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Lessico della Vita Interiore X

Le parole della spiritualità 10

Autore: Monastero virtuale

SOLITUDINE. : La solitudine è un elemento antropologico costitutivo: l’uomo nasce solo e muore solo.Egli è certamente un «essere sociale», fatto «per la relazione», ma l’esperienza mostrache soltanto chi sa vivere solo sa anche vivere pienamente le relazioni. Di più: larelazione, per essere tale e non cadere nella fusione o nell’assorbimento, implica lasolitudine. Solo chi non teme di scendere nella propria interiorità sa anche affrontarel’incontro con l’alterità. Ed è significativo che molti dei disagi e delle malattie«moderne», che riguardano la soggettività, arrivino anche a inficiare la qualità della vitarelazionale: per esempio, l’incapacità di interiorizzazione, di abitare la propria vitainteriore, diviene anche incapacità di creare e vivere relazioni solide, profonde edurature con gli altri. Certo, non ogni solitudine è positiva: vi sono forme di fuga daglialtri che sono patologiche, vi è soprattutto quella «cattiva solitudine» che èl’isolamento, il quale implica la chiusura agli altri, il rigetto del desiderio degli altri, lapaura dell’alterità. Ma tra isolamento, chiusura, mutismo, da un lato, e bisogno dellapresenza fisica degli altri, dissipazione nel continuo parlare, attivismo smodato,dall’altro, la solitudine è equilibrio e armonia, forza e saldezza. Chi assume la solitudineè colui che mostra il coraggio di guardare in faccia se stesso, di riconoscere e accettarecome proprio compito quello di «divenire se stesso»; è l’uomo umile che vede nellapropria unicità il compito che lui e solo lui può realizzare. E non si sottrae a talecompito rifugiandosi nel «branco», nell’anonimato della folla, e neppure nella derivasolipsistica della chiusura in sé. Sì, la solitudine guida l’uomo alla conoscenza di sé, egli richiede molto coraggio.La solitudine allora è essenziale alla relazione, consente laverità della relazione e si comprende proprio all’interno della relazione. Capacità disolitudine e capacità di amore sono proporzionali. Forse, la solitudine è uno dei grandisegni dell’autenticità dell’amore. Scrive Simone Weil: «Preserva la tua solitudine. Semai verrà il giorno in cui ti sarà dato un vero affetto, non ci sarà contrasto fra lasolitudine interiore e f amicizia; anzi, proprio da questo segno infallibile lariconoscerai». La solitudine è il crogiuolo dell’amore: le grandi realizzazioni umane espirituali non possono non attraversare la solitudine. Anzi, proprio la solitudine divienela beatitudine di chi la sa abitare. Facendo eco al medievale «beata solitudo, solabeatitudo», scrive Marie-Madeleine Davy: «La solitudine è faticosa solo per coloro chenon han sete della loro intimità e che, di conseguenza, l’ignorano; ma essa costituisce lafelicità suprema per coloro che ne hanno gustato il sapore».In verità, la solitudine,certamente temibile perché ci ricorda la solitudine radicale della morte, è sempresolitudo pluralis, è spazio di unificazione del proprio cuore e di comunione con gli altri,è assunzione dell’altro nella sua assenza, è purificazione delle relazioni che nel continuocommercio con la gente rischiano di divenire insignificanti. E per il cristiano è luogo dicomunione con il Signore che gli ha chiesto di seguirlo là dove lui si è trovato: quantaparte della vita di Gesù si è svolta nella solitudine! Gesù che si ritira nel deserto doveconosce il combattimento con il Tentatore, Gesù che se ne va in luoghi in disparte apregare, che cerca la solitudine per vivere l’intimità con l’abba e per discernere la suavolontà. Certo, come Gesù, il cristiano deve riempire la sua solitudine con la preghiera,con la lotta spirituale, con il discernimento della volontà di Dio, con la ricerca del suovolto.Commentando Giovanni 5,13 che dice: «L’uomo che era stato guarito non sapevachi fosse [colui che l’aveva guarito]; Gesù infatti era scomparso tra la folla», Agostinoscrive: «È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla; ci è necessaria la solitudine. N ellasolitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; pervedere Dio ti è necessario il silenzio». Il Cristo in cui diciamo di credere e che diciamodi amare si fa presente a noi nello Spirito santo per inabitare in noi e per fare di noi lasua dimora. La solitudine è lo spazio che apprestiamo al discernimento di questapresenza in noi e alla celebrazione della liturgia del cuore.Il Cristo poi, che ha vissuto lasolitudine del tradimento dei discepoli, dell’allontanamento degli amici, del rigetto dellasua gente, e perfino dell’abbandono di Dio, ci indica la via dell’assunzione anche dellesolitudini subìte, delle solitudini imposte, delle solitudini «negative». Colui che sullacroce ha vissuto la piena intimità con Dio conoscendo l’abbandono di Dio, ricorda alcristiano che la croce è mistero di solitudine e di comunione. Essa, infatti, è mistero diamore!COMUNICAZIONEQualità della vita significa qualità delle relazioni, che costituiscono la sostanza dellavita. La qualità delle relazioni dipende dalla qualità della comunicazione, a tutti i livelliin cui questa si svolge: con se stessi, sul piano interpersonale, sociale, politico ecc. Uncristiano, poi, trova il suo modello di comunicazione a livello teologico nell’autocomunicazione che Dio ha fatto di sé all’umanità in Cristo. Di certo, il problema dellacomunicazione nella chiesa non può essere ridotto alla sola dimensionedell’aggiornamento tecnologico e dello sfruttamento dei mezzi disponibili per una piùefficiente ricerca di maggiore audience. Se pensiamo che, secondo la rivelazionebiblica, lo Spirito santo è la libera volontà di Dio di comunicare e trovare comunionecon gli uomini, capiamo che la comunicazione cristiana, per essere realmentesacramentale, per narrare cioè qualcosa della realtà trinitaria che dà fondamento eragion d’essere alla chiesa e a cui la chiesa rinvia, deve far appello e lasciarsi informaredall’azione dello Spirito. Così come deve conformarsi all’immagine di Cristo che sullacroce «riporta l’umanità sulla via di un Dio che non è realmente Dio se non essendo laComunicazione stessa» (Gustave Martelet). Ma questa dimensione rivelativa si innestasulla dimensione antropologica della comunicazione. Dimensione che ricorda checomunicare è anzitutto «donare», rendere comune, condiviso da altri, ciò che è proprio,disponendosi a propria volta a ricevere dall’altro. In effetti, comunicare non èmovimento unidirezionale, ma circolare, reciproco e interattivo fra partner che siscambiano segni e messaggi al fine di una comprensione, di un accordo. Tale scambionon può lasciare immutati: l’identità è modellata nella comunicazione. Di più, l’uomo èun essere comunicativo: nessun suo comportamento sfugge a questa legge! «Agire onon agire, la parola o il silenzio hanno sempre un carattere comunicativo» (PaulWatzlawick).Questo vale ovviamente non solo per gli individui, ma anche per i gruppiumani e dunque per la chiesa. La fedeltà della chiesa all’Evangelo si misura anche sullaqualità delle relazioni che essa crea al suo interno, che intrattiene con le altreconfessioni cristiane, che promuove con gli uomini non credenti o appartenenti ad altrereligioni, con il tipo di presenza che instaura nella storia, con i rapporti con le altreistituzioni nella polis ecc. È lì che la chiesa conosce il rischio di mutare l’evangelo, labuona notizia della comunicazione di Dio agli uomini, in cattiva comunicazione: equesto si verifica quando viene meno la parresia, la franchezza evangelica dei discepolidi Cristo, per cedere il passo alla pavidità e all’acquiescenza dei funzionari di unapparato ecclesiastico; quando l’autorità non si pone a servizio della comunione, ma sisnatura in arrogante esercizio del potere; quando all’interno della compagine ecclesialesi creano figli prediletti e si emarginano altri quasi fossero figliastri; quando i tonicensori, le doppiezze, le ipocrisie, le mezze verità, creano quel clima di paura che è lapiù diretta sconfessione della libertà evangelica suscitata dallo Spirito; quando il dialogoè fuggito invece che cercato ecc. Sì, solo quando la comunità cristiana si configuracome autentico spazio di libertà, essa diviene anche spazio di confronto, di dialogo e dicomunicazione fraterna!Dalla comunicazione dipende la vita comune, il volto dellacomunità cristiana, e dunque la testimonianza fondamentale della chiesa tra gli uomini.Essa è un’arte, non una tecnica, e un’arte che esige umiltà: la comunicazione infatti nonnasce da un «di più», da un «troppo», da un «pieno», ma da un «vuoto», dalla coscienzadi una mancanza, di un bisogno: comunicare significa affermare il proprio bisognodell’altro, riconoscere che siamo sempre debitori e dipendenti da altri per la nostra vita,confessare che il dono di Dio, munus fondamentale da cui nasce il nostro comunicare, ciprecede. La Parola di Dio comunicata a noi, e nella quale Dio stesso in Cristo si dona anoi, è il vero inizio della comunicazione cristiana, una comunicazione in cui già siamoimmersi ancor prima di prenderne coscienza e di assumere il compito di farcenerispondenti. Sa comunicare chi sa riconoscere come propria verità fondamentale lapropria povertà ontologica. E questo povero sarà anche capace di pregare, cioè dicomunicare con Dio, di rispondere al dono della sua Parola, perché sarà capace diascolto, di accoglienza. E su questa povertà potrà anche avvenire l’edificazione dellacomunità, della vita insieme con altri: questa è infatti sempre il frutto della condivisionedella povertà e delle debolezze di ciascuno, piuttosto che la somma della forza di tutti.Allora la comunità cristiana appare come frutto dello Spirito, segno dellacomunicazione di Dio all’uomo, sacramento del dono della Parola di Dio, rispostad’amore all’amore preveniente da Dio. Sì, il Dio cristiano, «essendo in se stessocomunione trinitaria, crea comunione con e tra gli esseri umani comunicando loro la suavita e chiedendo che essa sia a sua volta comunicata a ogni loro fratello e sorella, sino acoinvolgere l’intero creato» (Roberto Mancini).COMUNIONENella rivelazione cristiana la comunione è anzitutto realtà teologale. Dio nel suo essereè comunione, lo Spirito è Spirito di comunione e Cristo è persona corporativa, è il capodel corpo che è la chiesa. Comunione è la vita trinitaria divina, vita fatta di ascolto,scambio e donazione reciproci fra le persone divine. Essendo costitutiva della vitadivina, la comunione è essenziale anche alla chiesa: se non plasma il suo volto nellastoria come volto di comunione, la chiesa si riduce a organizzazione sociologica e non èpiù la chiesa di Dio. Mandato della chiesa è di essere luogo del superamento di tutte lebarriere e le discriminazioni culturali e sociali, politiche ed etniche, luogo della diversitàriconciliata, delle differenze compaginate in comunione: così essa non solo è riflessodella comunione dinamica delle persone trinitarie, ma è icona dell’umanità riconciliata,immagine del cosmo redento, profezia del Regno. E questo è appunto ciò che ognieucaristia, cuore della comunione, deve manifestare. È sulla comunione che la chiesagioca l’obbedienza alla propria vocazione ricevuta da Dio e l’adempimento dellapropria testimonianza e missione nel mondo.Come profondità della vita divina, lacomunione viene trasmessa agli uomini in un processo di impoverimento, disvuotamento e di abbassamento di Dio motivato dall’amore, dal suo desiderio dicomunione con l’umanità. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenitoperché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Giovanni 3,16); «Poiché i figli hannoin comune il sangue e la carne, anche il Cristo ne è divenuto partecipe» (Ebrei 2,14):fonte della comunione è l’amore, suo mezzo è lo scambio verso il basso per cui coluiche era in forma di Dio svuotò se stesso assumendo forma d’uomo e condividendo lacondizione umana fino alla morte, anzi, «alla morte di croce» (Filippesi 2,8). Insomma,forma e fondamento della comunione cristiana è la croce come mistero e passione diamore. Dire questo significa affermare che la comunione all’interno della chiesa, tra lechiese, tra la chiesa e gli uomini tutti, è dono di Dio! Essa non è programmabile eraggiungibile come obiettivo di una strategia di politica ecclesiastica, ma deve essereaccolta come grazia predisponendo l’obbedienza radicale all’Evangelo e mettendosiall’ascolto dell’altro: il fratello con cui si vive quotidianamente, l’altra confessionecristiana, gli uomini appartenenti ad altre religioni e culture, coloro che si professanonon credenti.E qui va ricordato che la comunione cristiana, discendente dalla Trinità,plasmata dalla croce e costantemente vivificata dallo Spirito santo, esige il rigetto, daparte del cristiano e della chiesa, sia della domanda de-responsabilizzante: «Chi è il mioprossimo?» (Luca 10,29), sia dell’affermazione di autosufficienza: «Io non ho bisognodi te» (1 Corinti 12,21). Al tempo stesso, la comunione intra-ecclesiale non può nutrirsisolamente di questo principio orizzontale di attenzione all’altro o di bisogno dell’altro.All’interno di un’ottica centrata solamente sull’altro la chiesa rischia il corto circuitodella comunità affettiva, della chiusura autosufficiente del gruppo su di sé, dellagratificazione di un rapporto «io-tu» che diviene esclusivo. Oppure può scivolare,nell’ottica della rivalità e della contrapposizione, dell’«io contro l’altro», dando vita auna missione che diviene imposizione e assumendo le sembianze di una setta aggressivaverso il mondo. O ancora può finire col porsi come soggetto di carità, comebenefattrice, come ente filantropico. Nel primo caso la comunione si atrofizza e siisterilisce, nel secondo viene tradita e misconosciuta, nel terzo viene ridotta ad attivismocaritativo.Non basta «l’altro», ma occorre «il Terzo» e la sua trascendenza, e dunque sideve aver chiaro che l’altro, nell’ottica cristiana, è rimando al Terzo che è il Signore, ilCreatore di tutti, Colui che in ogni uomo ha impresso la propria immagine. Insomma,non sono le nostre parole che plasmano la koinonia, la comunione, ma la Parola di Dioche purifica le nostre parole, che ordina la nostra comunicazione, che presiede allenostre relazioni. Karl Barth ha potuto scrivere: «La chiesa è la comunione semprerinnovata di uomini e donne che ascoltano e testimoniano la Parola di Dio». La Paroladi Dio convoca e raduna i credenti legandoli in un solo corpo, e questo è il centrosorgivo e dinamizzante della chiesa e della comunione ecclesiale. Questa la comunioneche cercano di edificare anche i segni sacramentali del battesimo e dell’eucaristia.Infatti «siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (1 Corinti12,13) e, «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tuttiinfatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Corinti 10,17).Sì, i cristiani sonocommunicantes in Unum, nell’unico Dio, il Padre, per mezzo dell’unico Signore, GesùCristo, grazie all’unico Spirito (cfr. Efesini 4,4-6), e in questa comunione con Colui cheè all’origine di ogni santità essi, che già vivono la solidarietà con i peccatori, possonoanche ,conoscere la communio sanctorum, la comunione con i santi del cielo, con coloroche già vivono per sempre in Dio. Solo allora la chiesa è colta nella pienezza del suomistero di comunione.MALATTIAUn dato che colpisce leggendo i Vangeli è l’alto numero di malati nel corpo e nellamente (gli «indemoniati») che Gesù ha incontrato nel suo ministero storico. Possiamosupporre che l’incontro con questa umanità sfigurata dalla sofferenza abbia segnato inmodo decisivo l’umanità stessa di Gesù nel senso della compassione e dell’attenzioneall’uomo nel bisogno. La sua stessa missione viene espressa da Gesù con le parole:«Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto perchiamare i giusti, ma i peccatori» (Marco 2,17). Dunque anche il piano teologico èimplicato e le guarigioni che Gesù compie appaiono come «Vangelo in atti», comemanifestazioni del Regno di Dio, come profezie del tempo in cui «nessuno più dirà: “Iosono malato”» (Isaia 33,24).Ma come appare la malattia alla luce della Scrittura? Essa èessenzialmente una realtà in cui il malato è chiamato ad ascoltare nuovamente, arileggere la sua condizione e la storia stessa. È un’ottica nuova da cui guardare la realtà.Il libro di Giobbe, il grande malato, lo mostra bene. La malattia «svela» la realtà, nelsenso che la denuda, la spoglia di tutti gli abbellimenti e le mistificazioni e, mentre lamostra nella sua crudezza, la restituisce anche alla sua verità. La malattia ricordaall’uomo che la vita non è in suo potere, non gli è immediatamente disponibile, e che lasofferenza è il caso serio della vita. Certo, gli esiti della malattia sono plurali, maiscontati, sempre imprevedibili, e sono anche i più diversificati: abbrutimento, ribellione,rimozione, indurimento, ma anche semplificazione, ritrovamento del centro edell’essenziale della vita, affinamento, purificazione… Nella malattia l’uomo è chiamatoalla responsabilità di «dotare di senso» la propria sofferenza. La malattia non èportatrice di un senso già dato, anzi, per molti versi, essa distrugge i sensi e le finalitàche l’uomo aveva attribuito alla sua vita. E questo vale anche per il cristiano: anch’egli,infatti, «non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada –insieme con Dio che lo attraversi. Le tenebre non sono l’assenza ma il nascondimento diDio, in cui noi – seguendolo – lo cerchiamo e lo troviamo di nuovo» (ErikaSchuchardt).Forse, la questione umana e spirituale più grave che oggi emerge circa lamalattia è quella della sua riduzione a problema tecnico, che nasce dall’otticaesclusivamente clinica con cui la si considera sottraendola, di fatto, al problema delsenso. In fondo, la dottrina biblica (ma diffusa anche nel Vicino Oriente antico: sitrattava di un elemento culturale comune, non di un dato rivelato) che lega in qualchemodo malattia e peccato cercava di rispondere al problema del senso della malattiainnestandola in un contesto in cui essa diventava «leggibile»e poteva venire compresa,assunta, personalizzata e inserita in un quadro relazionale. Oggi assistiamo invece a unasorta di rimozione della malattia che si accompagna all’anestetizzazione del dolore:l’individuo è divenuto un formidabile «consumatore di anestesia» (Ivan Il’ic). Questavisione «tecnica» della malattia rischia anche di dimenticare che il malato è una totalitàsofferente, e non può essere ridotto a un arto o a un organo sofferente all’interno di unavisione parcellizzante che dis-umanizza e de-contestualizza la malattia estrapolandoladal suo innesto biografico. Il malato, e questo lo dovrebbe ricordare anche chi faaccompagnamento e assistenza ai malati, è anzitutto una persona. Appare qui anche laprospettiva ghettizzante di una «spiritualità cristiana dei malati»: «Non abbiamobisogno di una farmacia spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono unacappella di infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di una spiritualitàecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una nuova scuola di spiritualità, in cuitutti i problemi della vita siano esaminati e adattati alla situazione di coloro che hannofamiliarità con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto attraversoun’ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta di rivolgersi a noi e di parlarci“in quanto malati” come se non si volesse sapere null’altro di noi; prima di esseremalati, siamo degli uomini e dei figli di Dio». Così, già diversi anni fa, si esprimevaun’associazione cattolica di malati.Il cristiano, di fronte alla malattia, si trova chiamatoad affrontare tutte le incognite che ogni uomo incontra nella malattia, ad attraversare lefasi che ne accompagnano l’insorgere e l’evolversi (si pensi alle fasi individuate dalladottoressa E. Kübler-Ross: shock, negazione, collera, trattativa, depressione,accettazione, pace), a vedersi confrontato con reazioni che egli stesso non si sarebbeaspettato (disperazione o titanismo, rassegnazione o rivolta), e inoltre a comporre la suanuova situazione con la fede. Egli potrà certamente trovare aiuto e conforto nellapreghiera e nella fede, ma potrà anche porre radicalmente in crisi la fede e l’immaginedi Dio fino ad allora conosciuta: il deperimento del corpo umano diviene anche losfaldarsi dell’immagine del Dio che di tale corpo è il creatore. Chi accompagna ilmalato non ha ricette da dargli, né tanto meno può fare del capezzale del malato ilpulpito per una predica o una trattazione teologica. Nessun errore sarebbe più grave diquello di presentarsi al malato con un «sapere» (quel che il malato deve fare) chediverrebbe subito un «potere» che fa del malato non solo una vittima, ma anche uncolpevole. L’unico aiuto che l’accompagnatore può dare è il porsi accanto, il mostrarsipresente condividendo la debolezza e l’impotenza del malato e attenendosi al quadrorelazionale che il malato stabilisce. È il malato il maestro dell’accompagnatore, non ilcontrario. È con il malato che si identifica Gesù, non con chi va a trovarlo o con chi loaccompagna: «Ero malato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Anche nellachiesa, dunque, il malato va visto non in un’ottica semplicemente assistenzialistica, maassunto come il portatore di un magistero: c’è da porsi al suo ascolto, da imparare dalui, nella sua situazione di debolezza.VECCHIAIA«Io individuo quattro motivi per cui la vecchiaia sembra triste: primo, perché allontanadall’attività; secondo, perché indebolisce il corpo; terzo, perché nega quasi tutti ipiaceri; quarto, perché non dista molto dalla morte.» A questo giudizio di Cicerone (Desenectute), oggi noi potremmo aggiungere un ulteriore motivo che rende penosa lavecchiaia. Ed è questo: l’era della tecnica ha spiazzato e reso fuori luogo l’adagio chelegava vecchiaia e sapienza e vedeva nell’anziano il depositario di una memoria, diun’esperienza che lo rendeva elemento fondamentale nel gruppo sociale. La «sapienzadell’anziano» pare relitto di un passato ormai remoto oppure ancora presente in civiltànon toccate dal progresso tecnologico e informatico che ci paiono ancora più distanti.L’anziano, nel contesto di una società che esalta la produttività, l’efficienza e lafunzionalità, si trova emarginato, reso superfluo, inutile, e spesso egli stesso «si sente dipeso» ai familiari e alla società. In simile contesto la vecchiaia appare come unpassaggio faticoso da una condizione in cui si è definiti dal lavoro o dal ruolo sociale, auna sorta di zona morta di pura negatività, la «pensione», un limbo in cui si è definiti daciò che non si è più e non si fa più.Per quanto il discorso sulla vecchiaia sia in realtà undiscorso plurale che deve diversificarsi in ogni anziano prestando attenzione alleparticolari situazioni di salute fisica e mentale in cui ciascuno si viene a trovare, è purvero che la vecchiaia è vita a pieno titolo, è una fase particolare di un camminoesistenziale, non una mera anticamera della morte. «La vecchiaia si offre all’uomocome la possibilità straordinaria di vivere non per dovere, ma per grazia» (K. Barth).Già di per sé essa è uno stadio della vita che non tutti arrivano a conoscere: lo stessoGesù non ha conosciuto la vecchiaia. Dunque essa è anzitutto un dono che può esserevissuto con gratitudine e nella gratuità: si è più sensibili agli altri, alla dimensionerelazionale, ai gesti di attenzione e di amicizia; inoltre è la grande occasione per operarela sintesi di una vita. Arrivare a dire «grazie» per il passato e «sì» al futuro significacompiere un’operazione spirituale veramente essenziale soprattutto in vistadell’incontro con la morte: l’integrazione della propria vita, la pacificazione con ilproprio passato.La vecchiaia è così il tempo dell’anamnesi, del ricordo, e del racconto:si ha il bisogno di narrare, di dire la propria vita, per poterla assumere vedendola accoltada un altro che la ascolta e la rispetta. E questo racconto può divenire trasmissione diun’esperienza di fede: il Salmo 71, la «preghiera di un vecchio», ne è un bell’esempio.Nell’indubbia decadenza fisica e mentale, nel venir meno delle forze, nella riduzionedelle possibilità che la vecchiaia comporta vi è però anche la possibilità di affrontare inmodo più diretto le domande che la vita pone, senza le evasioni e le illusioni che lemolteplici attività potevano consentire quando si era più giovani. Che cosa valgo? Chesenso ha la vita? Perché morire? Che significano le sofferenze e le perdite di cuil’esistenza è piena? E anche la domanda religiosa, anche la fede può acquisire coscienzae profondità: «Finché era più giovane, l’uomo poteva ancora immaginarsi di essere luistesso ad andare incontro al suo Signore. L’età deve diventare per lui l’occasione perscoprire che invece è il Signore che gli viene incontro per assumere il suo destino» (K.Barth).Vi è dunque un proprium di ciascuna fase della vita: anche di fronte allavecchiaia si tratta anzitutto di accettarla pienamente e questo consentirà di non viverlacome tempo di rimpianto e di nostalgia, ma di coglierla come tempo diessenzializzazione e di interiorizzazione proprio all’interno di quel movimento di«assunzione della perdita» che assimila la vecchiaia a un movimento di kénosi. «Ciòche la giovinezza troverà al di fuori, l’uomo nel suo meriggio deve trovarlonell’interiorità» (C. G. Jung). Lì si svela la fecondità possibile della vecchiaia (cfr.Salmo 92, 15: «Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi»), unafecondità manifestata nella tenerezza e nella dolcezza, nell’equilibrio e nella serenità…È il tempo in cui una persona può affermare di valere per ciò che è e non per ciò che fa.Ovvio che questo non dipende solamente da lui, dall’anziano, ma anche eparticolarmente da chi gli sta intorno e dalla società che può accompagnarlo nel compitodi vivere la vecchiaia come compimento e non come interruzione O come fine. Anzi, lavecchiaia è un momento di verità che svela come la vita sia costitutivamente fatta diperdite, di assunzione di limiti e di povertà, di debolezze e negatività. La vecchiaia,ponendo l’uomo in una grande povertà, lo mette anche in grado di cogliersi nella suaverità, quella che si svela al di là di ogni orpello e di ogni esteriorità. Forse non è uncaso che, per Luca, il Vangelo si apra con due figure di anziani: Simeone e Anna chericonoscono e indicano Gesù come Messia. L’anziano fa segno, indica, trasmette unsapere. Ed è, con la sua vecchiaia pacificamente assunta davanti a Dio e davanti agliuomini, un segno di speranza e un esempio di responsabilità.MORTE E FEDE«Il mondo moderno è riuscito a svilire la cosa che forse è più difficile svilire in assoluto,perché ha in sé una specie particolare di dignità: la morte.» Queste osservazioni diCharles Péguy (1907) hanno dato da pensare a Theodor W. Adorno nelle sueMeditazioni della vita offesa (Minima moralia). E fanno riflettere anche noi che, adistanza ormai di quasi un secolo, vediamo che nelle società occidentali la morte apparerimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scenadei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata, rappresentataimpietosamente, quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass media.Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti, e anzituttoquell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenzadell’uomo. Ma in questa operazione anestetica si dimentica che noi ci priviamodell’elemento che maggiormente ci aiuta a comprenderci, che costituisce il «caso serio»della vita, l’enigma che, nella sua irriducibilità, può divenire rivelazione, aprire squarcidi senso sulla vita e, soprattutto, far uscire l’uomo dalla banalità e dalla mediocrità incui spesso si rinchiude. «Quando l’uomo vuol comprendersi, deve interrogarsi sullamorte» (E. Jüngel) e deve lasciar dispiegare la potenza scandalosa dell’interrogativo chela morte pone ed è. L’oblio della morte, il suo occultamento, comportano il rischio delladisumanizzazione della cultura e della società. Come non ricordare che la presa dicoscienza della morte, attraverso la visione di un uomo morto, è stato l’elementodecisivo, dopo la presa di coscienza della malattia e della vecchiaia, che ha segnatol’iniziazione alla via dell’illuminazione per il Buddha? E anch’egli, allora giovaneprincipe vissuto sempre nei palazzi regali e protetto dalla cura patema che lo volevapreservare dalla visione del male del mondo, ha dovuto superare le barriere frapposte daquesta volontà anestetizzante alla sua presa di coscienza della realtà della condizioneumana.Sì, è più che mai attuale il memento mori! E i cristiani, che al cuore della lorofede hanno l’eventodella morte del Signore e della sua resurrezione, hanno unaresponsabilità e una diaconia nel tener viva la memoria mortis tra gli uomini. Non percinismo, né per gusto del macabro, né per disprezzo della vita, ma per dare peso egravità alla vita. Infatti, solo chi ha un motivo per cui morire, ha anche motivazioni pervivere! E solo chi impara a perdere, ad accettare i limiti dell’esistenza, sa farsi amica lamorte. La morte del Cristo ci insegna poi a morire e a vivere. Essa, infatti, appare noncome un fato, un destino subìto, ma come un atto, l’evento culminante della vita. Eappare vivificata dall’amore, l’amore di Dio per gli uomini; la divina passione di amoreche diviene passione di sofferenza nella morte del Figlio per amore. L’esperienza chenoi facciamo della morte è connessa alla morte delle persone amate: con la loro mortemuore anche qualcosa di noi. E se l’amore è ciò che dà senso alla vita, esso ci portaperfino a considerare «evidente e logico» il perdere la vita per amore di un altro. Noiconosciamo e patiamo qualcosa della morte a misura del nostro amore, ma la morte èanche ciò che può mettere fine ai nostri amori, troncandoli da un momento all’altro. Lamorte è ciò che maggiormente sentiamo come estraneo ed estraniante, ed è anche lanostra proprietà più originaria,

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