di Dio. Avviene cioè la sempre migliore conoscenza di Dioe il conseguente adeguamento della relazione a tale conoscenza. L’esperienza mostrache la preghiera muta, in una stessa persona, con il trascorrere degli anni. Solo così essaè reale relazione con Dio, relazione che resta viva, che non si atrofizza. Fine di talecammino e di tale relazione è la conformazione di una vita all’immagine di Dio che èGesù il Cristo.
LECTIO DIVINA
«È apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna[…] a vivere» (Tito 2,11-12).
Questo passo neotestamentario parla di Cristo come graziapersonificata che insegna all’uomo a vivere. Se è lo Spirito il grande maestro della vitacristiana, la Scrittura, che è sacramento della volontà e della Parola di Dio, può essereintesa come l’elemento che trasmette questo insegnamento. Certo, si tratta dellaScrittura interpretata nello Spirito santo, della Scrittura pregata.La lectio divina è l’arte– debitrice nei confronti della tradizione ebraica di lettura della Bibbia ed erede dellagrande tradizione ermeneutica patristica – che cerca di attuare il passaggio dal testobiblico alla vita e si presenta così come un prezioso strumento che può aiutare asuperare il fossato spesso constatabile nelle nostre chiese tra fede e vita, tra spiritualità equotidianità. Essa appare come un’ermeneutica esistenziale della Scrittura che, portandol’uomo a volgere innanzitutto lo sguardo a Cristo, a cercare lui attraverso la paginabiblica, lo guida poi a porre in dialogo la propria esistenza con il volto di Cristo rivelato,per arrivare a veder illuminata di luce nuova la propria quotidianità.
I quattro gradinidella lectio divina – lectio, meditatio, oratio, contemplatio – rappresentano unapprofondimento progressivo del testo biblico in cui l’atto di lettura è chiamato adivenire incontro con il Signore vivente, dialogo con lui, esposizione della propria vitaalla luce del Cristo che ordina l’esistenza del credente.Il processo messo in atto dallalectio divina è l’umanissimo itinerario che dall’ascolto conduce alla conoscenza e daqui all’amore.
Si tratta, nella lectio, di fare lo sforzo di uscita da sé per superarel’alterità e la distanza cronologica e culturale del testo, dell’«altro» nella relazione;quindi, nella meditatio, di approfondire la conoscenza, di cercare il messaggio centraledel testo, di far emergere il volto di Cristo dalla pagina biblica; poi, nell’oratio, diapplicare il messaggio emerso alla propria vita e la propria vita al messaggio biblico:l’oratio si configurerà così come risposta alla Parola in forma di preghiera, ma anchecome assunzione di responsabilità della stessa Parola ascoltata.Il piano della preghiera èil piano stesso della vita: etica e fede non appaiono disgiunte, ma intrinsecamenteconnesse.
L’intenzionalità dialogica della Bibbia viene così attuata dalla lectio divina eraggiunge la dimensione dialogica costitutiva dell’essere umano stesso: l’efficacia dellaParola di Dio contenuta nella Bibbia si manifesta sul piano dell’essere, ben più e benprima del fare. Questo significa la contemplatio, che non si riferisce a esperienzemistiche o estatiche, ma indica un livello di comunicazione intraducibile in parole:silenzio, lacrime, presenza dell’amato all’amante, discernimento dell’ineffabilepresenza del Signore… Ma indica anche ciò che opera in noi l’azione dello Spirito cheabita la Parola: egli crea in noi la longanimità, la pazienza, l’unificazione interiore, ildiscernimento, la capacità eucaristica, la compassione per tutte le creature, in unaparola, la dilatazione della carità. La lectio divina opera il passaggio della Parola nellavita anzitutto così: facendo dell’uomo un essere capace di ascolto, quindi di fede.
Lalettura richiesta dalla lectio divina non è tanto intellettuale, quanto sapienziale, eobbedisce al principio esposto dal beato Francesco da Siena: «Non l’erudizione mal’unzione, non la scienza ma la coscienza, non la carta ma la carità».
È una lettura cheesige capacità di interiorizzazione, affinché la Parola si depositi e si radichi nel cuoreumano; richiede perseveranza, cioè quotidiano rinnovamento dell’attitudine di ascolto,capacità di durare, di rimanere nel tempo, perché la fede non è l’esperienza di unmomento o di un’ora della vita, ma abbraccia l’interezza dell’esistenza; richiede lottaspirituale, cioè capacità di restare attaccati alla Parola ascoltata e di custodirla comebene prezioso senza svenderla preferendole quei beni illusori ma seducenti che sono gliidoli.La lettura della Bibbia attraverso la lectio divina situa dunque la vita del credentenella tensione più evangelicamente feconda, quella della conversione. Essa porta illettore-ascoltatore a leggere e pensare la propria vita da”‘vanti alla volontà di Diorivelata nella Scrittura, per arrivare a vivere in conformità alla stessa volontà divina.
Lalettura della Bibbia secondo la lectio divina si riflette nella vita non tanto nel senso checonduca a compiere determinate opere piuttosto di altre, bensì nel senso che essaaccende e tiene accesa quella luce grazie alla quale soltanto tutto l’agire del credentediviene testimonianza ed evangelizzazione per gli uomini: «Risplenda la vostra lucedavanti agli uomini, affinché, se vedono le vostre opere belle, rendano gloria al Padrevostro che è nei cieli» (Matteo 5,16).
La Scrittura esige di essere vissuta per essereveramente compresa, ed esige di essere vissuta in uno spazio comunitario, insieme eaccanto ad altri: «Molte cose nella sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a capire,le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli […]. Mi son reso conto chel’intelligenza mi era concessa per merito loro» (Gregorio Magno). Così dunque avvieneil passaggio dalla Scrittura alla vita, dal testo alla testimonianza: la Scrittura ispirata èanche ispirante e vuole accendere nel cuore del credente il fuoco dello Spirito (cfr. Luca24,32) affinché questo dispieghi in lui la sua potenza. La lettura della Scrittura tende adivenire testimonianza della Presenza, martyria, e trova il suo compimento più alto nelmartirio, nel dono della vita per amore.
Rabbi Akiva ha vissuto il suo martirio comecompimento della richiesta dello Shema’: «Amerai il Signore con tutta la tua vita»(Deuteronomio 6,5). Mentre il suo corpo veniva scarnificato dai torturatori rabbi Akivarecitava lo Shema’ e ai suoi discepoli che volevano interromperlo rispose: «Per tutta lavita mi sono preoccupato di questo versetto: “Amerai Dio con tutta la tua vita”, cioè loamerai anche nel caso che ti tolga la vita, e dicevo: Quando mi sarà possibile compiereciò? E ora che mi è possibile non dovrei adempierlo?» (Talmud babilonese, Berakot61B).
La Parola che ha illuminato la vita arriva a vivificare anche la morte. Quantodetto ci aiuta a rispondere all’obiezione oggi diffusa in ambienti cattolici e chepossiamo esprimere così: se la Parola di Dio è efficace, se vi è tra i credenti questoritorno alla Parola di Dio ascoltata nella Scrittura, dove si manifesta tale efficacia? Dovesono reperibili i segni di tale potenza? È un’obiezione rivelatrice di come sia difficileassumere dalla Scrittura e non da noi stessi o da ambienti mondani il criteriodell’efficacia della croce. La Parola, come il Cristo, è inscindibile dalla croce e la suapotenza e sapienza è paradossale come la potenza e la sapienza della croce.
Non a casoPaolo parla di ho logos ho tou staurou, cioè di «parola della croce» (1 Corinti 1,18), ecomunque questa efficacia è ordinata alla fede e coglibile solo nello spazio della fede. Esolo la fede ci può guidare nel cogliere l’attuale stagione ecclesiale di martirio comefrutto dell’efficacia della Parola ascoltata e servita fino al dono della vita” per amore.Per amore di Dio e degli uomini, anche dei nemici e degli aguzzini.
CONTEMPLAZIONE
«Contemplazione» è una parola classica del vocabolario cristiano.
È però anche unaparola abusata, spesso impiegata per indicare una «specializzazione» particolarmenteelevata dell’esperienza cristiana da contrapporsi alla «vita attiva» secondo unoschematismo che lacera la fondamentale unità e semplicità dell’esperienza cristiana.
NelNuovo Testamento il vocabolo «contemplazione», in greco theoria, si trova una solavolta, in Luca 23,48, e ha per oggetto il Cristo crocifisso: «Tutte le folle che eranovenute a questo spettacolo (theoria: si intende la crocifissione), vedendo le coseaccadute, se ne tornavano percuotendosi il petto». Il termine dunque designa lo«spettacolo concreto… di Gesù di Nazaret “Re dei Giudei” crocifisso» (GiuseppeDossetti) ed è ormai su questo centro focale, irriducibile e irrinunciabile, il Cristocrocifisso, che dev’essere valutata l’autentica contemplazione cristiana. Questa theoriatrova un suo corrispondente nel vocabolo, molto più frequente nel Nuovo Testamento,gnosis, «conoscenza», o epignosis, «sovraconoscenza».
Ma anche questo termine cirimanda alla centralità della croce di Cristo, vero nucleo fontale della conoscenzacristiana (cfr. 1 Corinti 2,2) e dunque dell’annuncio (1 Corinti 1,23) e della prassi(Marco 8,34) cristiane. Al cuore della contemplazione cristiana sta dunque la croce diCristo: essa norma, ispira il contenuto della fede «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoitu», Marco 14,36) e anche la forma che la fede deve assumere nella storia («non comevoglio io, ma come vuoi tu», Matteo 26,39). Non si tratta dunque per nulla di qualcosariservato ai mistici o ai monaci, ma di una realtà a cui è chiamato ogni battezzato:infatti, colui che è stato battezzato, è stato innestato nella vita in Cristo (Romani 6,1-6),si è rivestito di Cristo (Galati 3,27), e la contemplazione-conoscenza cristiana non miraad altro che a conformare al Cristo l’esistenza personale ed ecclesiale dei cristiani: ilCrocifisso contemplato arriva a configurare il volto e la testimonianza del singolocredente e della comunità ecclesiale nel suo insieme.
Il contemplativo non è dunque unuomo che fugge la compagnia degli uomini o evade la storia, ma un credente che cercadi discernere nella storia e negli uomini, negli eventi e nella propria persona la presenzadel Cristo. È colui il cui sguardo è talmente affinato che sa riconoscere che tempio diDio («contemplare», etimologicamente, ci rinvia al templum, all’arte di «osservare iprofili del tempio»), e dunque dimora dello Spirito santo e luogo di inabitazione delCristo, è l’uomo stesso. Sì, il contemplativo è un esperto nell’arte del discernimentodella presenza di Dio, presenza che non è relegata in luoghi sacri, non è ristretta alreligioso, ma è diffusa dappertutto.
La contemplazione cristiana è attività transitiva ecoinvolgente che si mostra capace di plasmare un’umanità rinnovata, di ricreare il cuoredell’uomo: «Mostrami la tua qualità umana e io ti mostrerò il tuo Dio», diceva Teofilodi Antiochia, e l’icona perfetta del Dio-uomo è il Cristo crocifisso che può essere fattoconoscere, reso visibile all’umanità dalla compassione senza limiti per l’uomosofferente, dalla misericordia per l’uomo peccatore nella piena solidarietà di chi si saaltrettanto peccatore. Del resto la contemplazione del Crocifisso divieneimmediatamente visione del proprio peccato, conoscenza di sé quale peccatore, edunque si risolve in pentimento e conversione: contemplato il Crocifisso, le folle «se netornavano percuotendosi il petto» (Luca 23,48). Sì, come diceva Isacco il Siro: «È piùgrande colui che sa vedere il proprio peccato di chi vede gli angeli».
Dunque lacontemplazione cristiana è finalizzata alla carità, alla makrothymia, alla compassione,alla dilatazione del cuore, è evento che non «salta» né la mediazione ecclesiale né quellasacramentale, e si manifesta in una vita, personale e comunitaria, in stato diconversione.Di più. La contemplazione cristiana diviene anche capacità di giudizio e disguardo critico sulla storia: non a caso Giovanni, il testimone della crocifissione (cfr.Giovanni 19,35-37), è divenuto nella tradizione «il veggente», «il teologo», «ilcontemplativo», e a lui è attribuita la composizione dell’Apocalisse, un testo che savolgere uno sguardo critico severo e penetrante al totalitarismo dell’impero romano eleggere la storia con gli occhi di Dio, cioè con lo spirito imbevuto dal Vangelo. È soloda lì, infatti, che può nascere uno sguardo sulla storia che sappia discernervi il peccatodell’uomo e la presenza di Dio.È infatti dall’ascolto della Parola che nasce lacontemplazione cristiana: essa si fonda sul primato della Parola di Dio nella vita delcredente e sulla fede che la Scrittura è mediazione privilegiata di questa Parola e dellapresenza di Cristo.
Nella fede cristiana – è stato detto – «si vede attraverso le orecchie»,cioè si accede alla contemplazione attraverso l’ascolto. E questo svela come lacontemplazione cristiana avvenga in uno spazio relazionale in cui l’iniziativa spetta aDio, che «ci ha amati per primo» (I Giovanni 4,I9), ci ha parlato per primo fino amanifestare nel Figlio la Parola fatta carne. È la Parola che trova nella Scrittura unostrumento privilegiato di mediazione, nella comunità cristiana il luogo della suatrasmissione e l’ambito in cui è vissuta e declinata come carità, nella croce l’esito a cuiconduce chi l’accoglie radicalmente (cfr. «la parola della croce» di cui parla Paolo),nella compagnia degli uomini lo spazio in cui è testimoniata con fierezza e dolcezza. Èquesta la Parola da cui scaturisce la contemplazione cristiana.
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