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Libro della Vita - Capitolo 37

"Le Grazie che mi ha fatto il Signore"

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 37

Tratta degli effetti che restavano in lei dopo aver ricevuta qualche grazia dal Signore. Espone una validissima dottrina. Dice come si debba procurare e quanto si debba stimare l’acquisto di un grado maggiore di gloria, senza tralasciare, per nessuna difficoltà, beni che sono eterni.

1. Mi dispiace trattare ancora delle grazie che mi ha fatto il Signore. Quelle di cui ho parlato sono già troppe perché si possa credere che egli le abbia concesse a un essere così miserabile come sono io, ma per obbedire al Signore che me lo ha ordinato e alle loro signorie, dirò alcune cose a gloria sua. Piaccia a Sua Maestà che la vista di tanti favori accordati a una creatura così miserabile sia di vantaggio a qualche anima – cosa non farà egli per chi l’abbia fedelmente servito? – e si sforzino tutti di contentarlo, poiché anche in questa vita dà tali pegni.

2. Anzitutto bisogna rendersi conto che, in queste grazie che Dio concede all’anima, il godimento è più o meno grande perché in alcune visioni la gioia, il piacere, la consolazione superano talmente i diletti dati in altre, che io mi meravigliavo di così gran differenza di godimento fin da questa vita. Accade, infatti, che in talune visioni o rapimenti, il Signore ci dia tanta gioia e diletto che sembra impossibile desiderare di più in questo mondo, e l’anima, in effetti, non lo desidera né saprebbe chiedere una gioia maggiore. Però, dal momento che il Signore mi ha fatto comprendere la grande differenza che vi è in cielo tra il godimento degli uni e quello degli altri, vedo bene che anche quaggiù non c’è misura quando il Signore si compiace di accordare dei doni. E così neppure io vorrei averla nel servirlo e vorrei consacrare tutta la mia vita, le mie forze, la mia salute al suo servizio e non perdere per mia colpa neanche in minima parte la possibilità di godere di più. Pertanto, se mi chiedessero cosa preferisco, se rimanere su questa terra, con tutte le sofferenze che essa comporta, sino alla fine del mondo, e poi salire in cielo con un po’ di gloria in più, oppure andar subito in cielo senza soffrire alcuna tribolazione, ma con un po’ di gloria in meno, ben volentieri accetterei tutte le sofferenze del mondo, pur di godere un pochino di più nell’intendere le grandezze di Dio, poiché vedo bene che chi meglio lo intende, più lo ama e lo loda.

3. Non dico che non mi accontenterei e non mi riterrei fortunata di stare in cielo anche nel posto più basso, perché, avendo io meritato di averlo bassissimo nell’inferno, il Signore, così facendo, mi userebbe una gran misericordia e piaccia a Sua Maestà che io possa andare lassù e non guardi ai miei peccati. Dico solo che qualunque cosa mi dovesse costare, se io potessi, e il Signore me ne desse la grazia, soffrire grandi tribolazioni, non vorrei perdere nulla per colpa mia. Me infelice: con tanti peccati avevo perduto ogni cosa!

4. Si noti ancora che da ogni grazia che il Signore mi accordava, di visione o di rivelazione, la mia anima traeva sempre grandi vantaggi e, da alcune visioni, grandissimi. La visione di Gesù Cristo mi lasciò impressa la sua incomparabile bellezza che ho sempre davanti. Per questo sarebbe bastato vederlo una sola volta; a maggior ragione, quindi, avendolo visto tante volte, quante il Signore ha voluto farmi la grazia. Ne trassi un vantaggio grandissimo di cui ora parlerò. Avevo un difetto assai grave da cui mi erano venuti danni enormi, ed era questo: quando mi accorgevo che una persona mi voleva bene, se mi andava a genio, mi affezionavo tanto ad essa da averla sempre nella mente. Non già che avessi l’intenzione di offendere Dio, ma godevo di vederla e di pensare a lei e alle buone qualità che io le trovavo. Ciò mi procurava tanto danno da farmi perdere totalmente l’anima. Ma, dopo aver visto la gran bellezza del Signore, non trovai più nessuno che al suo confronto mi piacesse né mi occupasse la mente. Mi bastava gettare mentalmente lo sguardo sull’immagine che di lui portavo scolpita nell’anima, per sentirmi così libera da questa tentazione, che da quel momento in poi tutto ciò che vedo mi sembra ripugnante in confronto all’eccellenza e alle attrattive del Signore. Non v’è scienza né diletto di nessun genere che possa esser degno di considerazione, in paragone a quello di udire una sola parola pronunciata da quella bocca divina, tanto più, poi, se le parole son molte. Ritengo, quindi, impossibile, a meno che il Signore, in castigo dei miei peccati, non permetta che io ne perda la memoria, che alcun altro possa occuparla in modo tale che, tornando a ricordarmi di lui anche solo per un attimo, non resti libera da altro pensiero.

5. Ecco quanto mi accadde con qualche mio confessore. Io amo sempre molto quelli che mi dirigono perché, convinta come sono che facciano le veci di Dio, mi sembra di rivolgere sempre il mio affetto particolarmente ad essi e, siccome non vedevo in ciò alcun pericolo, glielo dimostravo. Essi, timorati e servi di Dio com’erano, temevano che mi attaccassi in qualche modo a loro con un particolare vincolo affettivo, sia pur santo, e mi mostravano il proprio disappunto. Questo mi avveniva dopo essermi del tutto sottomessa a far ciò che mi ordinavano, perché prima non mi affezionavo così a loro. Io ridevo fra me, vedendo come s’ingannassero, e, pur non dicendo sempre ad essi chiaramente, come lo sentivo in me, quanto poco ormai fossi attaccata a chiunque, non mancavo di rassicurarli; essi, poi, trattandomi di più, si accorgevano di ciò che dovevo al Signore; pertanto, questi timori a mio riguardo li avevano solo all’inizio. La visione di nostro Signore, essendo anche accompagnata da una continua conversazione con lui, aumentò molto il mio amore e la mia fiducia. Mi rendevo conto che, pur essendo Dio, egli è anche uomo, e come tale non si meraviglia della debolezza umana, conoscendo la nostra misera natura soggetta a molte cadute a causa del primo peccato che egli è venuto a riparare. Posso trattare con lui come con un amico, benché sia il Signore; capisco, infatti, che egli non è come quelli che quaggiù stimiamo signori, i quali ripongono tutta la loro grandezza in un fittizio sfoggio di autorità. Bisogna attenersi a ore determinate per parlare con loro e non lo possono fare che persone segnalate. Se si tratta di un poveretto che ha qualche affare da sbrigare, non parliamo dei giri, dei favori da chiedere, delle fatiche che gli dovrà costare avere una udienza. Se poi si vuole parlare con il re, la gente povera e non nobile è fuori causa; bisogna che faccia ricorso ai suoi favoriti e si può essere certi che non sono di quelli che tengono il mondo sotto i piedi, perché questi dicono la verità, non hanno timori né devono averne, non sono fatti per le corti, dove non si può agire con franchezza, ma tacere se qualcosa sembra un male, senza neanche pensare che tale sia, per non cadere in disgrazia.

6. Oh, Re della gloria e Signore di tutti i re, il vostro regno non è difeso da fragili barriere, perché è eterno, e per voi non c’è bisogno di intermediari! Basta guardarvi per vedere, dalla maestà che mostrate, che voi solo meritate il nome di Signore; non avete bisogno di scorta né di guardie perché vi riconoscano Re. Difficilmente quaggiù si può riconoscere un re quando è solo. Per quanto egli si sforzi d’essere riconosciuto come tale, nessuno gli crede, non avendo nulla che lo distingua dagli altri. Per essere creduto re, gli occorre qualche insegna esteriore, e pertanto è giusto che usi di uno sfoggio fittizio di autorità perché, se non lo facesse, non godrebbe di alcuna considerazione. Dalla sua persona, infatti, non appare alcuna potenza, e l’autorità deve venirgli da altre cose. Oh, Signor mio, oh, mio Re! Se qui si potesse descrivere la Vostra Maestà! È impossibile riconoscere che siete la stessa Maestà, la cui contemplazione fa restare sbigottiti, ma più ancora stupisce, Signor mio, insieme con essa, vedere la vostra umiltà e l’amore che dimostrate a una creatura come me. Passato quel primo senso di timore e di sbigottimento che nasce dalla vista della Maestà Vostra, si può trattare con voi e parlarvi liberamente di ogni cosa, pur restando un più grande timore, quello di offendervi, ma non per paura del castigo, mio Signore, perché questo non ha alcuna importanza in confronto al timore di perdervi.

7. Ecco, quindi, i vantaggi che si traggono da questa visione, senza parlare di altri molto grandi che restano nell’anima. Quando una visione viene da Dio, lo si vede dagli effetti che produce, purché l’anima sia nella luce, perché a volte, come ho già detto, il Signore può non voler concedergliela, lasciandola nelle tenebre. Allora, non fa meraviglia che abbia molta paura quella che si vede così miserabile come lo sono io. Proprio poco tempo fa mi è accaduto di stare otto giorni con l’impressione che non ci fosse in me neanche la possibilità di riconoscere ciò che devo a Dio né il ricordo delle sue grazie. Avevo l’anima trasognata e non sapevo perché, né a che cosa fosse rivolta: non certo a cattivi pensieri, ma mi sentivo così incapace di averne di buoni, che ridevo di me stessa, compiacendomi di vedere la miseria in cui cade un’anima quando dio non opera continuamente in lei. Essa si rende conto di non essere senza di lui, in questo stato, in cui non si hanno quelle grandi sofferenze che, come ho detto, ho provato altre volte, ma per quanto metta legna e faccia quel po’ che può da parte sua, non riesce a far ardere il fuoco dell’amor di Dio, ed è grande sua misericordia se si vede il fumo, dal quale capire che il fuoco non è spento del tutto. torna ad accenderlo il Signore, senza cui l’anima si rompe invano la testa a soffiare e a sistemare la legna: sembra, anzi, che lo soffochi sempre di più. Credo che il meglio da farsi sia che l’anima si arrenda all’evidenza dei fatti, riconoscendo che da sola non può far nulla e attenda, come ho detto, ad altre opere meritorie, perché il Signore, forse, le toglie l’orazione proprio perché si dedichi a queste opere e veda per esperienza quanto poco essa possa per se stessa.

8. È vero che oggi, mentre godevo del Signore, ho avuto l’ardire di lamentarmi di Sua Maestà, dicendogli: «Come! Non vi basta, Dio mio, di tenermi in questa misera vita, e che io per amor vostro l’accetti, e voglia vivere dove tutto m’impedisce di godervi, e debba mangiare, dormire, occuparmi di affari e trattare con la gente? Io sopporto ogni cosa per amor vostro, ma ben sapete, Signore, quanto ciò mi sia di tormento, e perché allora vi nascondete nei pochi istanti di cui dispongo per godere di voi? Com’è compatibile tutto questo con la vostra misericordia? Come può sopportarlo l’amore che nutrite per me? Credo, Signore, che se potessi nascondermi a voi come voi vi nascondete a me, il vostro amore per me non lo sopporterebbe: voi, infatti, ve ne state con me e mi vedete sempre. No, questo è intollerabile, mio Signore; vi supplico di considerare che è fare ingiuria a chi tanto vi ama».

9. Queste ed altre cose del genere mi è accaduto di dire, pur avendo visto quanto era blando il castigo preparato per me nell’inferno, in paragone di quel che avrei meritato. Ma, a volte, l’amore mi fa perdere il senno a tal punto che non sono più padrona di me e con piena convinzione esplodo in questi lamenti, sopportata sempre dal Signore. Sia lodato questo Re così buono! Potremmo mai parlare ai re della terra con tanto ardire? Non mi meraviglio che non si osi parlare così con il re, essendo giusto che se ne abbia rispetto, come anche che lo si abbia per le prime autorità del regno; ma ora il mondo è arrivato a tal punto che sarebbe necessaria una vita più lunga per imparare le precise cerimonie e i nuovi modi di convenienze sociali, se si vuole spendere anche un po’ di tempo al servizio di Dio. Mi faccio il segno della croce nel vedere quello che accade. Sta di fatto che, quando sono venuta in questa casa, non sapevo ormai più come vivere perché le persone, trattando le quali si cade in qualche distrazione e a cui non si rende un omaggio superiore a quanto meritano, non se la prendono a ridere, ma se la prendono così seriamente per offesa che occorre vi giustifichiate spiegando le vostre buone intenzioni, in quanto è stata – come ho detto – solo una distrazione, e piaccia a Dio che lo credano!

10. Torno a dire che, senza dubbio, io non sapevo come vivere, poiché una povera anima prova una grande sofferenza: da una parte, le comandano di tener sempre occupato il pensiero in Dio, essendo necessario volgerlo a lui per liberarsi da molti pericoli; dall’altra parte, vede che deve guardarsi dal contravvenire minimamente alle usanze del mondo, sotto pena di non evitare di essere occasione di risentimento per coloro che fanno consistere il loro onore nel conformarvisi. Ero proprio stanca e non finivo mai di chiedere scusa, perché non potevo, pur sforzandomi di riuscirci, evitare di commettere, a questo riguardo, molte mancanze che, come ho detto, agli occhi del mondo non sono piccole. Forse che per noi degli Ordini religiosi – che giustamente in tali casi dovremmo essere scusati – c’è una giustificazione? No, perché dicono che i monasteri devono essere corte di convenienze sociali e conoscerle. Io davvero non riesco a capirlo; mi sono chiesta se mai qualche santo abbia detto che i monasteri devono essere delle «corti», cioè scuole d’insegnamento per coloro che vogliono diventare cortigiani del cielo, e che gli altri lo abbiano inteso alla rovescia. Non so, infatti, come chi dev’essere costantemente impegnato a contentare Dio e a disprezzare il mondo, possa darsi pensiero di questo, preoccupandosi tanto di soddisfare in cose mutevoli coloro che vivono nel mondo stesso. Se si potessero almeno imparare d’un colpo, pazienza! Ma oggi, solo per i titoli delle lettere ci vorrebbe una scuola che insegni anche, per così dire, come scriverle, perché ora bisogna lasciare il margine da una parte ora dall’altra, e bisogna dare dell’illustre a chi non si dava prima neppure del magnifico.

11. Non so dove si andrà a finire, perché non ho ancora cinquant’anni e nel corso della mia vita ho visto tanti cambiamenti che non so più come vivere. Che sarà di coloro che nascono adesso, se vivranno a lungo? Compatisco sinceramente le persone spirituali costrette a vivere nel mondo per qualche santo scopo, essendo terribile la croce che devono portare per questo motivo. Se si potessero mettere tutti d’accordo a voler passare per ignoranti ed essere considerati tali in questa scienza, si libererebbero da una gran schiavitù.

12. Ma in quante sciocchezze mi sono cacciata! Per trattare delle grandezze di Dio, ho finito col parlare delle bassezze del mondo. Poiché il Signore mi ha fatto la grazia di averlo lasciato, voglio uscirne del tutto; se la vedano un po’ coloro che con tanti sacrifici sostengono queste cose da nulla. Piaccia a Dio che non le debbano pagar care nell’altra vita, dove non ci saranno mutamenti! Amen.