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Libro della Vita - La rassegnazione nelle grandi sofferenze

Capitolo 6-7

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 6

Ove si dice quanto Teresa fu debitrice al Signore per averle dato la rassegnazione nelle sue grandi sofferenze, come ella prese per mediatore e avvocato il glorioso san Giuseppe e quanto ciò le giovò.

1. Dopo quei quattro giorni di crisi, rimasi in tale stato che solo il Signore può conoscere gli insostenibili tormenti di cui soffrivo: mi sentivo la lingua a pezzi a furia di mordermela, la gola chiusa da soffocarmi per non aver inghiottito nulla e per la grande debolezza, così che neanche l’acqua poteva passarvi; mi pareva di essere tutta slogata, con un grandissimo stordimento; tutta rattrappita, diventata come un gomitolo – perché tale fu il risultato del tormento di quei giorni –, senza poter muovere, se non mi aiutavano gli altri, né piede, né mano, né testa, neanche fossi stata morta; mi pare che potessi muovere solo un dito della mano destra. Per di più non si sapeva come aiutarmi perché tutto il corpo mi doleva tanto da non poter sopportare d’essere toccata. Se mi dovevano spostare, mi muovevano in due persone, dentro un lenzuolo, l’una da capo e l’altra da piedi. Rimasi n questo stato fino alla Pasqua di risurrezione. C’era di buono solo il fatto che, quando mi lasciavano in pace, spesso i dolori cessavano, e quel po’ di riposo bastava per farmi credere di star bene, temendo che mi dovesse venir meno la pazienza. Perciò fui molto felice quando mi sentii libera da così acuti e continui dolori, anche se i brividi di freddo della quartana doppia, che mi perdurava fortissima, erano insopportabili. Avevo, inoltre, una grandissima nausea.

2. Sollecitai subito con tanta insistenza il mio ritorno al monastero, che fui ricondotta lì. Così accolsero viva colei che aspettavano morta, ma il corpo era peggio che morto, da far pena a vederlo. Indicibile il punto di magrezza a cui ero giunta: non mi erano rimaste che le ossa. Durai in questo stato più di otto mesi; il rattrappimento, anche se andava migliorando, continuò per quasi tre anni. Sopportai tutto con grande rassegnazione e, tranne nei primi tempi, con grande gioia, perché ogni cosa mi sembrava un nonnulla, paragonata ai dolori e ai tormenti sofferti prima; ero molto rassegnata al volere di Dio, anche se avesse dovuto lasciarmi sempre in quello stato. Mi sembra che tutta la mia ansia di guarire fosse dovuta al desiderio di stare da sola in orazione, com’era mia abitudine, cosa che in infermeria non potevo fare. Mi confessavo assai spesso. Parlavo molto di Dio, così che tutte ne restavano edificate e si stupivano della pazienza che il Signore mi concedeva, giacché sembrava impossibile, senza l’aiuto di Sua Maestà, che io potessi sopportare tanto male con tanta gioia.

3. Gran cosa fu l’avermi egli dato la grazia dell’orazione, con la quale mi faceva capire in cosa consistesse l’amarlo. In quel breve periodo di tempo vidi nascere in me nuove virtù (sebbene non così forti da esser sufficienti a farmi sempre operare con rettitudine), come il non parlar male di nessuno, nemmeno in cose di poco conto, evitando di regola ogni mormorazione e tenendo ben presente che non dovevo volere né dire di altri quello che non volevo si dicesse di me. Rispettavo questa norma con somma cura, in qualunque occasione mi trovassi, benché non in modo così perfetto che alcune volte, quando si trattava di un’occasione superiore alle mie forze, non trasgredissi il mio proposito; ma di solito era così. E convinsi tanto di ciò quelle che stavano o trattavano con me, che ne contrassero anch’esse l’abitudine. Si capiva che dove ero io le spalle stavano al sicuro. Della stessa stima godevano le persone con le quali io avevo amicizia o vincolo di parentela o alle quali insegnavo; ciò nonostante, in altre cose devo rendere ben conto a Dio del cattivo esempio che davo. Sia compiaccia Sua Maestà di perdonarmi, per essere stata causa di tanti mali, anche se l’intenzione non era così cattiva come poi apparivano le opere.

4. Rimasi desiderosa di solitudine, amante di trattare e parlare di Dio e, se trovavo con chi farlo, ciò mi dava più gioia e distrazione che tutta la squisitezza – o, per meglio dire, la grossolanità – delle conversazioni mondane. Mi comunicavo e confessavo molto più spesso e desideravo farlo. Ero appassionata alla lettura di buoni libri e provavo un così profondo pentimento di aver offeso Dio, che molte volte non osavo – ricordo – fare l’orazione, perché temevo come un gran castigo l’enorme pena che avrei provato per averlo offeso. Questa pena andò poi crescendo fino a tal punto che non saprei a quale tormento paragonarla; e non era dovuta né poco né molto al timore, mai, ma all’impossibilità di sopportare il pensiero della mia ingratitudine, non appena ricordavo le grazie che il Signore mi faceva nell’orazione e vedevo quanto male lo ripagavo. M’irritavano le molte lacrime che versavo per le mie colpe, considerando la scarsa ammenda che ne facevo, se non bastavano né propositi, né la sofferenza in cui mi vedevo a non farmi ricadere, non appena se ne presentasse l’occasione: mi sembravano lacrime mendaci e mi sembrava che, cosciente di quanta grazia mi faceva il Signore nell’accordarmele, procurandomi un così profondo pentimento, la colpa, dopo, fosse più grave. Cercavo però subito di confessarmi e così, a mio giudizio, facevo da parte mia quello che potevo per ritornare in grazia. Tutto il danno stava nel fatto di non evitare radicalmente le occasioni e nello scarso aiuto che mi davano i confessori; se, invece, mi avessero prospettato il pericolo che correvo e l’obbligo che avevo di non continuare in quelle relazioni, senza dubbio, credo, mi sarei salvata, perché in nessun modo avrei potuto sopportare d’incorrere in peccato mortale solo un giorno, se ne fossi stata consapevole. Tutti questi segni del timore di Dio mi vennero dall’orazione, e per la maggior parte erano intessuti d’amore, perché non mi si presentava mai il pensiero del castigo. Tutto il tempo in cui fui ammalata ebbi gran cura della mia coscienza, quanto ai peccati mortali. Oh, mio Dio, desideravo tanto la salute per meglio servirvi, ed essa, invece, fu la causa di ogni mio male!

5. Nel vedermi, dunque, tutta rattrappita e in così giovane età, e nel vedere in che stato mi avevano ridotto i medici della terra, decisi di ricorrere a quelli del cielo perché mi guarissero, desiderando ancora la salute, anche se tiravo avanti con molta allegria. Pensavo talvolta che se, stando bene, mi dovevo dannare, era meglio che restassi così; tuttavia, pensavo anche che con la salute avrei potuto servire meglio Dio. Questo è il nostro errore, non abbandonarci totalmente nelle mani del Signore, il quale sa meglio di noi quanto ci conviene.

6. Cominciai a far celebrare Messe e a recitare orazioni approvate [dalla Chiesa], giacché non sono mai stata amante di certe devozioni praticate da alcune donne – con cerimonie che io non ho mai potuto soffrire e che a loro ispiravano religioso rispetto (in seguito si è capito che non erano convenienti perché superstiziose) – e presi per avvocato e patrono il glorioso san Giuseppe, raccomandandomi molto a lui. Vidi chiaramente che questo mio padre e patrono mi trasse fuori sia da quella situazione, sia da altre più gravi in cui erano in gioco il mio onore e la salvezza dell’anima mia, meglio di quanto io non sapessi chiedergli. Finora non mi ricordo di averlo mai pregato di un favore che egli non mi abbia concesso. È cosa che riempie di stupore pensare alle straordinarie grazie elargitemi da Dio e ai pericoli da cui mi ha liberato, sia materiali sia spirituali, per l’intercessione di questo santo benedetto. Mentre ad altri santi sembra che il Signore abbia concesso di soccorrerci in una singola necessità, ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe ci soccorre in tutte. Pertanto, il Signore vuol farci capire che allo stesso modo in cui fu a lui soggetto in terra – dove san Giuseppe, che gli faceva le veci di padre, avendone la custodia, poteva dargli ordini – anche in cielo fa quanto gli chiede. Lo hanno costatato alla prova dei fatti anche altre persone, alle quali io dicevo di raccomandarsi a lui, e ce ne sono ora molte ad essergli diventate devote, per aver sperimentato questa verità.

7. Cercavo di celebrarne la festa con tutta la solennità possibile, piena di vanità più che di spirito di devozione, perché volevo che si facesse tutto alla perfezione, con molta ricercatezza, pur essendo animata da buona intenzione. Era proprio questo il mio male: che quando il Signore mi faceva la grazia di poter compiere qualcosa di buono, lo riempivo di imperfezioni e di molti errori; invece, per il male, le ricercatezze e le vanità, mi adoperavo con ogni ingegnosa cura e diligenza. Il Signore mi perdoni. Vorrei persuadere tutti ad essere devoti di questo glorioso santo, per la grande esperienza dei beni che egli ottiene da Dio. Non ho conosciuto persona che gli sia sinceramente devota e gli renda particolari servigi, senza vederla più avvantaggiata nella virtù, perché egli aiuta molto le anime che a lui si raccomandano. Già da alcuni anni, mi pare, nel giorno della sua festa io gli chiedo sempre qualcosa e sempre mi vedo esaudita. Se la mia richiesta esce un po’ dalla retta via, egli la raddrizza per il mio maggior bene.

8. Se avessi autorità di scrittrice mi dilungherei a raccontare molto minuziosamente le grazie che questo glorioso santo ha fatto a me e ad altre persone, ma per non oltrepassare i limiti che mi sono stati imposti, in molte cose sarò più breve di quanto vorrei, in altre più lunga del necessario; agirò, insomma, come chi ha poca discrezione in tutto ciò che è bene. Solo chiedo, per amor di Dio, che ne faccia la prova chi non mi credesse, e vedrà per esperienza di quale giovamento sia raccomandarsi a questo glorioso patriarca ed essergli devoti. Dovrebbero amarlo specialmente le persone che attendono all’orazione, giacché non so come si possa pensare alla Regina degli angeli nel tempo in cui tanto soffrì con Gesù Bambino, senza ringraziare san Giuseppe per essere stato loro di grande aiuto. Chi non dovesse trovare un maestro che gli insegni l’orazione, prenda questo glorioso santo per guida e non sbaglierà nel cammino. Piaccia a Dio che io non abbia sbagliato nell’arrischiarmi a parlarne perché, anche se mi professo a lui devota, nel modo di servirlo e di imitarlo ho sempre mancato. È stato lui a fare sì che io potessi alzarmi e camminare, e non essere più rattrappita; io, invece, da quella che sono, lo ricambiai con l’usar male di questa grazia.

9. Chi avrebbe detto che sarei ritornata così presto a cadere, dopo tante grazie di Dio, dopo che Sua Maestà aveva cominciato a darmi virtù tali che per se stesse m’incitavano a servirlo, dopo essermi vista quasi morta e in così gran pericolo di dannarmi, dopo essere risuscitata anima e corpo, con grande meraviglia di tutti coloro che mi vedevano viva? Che è ciò, Signor mio? Dobbiamo vivere una vita così piena di pericoli? Mentre scrivo questo, mi sembra che con il vostro aiuto e per vostra misericordia potrei dire, anche se non con la stessa perfezione, ciò che ha detto san Paolo: Non sono più io che vivo, ma voi, mio Creatore, che vivete in me, per il fatto che da alcuni anni, a quanto mi è dato d’intendere, voi mi reggete con la vostra mano, sì ch’io vedo dai desideri e propositi, di cui in qualche modo in questi anni ho dato prova, attuandoli in molte circostanze, di non far nulla contro la vostra volontà, neppure la minima cosa. Certo, credo di arrecare ugualmente molte offese a Vostra Maestà senza rendermene conto. Credo anche, però, di essere risolutamente decisa a non trascurare nulla di quanto mi si presenti di fare per amor vostro, e in alcune circostanze voi mi avete aiutato a riuscirvi. Non amo il mondo né cosa alcuna che gli appartenga, né credo che mi allieti nulla che non venga da voi; il resto mi appare, anzi, come una pesante croce. È vero che mi posso ingannare, e forse non ho i sentimenti che ho detto; ma voi certo vedete, mio Signore, che a me non sembra di mentire e temo – con tutta ragione – che non abbiate di nuovo ad abbandonarmi, perché ormai so fin dove arrivino la mia debole forza e la mia scarsa virtù se voi non continuate sempre a darmela aiutandomi a non lasciarvi. Piaccia a Vostra Maestà di non abbandonarmi neanche adesso in cui mi sembra rispondere al vero quanto ho detto di me. Non so come si desideri vivere, essendo tutto così incerto. Mi pareva ormai impossibile abbandonarvi interamente, mio Signore; ma, poiché tante volte vi ho abbandonato, non posso cessar di temere, ben sapendo che non appena vi allontanavate un poco da me, stramazzavo a terra. Siate benedetto per sempre, anche se io vi abbandonavo, voi non mi lasciaste mai così totalmente che io non tornassi a rialzarmi, con l’aiuto della vostra mano. E spesso, Signore, io non la volevo, né volevo capire che molte volte voi mi chiamavate di nuovo, come ora dirò.

CAPITOLO 7

Racconta in che modo andò perdendo le grazie che il Signore le aveva fatto e quale vita dissipata cominciò a condurre. Parla dei danni che derivano dalla mancanza di una stretta clausura nei monasteri di religiose.

1. Così, dunque, di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a espormi a tali tentazioni e ad avere l’anima così guasta da tante vanità, che mi vergognavo di tornare ad avvicinarmi a Dio, con quella particolare amicizia, che è data dall’orazione; a questo contribuì il fatto che, aumentando i peccati, cominciò a mancarmi il gusto e il piacere delle pratiche di virtù. Io vedevo molto bene, o Signore, che ciò mi veniva a mancare, perché io mancavo a voi. Fu questo, appunto, il più terribile inganno che il demonio poteva tramarmi sotto l’apparenza dell’umiltà: cominciai a temere di fare orazione, vedendomi senza alcuna speranza di salvezza. Mi sembrava meglio seguire i molti, poiché quanto a essere spregevole, ero tra le peggiori creature, e recitare le preghiere d’obbligo vocalmente, piuttosto che darmi alla pratica dell’orazione mentale ed avere tanta familiarità con Dio, io che meritavo di stare con i demoni e che ingannavo la gente, perché esteriormente mantenevo buone apparenze. Di questo non si può incolpare la casa in cui stavo, perché con la mia astuzia mi adoperavo a godere di una buona opinione, pur non fingendo consapevolmente spirito cristiano, perché in materia d’ipocrisia e vanagloria, grazie a Dio, non ricordo di averlo mai offeso, per quanto io sappia; al primo impulso di farlo, provavo tanto dolore che il demonio se ne andava sconfitto e io restavo con la vittoria. Perciò a questo riguardo mi ha tentato sempre ben poco. Ma se, per caso, Dio avesse permesso che mi tentasse in ciò così fortemente come in altre cose, anche qui sarei caduta; Sua Maestà, però, finora mi ha preservato da questo (sia per sempre benedetto), anzi mi affliggeva molto godere di una buona opinione, conoscendo l’intimo dell’animo mio.

2. Il fatto di non essere considerata tanto miserabile dipendeva dal vedere che, pur essendo così giovane e fra tante occasioni, mi ritiravo spesso in solitudine a pregare e a leggere molto, che parlavo di Dio, che amavo far dipingere la sua immagine in molti luoghi, avere un oratorio e provvederlo di ciò che potesse ispirare devozione, che non mormoravo, e altre cose del genere, tutte con l’apparenza di virtù. Io poi, vana com’ero, sapevo dare importanza a quelle esteriorità che il mondo suole tenere in pregio, e per questo mi concedevano maggiore e più ampia libertà che non alle suore più anziane, e riponevano grande fiducia in me! Infatti, non credo che sarei mai giunta ad abusare di questa libertà e a far nulla che non fosse permesso, come parlare nel monastero attraverso fori o pareti, o di notte, né lo feci mai, perché il Signore mi sostenne con la sua mano. A me, che consideravo attentamente e seriamente molte cose, sembrava assai mal fatto il mettere a rischio per la mia cattiveria l’onore di tante religiose le quali, invece, erano buone, come se fosse ben fatto il resto che facevo! A dire il vero, però, il male inerente a questa ultima riflessione non era così grave come il male di cui ho parlato prima, benché fosse anch’esso grave.

3. Credo, pertanto, che mi fu di gran danno non stare in un monastero di clausura, perché la libertà di cui le buone religiose potevano godere tranquillamente (non erano tenute a privarsene, non essendovi l’impegno della clausura), per me, che sono vile, sarebbe stata certamente causa di finire all’inferno, se il Signore, con tanti mezzi d’aiuto, con tante sue specialissime grazie, non mi avesse tratto fuori da questo pericolo. E così mi sembra che un monastero di donne senza clausura rappresenti un grandissimo pericolo in quanto, nei confronti di quelle desiderose d’una vita rilassata, è piuttosto la strada per andare all’inferno che un rimedio per la loro debolezza. Questo non si pensi di riferirlo al mio monastero, perché in esso sono tante le religiose che servono con profonda sincerità e con assoluta perfezione il Signore che Sua Maestà, nella sua infinita bontà, non può tralasciare di aiutarle; e poi non è dei più liberi e vi si osserva compiutamente la Regola; quanto ho detto si riferisce ad altri che io conosco e ho visto.

4. Mi fa proprio una gran pena che il Signore abbia bisogno di ricorrere a particolari richiami – e non una volta, ma molte – perché quelle monache si salvino, tenuto conto di come sono autorizzati in tali monasteri gli onori e le distrazioni mondane e di quanto siano male intesi i loro obblighi. Piaccia a Dio che non reputino virtù ciò che è peccato, come molte volte facevo io; è, infatti, tanto difficile per loro capirlo, che ci vuole proprio la mano del Signore. Se i genitori accettassero il mio consiglio, direi ad essi che, non volendo badare a collocare le proprie figlie dove sia loro aperta la strada della salvezza, ma dove trovano più pericolo che nel mondo, badino almeno al loro onore e preferiscano maritarle molto umilmente che metterle in simili monasteri, a meno che abbiano assai buone propensioni, e piaccia a Dio che ne traggano vantaggio; oppure se le tengano in casa ove, se vogliono comportarsi male, la cosa non potrà restare nascosta se non poco tempo, e invece lì molto di più, finché il Signore non scopre ogni cosa; e allora non danneggiano solo se stesse, ma tutte. A volte quelle poverette non hanno nessuna colpa, perché seguono la strada che si trovano aperta davanti. Fa pena anzi, che molte, volendo appartarsi dal mondo e pensando di andare a servire il Signore e di allontanarsi da ogni pericolo, si trovino in mezzo a dieci mondi, senza sapere come difendersi né premunirsi, poiché la giovane età, la sensualità e il demonio le invitano e le inducono a far cose che sono proprie del mondo, in quanto vedono che lì tali cose sono stimate buone, per così dire. Mi sembra di poterle paragonare in parte ai disgraziati eretici, che si accecano volontariamente, facendo credere di seguire la via giusta e di esserne convinti, senza peraltro esserlo, perché nell’intimo una voce dice loro che è errata.

5. Oh, che enorme disgrazia, che enorme disgrazia è quella degli ordini religiosi – sia di uomini sia di donne – dove non si osserva la Regola, dove, in uno stesso monastero si seguono due strade: una di virtù e di religione, l’altra di rilassamento, e tutt’e due quasi ugualmente battute. Anzi, ho detto male ugualmente, perché per i nostri peccati è più battuta quella più imperfetta la quale, essendo più larga, è preferita. Quella della vera religione è così poco praticata che il frate o la suora che devono cominciare a seguire con impegno la loro vocazione hanno più da temere dai propri familiari che da tutti i demoni e devono avere più cautela e dissimulazione nel parlare dell’amicizia che desiderano stabilire con Dio, che non di altre amicizie e di altri desideri che il demonio introduce nei monasteri. Io non so perché ci meravigliamo che ci siano tanti mali nella Chiesa, quando coloro che dovevano essere i modelli da cui tutti imparassero virtù hanno così profondamente cancellata l’impronta lasciata dallo spirito dei santi negli ordini religiosi. Piaccia alla divina Maestà di porvi il rimedio che vede necessario! Amen.

6. Quando, dunque, incominciai a intrattenermi in queste conversazioni (non credendo – visto che esse erano in uso – che doveva venirmene all’anima il danno e la distrazione che poi capii dovuti ad esse, e sembrandomi che un’abitudine così comune come era, in molti monasteri, quella delle visite non avrebbe fatto più male a me che alle altre che pur vedevo buone, ma non consideravo che erano molto migliori di me e che quanto per me era un pericolo, per altre lo era assai meno, sebbene un po’ credo che lo fosse, se non altro per il tempo male speso), mentre stavo con una persona appena conosciuta, il Signore volle farmi capire che quelle amicizie non mi giovavano e volle ammonirmi e illuminarmi nella mia grande cecità. Mi si presentò davanti Cristo con un aspetto molto severo, facendomi conoscere quanto fosse addolorato di ciò. Lo vidi con gli occhi dell’anima più chiaramente di come potessi vederlo con quelli del corpo, e la sua immagine mi rimase così impressa che, pur essendo trascorsi da questa visione più di ventisei anni, mi sembra di averla ancora presente. Rimasi assai spaventata e turbata, tanto da non voler più vedere la persona con cui stavo parlando.

7. Mi fu di gran danno non sapere che si potesse vedere anche senza gli occhi del corpo e il demonio, confermandomi in questa opinione, mi fece credere che era impossibile, che era un’illusione, e che poteva essere opera di satana, e altre cose del genere, sebbene, in fondo, mi restasse l’impressione che fosse opera di Dio e non un inganno. Siccome, però, questo non mi garbava, cercavo di smentire me stessa. Così io, poiché non osavo parlarne con nessuno e in seguito fui di nuovo molto importunata a questo riguardo, ricevendo l’assicurazione che non c’era alcun male nel vedere quella tale persona, che non ci rimettevo l’onore, anzi lo guadagnavo, tornai alla stessa conversazione di prima e ne praticai anche altre, dopo questa, essendo stati molti gli anni in cui mi prendevo questa ricreazione pestilenziale che, peraltro – standoci dentro – non mi pareva così cattiva com’era, anche se a volte vedevo chiaramente che non era buona; ma nessuna mi procurò tanto sviamento come questa che ho detto, perché vi ero molto attaccata.

8. Un’altra volta, mentre stavo con la stessa persona vedemmo venire verso di noi – e lo videro anche gli altri lì presenti – un qualcosa simile a un grosso rospo, ma assai più agile nel muoversi di quanto non lo siano i rospi. Non riesco a capire come in pieno giorno potessero trovarsi siffatti schifosi animali nel luogo da cui veniva, né se n’erano mai visti, e l’impressione che mi fece mi pare andasse oltre un orrore naturale; nemmeno di questo potei più dimenticarmi. Oh, grandezza di Dio, con quanta sollecitudine e con quanta bontà cercavate di avvisarmi in tutti i modi, e quanto poco seppi approfittarne!

9. Vi era lì una monaca, mia parente, anziana, gran serva di Dio e di molta pietà. Anche lei talvolta mi ammoniva, e io non solo non l’ascoltavo, ma m’inquietavo con lei che mi sembrava scandalizzarsi senza ragione. Ho detto questo perché si conoscano la mia perversità, la grande bontà di Dio, e quanto meritassi l’inferno per così estrema ingratitudine; e anche perché, se piacerà al Signore che qualche monaca legga mai il mio scritto, tragga insegnamento dal mio esempio; io la scongiuro, per amore di nostro Signore, di fuggire da tali ricreazioni. Piaccia a Sua Maestà che io possa disingannare qualcuna delle molte che ho ingannato, dicendo loro che ciò non era male e rassicurandole, in così grande pericolo, per la mia cecità, non perché avessi intenzione di ingannarle; pertanto, per il cattivo esempio che diedi, fui – come ho detto – causa di molti mali, senza che me ne rendessi conto.

10. Nei primi giorni della mia malattia, prima che sapessi giovare a me stessa, avevo un grandissimo desiderio di giovare agli altri; tentazione molto comune nei principianti e che a me riuscì bene. Siccome amavo molto mio padre, desideravo, per il bene che a me sembrava di avere con l’attendere all’orazione – bene maggiore del quale non ritenevo che in questa vita potesse essercene alcuno –, che ne godesse anche lui. Pertanto, con rigiri, come meglio potei, cominciai a fare in modo che la praticasse. A questo scopo gli diedi alcuni libri. Essendo egli, come ho detto, tanto virtuoso, questa pratica gli fu così congeniale che in cinque o sei anni, mi pare, aveva fatto tali progressi che io ne lodavo molto il Signore e ne avevo grandissima consolazione. Furono molte le prove d’ogni genere ch’ebbe a soffrire; le sopportava tutte con perfetta rassegnazione; veniva spesso a vedermi, perché trovava conforto nel parlare delle cose di Dio.

11. Ormai, però, da tempo io mi ero così rovinata da non praticare più l’orazione e, vedendo ch’egli pensava che io ero quella di sempre, non potei resistere a non trarlo d’inganno. Infatti, da oltre un anno non facevo più orazione, sembrandomi maggiore umiltà. E questa, come dirò in seguito, fu la più grande tentazione che io ebbi a sostenere, tanto che a causa di essa avrei finito col perdermi del tutto poiché se, nonostante l’orazione, un giorno offendevo Dio, in altri, con il suo aiuto, tornavo a raccogliermi e ad allontanarmi dall’occasione. Siccome quel benedetto uomo di mio padre veniva con l’idea di prima, mi era duro vederlo inganno a tal punto da pensare che trattassi con Dio come di solito, e gli dissi che io non facevo più orazione, anche se gliene tacqui la causa. Addussi come motivo di impedimento le mie malattie; benché, infatti, fossi guarita da quella più grave, fino ad oggi ne ho sempre avute e ne ho ancora di ben gravi e quantunque da poco tempo non mi attacchino più con tanta violenza, pure non mi danno tregua in nessun modo. Per esempio, ho avuto per vent’anni il vomito al mattino, tanto che mi accadeva di non poter fare colazione se non dopo mezzogiorno e a volte anche più tardi. Da quando, poi, ricevo più spesso la comunione, il vomito mi viene la sera, prima di andare a letto, con molta maggior sofferenza, perché devo provocarlo io stessa con penne o altre cose del genere; se tralascio di farlo, sto molto male, e quasi mai, mi sembra, sono esente da molti dolori, a volte assai gravi, specialmente di cuore, anche se il male, prima molto frequente, ora mi viene solo di tanto in tanto. Dei forti attacchi di paralisi, delle febbri e di altre infermità che ero solita avere spesso, sono guarita da otto anni. Ma a questi mali do così poca importanza, che molte volte perfino me ne rallegro, sembrandomi così di offrire qualcosa al Signore.

12. Mio padre credette, dunque, che questa fosse veramente la causa, perché egli non diceva mai bugie e mai avrei dovuto dirne io, coerente a quello di cui parlavo con lui. Aggiunsi, perché se ne convincesse meglio (ben comprendendo che a quel riguardo non esisteva discolpa) che era già molto se riuscivo ad attendere al coro, anche se nemmeno questo fosse motivo sufficiente per trascurare una pratica che non richiede forze fisiche, ma solo amore e abitudine. E il Signore ci dà sempre l’occasione favorevole per compierla, se lo vogliamo. Dico «sempre» perché, sebbene per determinate circostanze o anche infermità talvolta ci venga impedito di stare a lungo in solitudine, non mancano di esserci altri momenti in cui la salute ci permette di attendervi, senza dire che nella stessa malattia o in speciali avverse circostanze sta la vera orazione, se si tratta di anima amante, nell’offerta cioè a Dio di quella sofferenza, pensando per chi si soffre, conformandosi alla sua volontà con mille altre considerazioni del caso. In tal modo, l’anima fa esercizio d’amore, perché non bisogna praticarla necessariamente solo quando si disponga di tempo e di solitudine, né pensare che diversamente non possa esservi orazione. Con un po’ di attenzione, se ne può ricavare molto bene anche se il Signore con sofferenze di vario genere ci toglie il tempo di attendere all’orazione. Infatti, io ci ero riuscita quando avevo la coscienza pura.

13. Mio padre, però, per la stima che aveva di me e l’amore che mi portava, mi credette in pieno, anzi mi compassionò. Ma, avendo ormai raggiunto un ben alto grado di orazione, in seguito non si tratteneva più tanto con me e, dopo avermi vista, se ne andava dicendo che restare era una perdita di tempo, mentre io, pur sprecandone tanto in vanità, non me ne davo pensiero. Non fu soltanto lui, ma varie altre persone quelle che avviai nel cammino dell’orazione. Pur nel tempo in cui andavo dietro a queste vanità, non appena vedevo qualcuno portato alla preghiera, gli insegnavo il modo di meditare, lo aiutavo a fare progressi e lo provvedevo di libri, perché – come ho detto – avevo questo desiderio che altri servissero Dio, da quando cominciai a praticare l’orazione. Mi sembrava che, non servendo io il Signore come ben intendevo doversi fare, dovevo procurare che non andasse a vuoto ciò che Sua Maestà mi aveva fatto conoscere, in modo che altri lo servissero per me. Dico questo affinché si veda la mia grande cecità: lasciavo andare alla perdizione me stessa e procuravo che altri migliorassero.

14. In quel tempo mio padre fu colpito dalla malattia che lo condusse alla tomba e che durò alcuni giorni. Andai ad assisterlo, pur essendo più malata io nell’anima che non lui nel corpo, a causa delle mie molte vanità, sebbene non in modo tale – a quanto capivo – da essermi mai trovata in peccato mortale in tutto questo tempo della mia maggior dissipazione poiché, se ne fossi stata consapevole, in nessun modo sarei rimasta in tale stato. Soffrii molta pena durante la malattia di mio padre, e credo di averlo in parte ripagato di ciò che egli aveva sofferto nel corso delle mie infermità. Nonostante che io stessi molto male, mi sforzavo di servirlo e sebbene, mancandomi lui, mi venisse a mancare ogni bene e diletto di cui egli mi faceva godere sempre e pienamente, mi feci coraggio per non dimostrargli dolore e comportarmi, finché morì, come se non sentissi alcuna pena, anche se mi parve che mi strappassero l’anima, quando vidi estinguersi la sua vita, perché l’amavo molto.

15. È da lodare il Signore per la morte che egli fece, per il desiderio che aveva di morire, i consigli che ci diede dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi, per la preghiera di raccomandarlo a Dio e di chiedere misericordia per lui, per le esortazioni a servire sempre il Signore e a considerare che tutto finisce quaggiù. Fra le lacrime ci confidò il suo grande dolore di non averlo servito abbastanza e che avrebbe voluto essere frate in qualche Ordine dei più rigorosi. Sono sicurissima che quindici giorni prima il Signore gli abbia fatto intravedere che non sarebbe vissuto, perché nel periodo precedente a questo non lo pensava, benché stesse male; dopo, pur essendo molto migliorato, come riconoscevano i medici, non faceva alcun caso di ciò, ma era tutto preso a preparare la sua anima al trapasso.

16. Il suo male più forte fu un enorme dolore alle spalle che non gli cessava mai; a volte lo tormentava tanto da procurargli grande sofferenza. Io gli dissi, poiché era molto devoto di Gesù caricato della croce, di pensare che Sua Maestà con quel dolore gli voleva far provare qualcosa di ciò che egli aveva sofferto. Ne ebbe tanto conforto che mi sembra di non averlo mai più udito lamentarsi. Rimase tre giorni completamente privo di sensi. Il giorno in cui morì, il Signore lo fece tornare così interamente in sé che ne restammo sbigottiti, e durò in tale stato finché, giunto alla metà del Credo, che egli stesso recitava, spirò. Rimase come un angelo, e tale a me sembrava che fosse – per modo di dire – quanto ad anima e a disposizione spirituale che aveva straordinariamente buone. Non so perché ho detto questo, se non per condannare la mia miserabile vita perché, dopo aver visto tale morte e conosciuto una tal vita, almeno per il fatto di assomigliarmi un po’ a tale padre avrei dovuto migliorarmi. Il suo confessore, il quale era un domenicano molto dotto, diceva non dubitare che egli fosse andato direttamente in paradiso, perché era suo confessore da alcuni anni e lodava molto la sua purezza di coscienza.

17. Questo padre domenicano, che era molto virtuoso e timorato di Dio, mi fece molto bene, perché, avendolo scelto anche come mio confessore, si prese a cuore il bene dell’anima mia, e mi fece capire la rovina in cui mi trovavo. Mi faceva comunicare ogni quindici giorni; a poco a poco, trattandolo di più, gli parlai della mia orazione; mi disse di non abbandonarla mai, che assolutamente non poteva farmi altro che bene. Cominciai a tornare ad essa, anche se non evitavo le cattive occasioni, e non l’abbandonai più. Vivevo una vita piena di sofferenze perché, mediante l’orazione, vedevo meglio le mie colpe: da una parte mi chiamava Dio, dall’altra io seguivo il mondo; le cose di Dio mi davano una grande gioia, quelle del mondo mi tenevano legata. Sembrava che volessi conciliare questi due opposti – così nemici l’uno dell’altro – come sono la vita e le gioie spirituali e i piaceri e i passatempi dei sensi. Nell’orazione provavo grande sofferenza, perché lo spirito non era padrone, ma schiavo; pertanto non riuscivo a rinchiudermi nel mio intimo (che era il mio solo modo di procedere nell’orazione) senza rinchiudervi con me mille vanità. Trascorsi così molti anni; soltanto ora mi meraviglio che una creatura umana abbia potuto resistere tanto in questo stato senza romperla o con Dio o con il mondo: certo, lasciare l’orazione non era più in mio potere, perché mi teneva con le sue mani colui che così voleva darmi maggiori grazie.

18. Oh, mio Dio, se dovessi raccontare tutte le occasioni da cui in quegli anni il Signore mi liberava e come io tornassi a invischiarmi in esse, e i pericoli a cui mi sottrasse di perdere completamente la reputazione! Io, sempre a operare in modo da rivelarmi per quella che ero, e il Signore sempre a coprire le mie colpe e a mettere in luce qualche mia piccola virtù – se ne avevo – e ingrandirla agli occhi di tutti, in modo che tutti mi stimavano molto perché, anche se alcune volte trasparivano le mie vanità, vedendo in me altre cose che a loro sembravano buone, non potevano credere al resto. Questo perché colui che sa tutto aveva già visto che così doveva essere affinché, quando avessi poi testimoniato queste cose, le mie parole riscuotessero più credito e perché la sua sovrana liberalità guardava non ai miei grandi peccati, ma ai desideri che spesso avevo di servirlo e al dolore di non trovare in me la forza di farlo.

19. Oh, Signore dell’anima mia! Come potrò esaltare le grazie che in quegli anni mi avete fatto? Pensare che proprio mentre io più vi offendevo, voi, in poco tempo, mi disponevate, mediante un vivissimo pentimento, a godere dei vostri doni e favori! In verità, o mio Re, facevate ricorso al più raffinato e penoso castigo che poteva esserci per me, come chi ben capiva ciò che doveva riuscirmi più increscioso: punivate i miei misfatti con grandi favori. E non credo di dire insensatezze, anche se sarebbe bene che perdessi il senno ricordando ora di nuovo la mia ingratitudine e cattiveria. Era tanto più penoso per me ricevere grazie, quando ricadevo in grandi colpe, che ricevere castighi; una sola grazia mi par proprio che bastasse ad annientarmi, confondermi e farmi soffrire più che molte infermità e gravi pene messe insieme, mentre i castighi vedevo bene di meritarli e mi sembrava con essi di pagare in parte il debito dei miei peccati, benché tutto fosse poco nei confronti delle mie colpe che erano molte; ma vedermi oggetto di altre grazie quando avevo ricambiato così male quelle già ricevute, era un genere di tormento terribile per me. Credo lo sia per tutti coloro che hanno qualche conoscenza o amore di Dio, come si può capirlo anche dalle cose umane, se si ha un cuore virtuoso. La causa delle mie lacrime e del mio sdegno era che, nonostante quello che sentivo, mi vedevo sempre in condizioni tali da essere prossima a tornare a cadere, anche se i miei propositi e i miei desideri allora – cioè almeno in quel momento – mi apparivano incrollabili.

20. Gran male è per un’anima trovarsi sola tra tanti pericoli. A me sembra che, se io avessi avuto con chi parlare di tutto questo, mi avrebbe giovato a non ricadere, non foss’altro per vergogna, visto che non avevo timor di Dio. Perciò consiglierei a coloro che praticano l’orazione, specialmente al principio, di cercare l’amicizia e la conversazione di quelle persone che attendono allo stesso esercizio. È cosa di grande importanza, anche se non si tratti d’altro che di aiutarsi scambievolmente, tanto più, poi, che ci sono molti altri vantaggi. Io non so perché, se in materia di conversazione e affetti umani, anche non molto convenienti, si cercano amici con cui confidarsi e con cui godere di raccontare quei vani piaceri, non si debba permettere a chi comincia con sincerità ad amare e a servire Dio, di parlare con qualche persona delle proprie gioie e delle proprie pene, avendo di tutto quelli che si dedicano all’orazione. Giacché se è sincera l’amicizia che l’anima vuole avere con Sua Maestà, non deve aver timore di vanagloria: respingendola al primo attacco, ne uscirà con merito. Io credo che chi agirà con questa retta intenzione, gioverà a sé e a coloro che l’ascoltano, e ne uscirà più edotto; anche senza sapere come, sarà d’insegnamento ai suoi amici.

21. Chi parlando di ciò sentisse vanagloria, la sentirà ugualmente nell’ascoltare con devozione la Messa in pubblico, e nel fare altre pratiche che, sotto pena di non esser cristiani, sono d’obbligo, né si possono tralasciare per paura di vanagloria. Ciò è di così grande importanza per le anime che non sono consolidate nella virtù, avendo esse tanti nemici e amici che le incitano al male, che io non so come raccomandarlo. Mi sembra che il demonio si sia servito di questo stratagemma per un fine che gli sta molto a cuore: fare in modo che le anime si sottraggano a che si conosca la loro sincera intenzione di amare e di piacere a Dio, così come fa di tutto perché si scoprano certe disoneste affezioni che già sembra siano ormai talmente in uso – a quanto fa vedere – da ritenersi un’eleganza, e siano rese pubbliche le offese che si fanno a Dio.

22. Non so se dico sciocchezze; se è così, la signoria vostra strappi questo scritto; e se non lo è, la supplico di venire in aiuto alla mia semplicità, aggiungendo molto al mio pensiero, perché oggi si serve Dio in modo così superficiale che è necessario che coloro che lo servono si aiutino a vicenda per progredire, visto che sembra cosa buona l’andar dietro alle vanità e ai piaceri del mondo. Infatti, ben pochi fanno caso di chi persegue tali vanità; se però qualcuno comincia a darsi a Dio, ci sono tanti pronti a mormorare. Perciò è necessario procurarsi compagnia per difendersi, almeno finché si acquisti tanta forza che non pesi il patire, altrimenti ci si troverà in gravi angustie. Credo che per questo alcuni santi usavano recarsi nel deserto; è una forma di umiltà non fidarsi di sé e credere che Dio ci aiuterà per mezzo di coloro con i quali conversiamo. La carità, inoltre, cresce in virtù di questa comunicazione, e ci sono ancora innumerevoli beni che non oserei menzionare, se non avessi una grande esperienza dell’importanza che è in essi. È vero che io sono la più debole e vile di tutte le creature, ma ritengo che non avrà nulla da perdere chi, umiliandosi, anche se forte, attenderà a questa pratica, credendo a chi ne ha fatto esperienza. Di me posso dire che, se il Signore non mi avesse rivelato queste verità e dato il modo di trattare molto frequentemente con persone dedite all’orazione, a forza di cadere e rialzarmi, sarei andata a capofitto all’inferno; perché per cadere avevo molti amici pronti ad aiutarmi, ma per rialzarmi mi ritrovavo così sola da stupirmi ora di non essere rimasta sempre a terra; e lodo la misericordia di Dio, che era il solo a tendermi la mano. Sia egli per sempre benedetto! Amen.