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Libro della Vita

Capitoli 4, 5

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 4

Dice come il Signore l’aiutò a vincere se stessa per prendere l’abito religioso e parla delle molte malattie che Sua Maestà cominciò a mandarle.

1. Nel tempo in cui maturavo queste decisioni, avevo persuaso un mio fratello a farsi religioso, parlandogli della vanità del mondo, ed entrambi ci accordammo d’andare un giorno, di buon mattino, al monastero dove stava quella mia amica che io amavo molto. Riguardo a quest’ultima determinazione, mi sentivo così decisa che sarei andata in qualunque monastero ove pensassi di servire meglio Dio o dove mio padre l’avesse voluto, perché ormai non davo alcuna importanza al mio benessere, ma miravo soprattutto alla salvezza della mia anima. Ricordo bene, a dire il vero, che quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto dolore che non credo di sentirlo maggiore in punto di morte: mi sembrava che tutte le ossa mi si slogassero perché, non avendo ancora raggiunto un amor di Dio capace di rimuovermi dall’amore del padre e dei parenti, dovevo far solo ricorso a una forza così grande che, se il Signore non mi avesse aiutato, le mie considerazioni non sarebbero bastate a farmi andare avanti. In quel momento egli mi diede forza per vincere me stessa in modo che potei realizzare il mio progetto.

2. Quando vestii l’abito, subito il Signore mi fece capire quanto favorisca coloro che si fanno forza per servirlo. Nessuno, però, sospettava tanta lotta in me, in cui si vedeva solo una incrollabile risoluzione. Subito fui così felice d’aver abbracciato la vita monastica, che tale gioia non mi è mai venuta meno fino ad oggi, perché Dio cambiò l’aridità della mia anima in grandissima tenerezza. Mi davano molta gioia tutte le pratiche della vita religiosa; è bensì vero che a volte mi accadeva di spazzare in ore che prima ero solita occupare nel fare sfoggio di ornamenti, ma appunto ricordandomi che ero ormai libera da tutto ciò, provavo una gioia sconosciuta tale che me ne stupivo e non riuscivo a capire da dove provenisse. Quando ripenso a questo, non c’è cosa che mi si possa presentare, per quanto difficile sia, che esiterei ad affrontare. Perché ormai so, avendone fatto esperienza in molti casi, che se mi sforzo, in principio, di prendere la decisione di fare una cosa (giacché, essendo in onore di Dio, fino dal principio egli vuole – per nostro maggior merito – che l’anima provi quello sgomento, e quanto più grande esso sia, tanto maggiore e più dolcemente gradito, se si riesce a vincerlo, sarà, dopo, il premio), anche in questa vita Sua Maestà mi dà la ricompensa con tali doni che solo chi ne gode può saper valutare. Di questo ho fatto esperienza, come ho detto, e anche in cose molto gravi; pertanto, non consiglierei mai – se fossi persona capace di dar consigli – che, di fronte all’insistenza di una buona ispirazione, si tralasci di seguirla per paura: se si agisce chiaramente soltanto per Dio non c’è da temere alcun danno, essendo egli onnipotente. Sia per sempre benedetto! Amen.

3. Sarebbero dovute bastare, o mio sommo Bene e mio riposo, le grazie che fin qui mi avevate fatto, guidandomi con la vostra pietà e grandezza, attraverso tante vicende, a uno stato così sicuro e a una casa dove erano molte serve di Dio, dalle quali potevo prendere esempio, per crescere nel vostro servizio. Non so come proseguire, quando ricordo la cerimonia della mia professione, l’estrema decisione e la gioia con cui la celebrai e lo sposalizio che contrassi con voi. Non posso dirlo senza lacrime, e dovrebbero essere lacrime di sangue, e il cuore mi si dovrebbe spezzare, né sarebbe troppo dolore di fronte alle offese che in seguito vi recai. Mi sembra, ora, di aver avuto ragione a non volere una così grande dignità, visto che dovevo usare tanto male di essa. E voi, mio Signore, per quasi vent’anni in cui usai male di questa grazia, voleste essere l’offeso, perché io potessi migliorare. Sembra, mio Dio, che io non facessi altro se non promettervi di non mantener nulla di ciò che vi avevo promesso, anche se allora non era questa la mia intenzione; ma le mie azioni erano poi tali che non so più quali fossero le mie intenzioni, e da questo si vede meglio chi siete voi, mio Sposo, e chi sono io. E, in verità, molte volte il dolore per le mie grandi colpe è temperato dalla gioia che mi dà il pensiero che si possa conoscere la vostra infinita misericordia.

4. In chi, o Signore, essa può risplendere come in me, che ho tanto offuscato con le mie cattive azioni le immense grazie che avevate cominciato a farmi? Povera me, mio Creatore, che se voglio discolparmi, non posso addurre nessuna scusa, né v’è alcuno che abbia colpa all’infuori di me! Poiché se io avessi ricambiato anche in parte l’amore che cominciavate a dimostrarmi, non avrei più potuto amare altri che voi, e con questo si sarebbe rimediato a tutto. dal momento che non meritai tanta fortuna, mi giovi ora, o Signore, la vostra misericordia.

5. Il cambiamento di vita e di cibi mi fece male alla salute, e anche se la mia gioia era molta, ciò non fu una sufficiente difesa. Cominciarono ad aumentare gli svenimenti, e fui colta da un così violento mal di cuore da fare spavento a chi assisteva agli attacchi, con l’aggiunta di molti altri mali. Così passai il primo anno in cattive condizioni di salute, ma non mi sembra di aver offeso molto il Signore nel corso di esso. E, siccome il male era tanto grave da farmi restar di solito quasi fuori dei sensi – e alcune volte del tutto priva di conoscenza –, mio padre si adoperava con ogni premura a cercare un rimedio; ma, non essendo riusciti a darglielo i medici di qui, mi fece portare in un luogo che aveva gran fama circa la guarigione di altre malattie, ove gli dissero che avrebbero guarito anche la mia. Mi accompagnò quella monaca amica di cui ho parlato, che era un’anziana della casa. Nel monastero in cui stavo non c’era impegno di clausura.

6. Rimasi lì quasi un anno, e per tre mesi soffrendo enormi tormenti a causa delle cure cui venni sottoposta, cure così forti che io non so come riuscii a sopportarle; alla fine, nonostante la mia pazienza, il mio fisico, come dirò, non poté resistere oltre. La cura doveva cominciare all’inizio dell’estate, ed io ero andata lì al principio dell’inverno. Tutto questo tempo rimasi in casa di quella sorella che, come ho detto, abitava in un villaggio lì vicino, aspettando presso di lei il mese di aprile, perché la vicinanza del luogo mi evitava di andare troppo avanti e indietro.

7. Durante il viaggio di andata, quel mio zio di cui ho detto che abitava lungo la strada, mi diede un libro intitolato Terzo abbecedario, che cerca d’insegnare l’orazione di raccoglimento. Anche se in questo primo anno avevo letto buoni libri (poiché altri non volli più leggerne, ormai esperta del danno che mi avevano arrecato), non sapevo come procedere nell’orazione, né come raccogliermi; pertanto, mi rallegrai molto di averlo e decisi di seguire quel metodo con tutto il mio impegno. Poiché il Signore mi aveva ormai dato il dono delle lacrime e mi piaceva leggere, cominciai a raccogliermi un po’ in solitudine, a confessarmi spesso, e a indirizzarmi per quel cammino, avendo come guida quel libro, perché io un maestro, voglio dire un confessore che mi capisse, non l’avevo trovato, quantunque lo cercassi, e neanche riuscii a trovarlo nei vent’anni che seguirono. Ciò mi fu causa di molto danno facendomi tornare spesso indietro, e anche esponendomi al rischio di perdermi del tutto; mentre un buon confessore mi avrebbe almeno aiutato a sottrarmi alle occasioni di offendere Dio. Sua Maestà cominciò a concedermi tante grazie in questo inizio che, giunto il termine del tempo in cui mi trattenni qui (trascorsi quasi nove mesi in questa solitudine), benché non fossi così esente dall’offendere Dio come il libro consigliava e trascurassi molte cose, sembrandomi quasi impossibile tanta vigilanza, mi guardavo, però, dal commettere peccato mortale, e fosse piaciuto a Dio che lo avessi fatto sempre! Invece tenevo in poco conto i peccati veniali procurando così la mia rovina. Il Signore, dunque, cominciò a favorirmi tanto in questa via, che mi faceva grazia di concedermi un’orazione di quiete e qualche volta pure quella di unione, anche se io non intendevo che cosa fossero né l’una né l’altra, né il loro grande valore, mentre credo che per me sarebbe stato un gran bene saperlo. È vero che l’orazione di unione durava ben poco, non so se appena un’Ave Maria, ma ne restavano in me così grandi effetti che, pur non avendo in quel tempo neppure vent’anni, mi sembrava di tenere il mondo sotto i piedi. Ricordo, pertanto, che mi facevano pena quelli che lo seguivano, fosse anche solo in cose lecite. Mi sforzavo quanto più potevo di tenere presente dentro di me Gesù Cristo, nostro Bene e Signore: era questa la mia maniera di pregare; così se pensavo a qualche momento della sua passione, me lo rappresentavo interiormente. Ciò nonostante spendevo la maggior parte del tempo a leggere buoni libri, che erano tutto il mio diletto. Dio, infatti, non mi ha dato la capacità di usare dell’intelletto, né di giovarmi dell’immaginazione, così ottusa in me che, nonostante gli sforzi per rappresentarmi – come procuravo di fare – l’umanità del Signore, non ci riuscivo mai. E sebbene attraverso l’incapacità do servirsi dell’intelletto, perseverando, si giunga più presto alla contemplazione, la via è però assai faticosa e penosa perché, se la volontà resta inattiva e manca all’amore un oggetto che lo occupi con la propria presenza, l’anima resta come immobile e senza appoggio, e gran pena producono la solitudine e l’aridità, e grandissima lotta i pensieri.

8. Alle persone che si trovano in questa condizione è necessaria una maggiore purezza di coscienza che non a quelle capaci di usare l’intelletto; perché chi riflette a ciò che è il mondo e a ciò che si deve a Dio, a quanto egli ha sofferto e a quanto poco lo si serve, e a ciò che dà in premio a chi lo ama, ne trae utile insegnamento per difendersi da pensieri e occasioni pericolose; ma chi non può giovarsi di questa capacità è più esposto a pericoli e bisogna che si dia molto alla lettura, perché da sé non può trarre alcun insegnamento. È quanto mai faticoso questo modo di procedere; e se il direttore spirituale costringe a sopprimere la lettura (che aiuta molto il raccoglimento di chi procede nel modo suddetto, anzi gli è necessario leggere, anche se poco, almeno al posto dell’orazione mentale che non può fare), se, dico, si è costretti a stare gran tempo in orazione senza questo aiuto, sarà impossibile rimanervi a lungo e, insistendo, se ne avrà danno alla salute, perché costa molta fatica.

9. Ora, mi pare di capire che fu il Signore a disporre che io non trovassi chi potesse darmi insegnamenti, perché [se mi avessero vietato l’aiuto del libro] credo che mi sarebbe stato impossibile durare diciotto anni in questo stato e in quest’aridità, per l’incapacità, come dico, di ragionare. In tutto questo tempo, a meno che non fosse dopo la comunione, io non osavo mai cominciare l’orazione senza un libro, giacché la mia anima temeva di farlo priva di tale aiuto, come se dovesse combattere contro molti nemici esterni. Con questo rimedio, che era come una compagnia o uno scudo in cui avrei ricevuto i colpi dei molti importuni pensieri, mi sentivo rincuorata, perché l’aridità non era il mio stato ordinario, ma sopravveniva sempre quando mi mancava un libro. Allora, l’anima restava subito sconvolta e i pensieri si disperdevano: con la lettura li raccoglievo di nuovo e mi sentivo l’anima come accarezzata. Spesso non c’era bisogno d’altro che di aprire il libro; a volte leggevo poco, a volte molto, secondo la grazia che il Signore mi faceva. A me sembrava, in quei primi tempi di cui parlo, che, avendo i libri e in certo modo la possibilità d’isolarmi, non ci sarebbe stata alcuna occasione pericolosa che potesse rimuovermi da tanto bene, e credo che, con l’aiuto di Dio, sarebbe stato così, se avessi avuto un maestro spirituale o altra persona che mi avesse insegnato a fuggire le occasioni sul nascere e mi avesse fatto uscire da esse al più presto, se vi fossi entrata. Mi sembrava infatti che, se allora il demonio mi avesse assalito apertamente, in nessun modo sarei tornata di nuovo a peccare. Ma egli fu tanto astuto e io così vile, che tutte le mie risoluzioni mi giovarono poco; moltissimo, invece, quando mi posi al servizio di Dio, per sopportare le terribili malattie che mi colpirono, con quella grande pazienza che Sua Maestà mi diede.

10. Molte volte, pensando, piena di ammirazione, alla infinita bontà di Dio, la mia anima si dilettava di vedere la sua magnificenza e misericordia. Sia egli sempre benedetto, avendo io costatato chiaramente che non tralascia di premiare, anche in questa vita, ogni mio buon desiderio. Per quanto meschine e imperfette fossero le mie opere, questo mio Signore le andava migliorando, perfezionando e avvalorando, e subito occultava colpe e peccati. Permette anche, Sua Maestà, che si accechino coloro che me li hanno visti commettere e glieli toglie dalla memoria; indora le colpe; fa risplendere una virtù che egli stesso pone in me, quasi costringendomi a mantenerla.

11. Ma voglio ritornare a quanto mi è stato comandato di scrivere, tanto più che, se volessi dire minutamente come il Signore agiva con me in quest’inizio, sarebbe necessaria un’intelligenza ben diversa dalla mia per esaltare ciò che gli devo a tale riguardo e mettere in evidenza la mia profonda indegnità e ingratitudine nell’averlo dimenticato completamente. Sia egli sempre benedetto per avermi tanto sopportata! Amen.

CAPITOLO 5

Prosegue nel parlare delle gravi malattie che ebbe, della pazienza che il Signore in esse le diede, e in che modo trasse dal male il bene, come si vedrà da un fatto che le accadde nel luogo dove si recò per curarsi.

1. Dimenticavo di dire che nell’anno del noviziato soffrii grandi inquietudini per cose in se stesse di poca importanza; ma è che, molte volte, venivo ripresa senza avere alcuna colpa. Io lo sopportavo a mala pena e con assoluta imperfezione, anche se la grande gioia di essere monaca finiva con il farmi sopportare tutto. siccome mi vedevano cercare la solitudine e talvolta piangere, a causa dei miei peccati, pensavano che si trattasse di scontentezza e se lo dicevano fra loro. Ero attaccata a tutte le pratiche religiose, ma non potevo soffrirne nessuna che comportasse disprezzo. Godevo di essere stimata, ero accurata in quel che facevo. Tutto mi sembrava virtù, anche se questo non mi servirà di discolpa, perché sapevo bene come cercare in tutto la mia soddisfazione, e poi l’ignoranza non annulla la colpa. Di qualche scusa mi può essere il fatto che il monastero non aveva basi di molta perfezione; io, da misera creatura, me ne andavo dove stava la mancanza e trascuravo ciò che v’era di buono.

2. Vi era, allora, una monaca affetta da una gravissima malattia assai dolorosa, perché si trattava di alcune fistole che le si erano aperte nel ventre a causa di un’ostruzione intestinale, attraverso le quali mandava fuori ciò che mangiava. Ne morì presto. Io vedevo tutte aver paura di quel male; a me destava grande invidia la sua pazienza e chiedevo a Dio che, se mi dava la stessa pazienza, mi mandasse pure tutte le malattie che volesse. Mi sembra che non ne temesse alcuna, essendo così disposta a guadagnare beni eterni, che ero decisa a conquistarmeli con qualunque mezzo. E ciò mi stupisce, non avendo ancora, a mio avviso, un amor di Dio quale mi sembra d’averlo avuto dopo che incominciai a praticare l’orazione, ma solo una luce che mi faceva apparire di poca stima tutto quanto finisce, e di molto pregio i beni che si possono guadagnare con il sacrificio di quanto ha fine, perché sono beni eterni. Anche in questo mi diede ascolto Sua Maestà, perché prima che fossero trascorsi due anni ero in tali condizioni che, sebbene non si trattasse di un male di quel genere, non credo che sia stata meno penosa e tormentosa la malattia da me sofferta per tre anni, come ora dirò.

3. Giunto il tempo d’iniziare la cura che stavo aspettando nel luogo dove, come ho detto, mi trovavo con mia sorella, mi condussero via di lì, con ogni riguardo e con tutte le comodità possibili, mio padre, mia sorella e quella monaca mia amica che era partita con me e che mi amava moltissimo. Qui il demonio cominciò a turbare la mia anima, anche se Dio seppe trarre da ciò molto bene. C’era un ecclesiastico che risiedeva in quel luogo dove andai a curarmi, di ottima condizione sociale e di grande intelligenza; era anche colto, se pur non eccedeva in cultura. Cominciai a confessarmi da lui, avendo sempre amato le lettere, anche se gran danno spirituale mi arrecarono i confessori semidotti in quanto non riuscivo ad averli mai di così buona istruzione come era mio desiderio. Ho visto per esperienza che è meglio, se si tratta di uomini virtuosi e di santi costumi, che non ne abbiano nessuna, anziché poca, perché in tal caso né essi si fidano di sé, ricorrendo a chi abbia una buona preparazione culturale, né io mi fido di loro. Un vero dotto non mi ha mai ingannato. Nemmeno gli altri credo che mi volessero ingannare, salvo che non ne sapevano di più. Io, invece, pensando che sapessero, ritenevo di non dover far altro che prestare loro fede, tanto più che mi davano consigli di una certa larghezza, cioè che indulgevano a una maggiore libertà; d’altronde, se mi avessero stretto un po’ i freni, io, miserabile qual sono, ne avrei cercato altri. Ciò che era peccato veniale mi dicevano che non era alcun peccato; ciò che era peccato gravissimo e mortale mi dicevano che era peccato veniale. Questo mi arrecò tanto danno che non è superfluo parlarne qui, per prevenire altre persone di così gran male; di fronte a Dio capisco che non mi serve di giustificazione, giacché era sufficiente che le cose di per sé non fossero buone perché dovessi guardarmene. Credo che a causa dei miei peccati Dio permise che essi s’ingannassero e ingannassero me. Io ingannai molte altre dicendo loro le stesse cose che erano state dette a me. Trascorsi in questa cecità credo più di diciassette anni, finché un padre domenicano molto dotto mi aprì gli occhi su molte cose, e i padri della Compagnia di Gesù mi disingannarono del tutto, riempiendomi di spavento con il rimproverarmi così cattivi inizi, come dirò in seguito.

4. Quando dunque cominciai a confessarmi dal suddetto ecclesiastico, egli mi si affezionò molto, perché allora, a partire da quando mi ero fatta suora, io avevo poco da confessare in confronto alle colpe che ebbi in seguito. La sua non era un’affezione sconveniente, ma per il fatto d’essere eccessiva, finiva con il non essere buona. Sapeva bene che non mi sarei indotta per nessun motivo a far nulla di grave contro Dio, e anch’egli mi assicurava lo stesso di sé e così discorrevamo parecchio. Ma allora, immersa in Dio come ero, ciò che mi faceva più piacere era parlare di cose a lui attinenti; e, poiché ero tanto giovane, il costatarlo riempiva di confusione il mio interlocutore il quale, per il grande affetto che lo legava a me, cominciò a rivelarmi la rovina della sua anima. E non era poca cosa, perché da quasi sette anni si trovava in una situazione assai pericolosa, avendo una relazione con una donna di quello stesso luogo; e ciò nonostante continuava a celebrare la Messa. Il fatto era ormai così noto che egli aveva perduto l’onore e la fama, ma nessuno osava redarguirlo. Io ne ebbi molta compassione, perché lo amavo molto, essendo allora questa la mia grande leggerezza e cecità, di ritenere virtù il serbarmi grata e fedele a chi mi amava. Sia maledetta tale fedeltà che si estende fino a far violare quella verso Dio! È una pazzia diffusa nel mondo che rese pazza anche me: dobbiamo a Dio tutto il bene che ci viene fatto e stimiamo virtù non rompere un’amicizia, anche se si tratta di andare contro di lui. Oh, cecità del mondo! Fosse a voi piaciuto, Signore, che io mi dimostrassi molto ingrata verso tutti, e non lo fossi stata minimamente contro di voi! Ma, per i miei peccati, è avvenuto proprio il contrario.

5. Cercai di sapere di più, informandomi meglio presso i suoi familiari; conobbi più a fondo la gravità del suo danno morale, ma vidi che il pover’uomo non aveva tanta colpa, perché quella donna sciagurata gli aveva fatto alcuni sortilegi mediante un piccolo idolo di rame, che gli aveva raccomandato di portare al collo per amor suo, e nessuno era riuscito a farglielo togliere. A dire il vero, io non credo a queste storie dei sortilegi, ma dico quello che ho visto per avvisare gli uomini di guardarsi dalle donne che cercano di adescarli in tal modo, e di esser convinti che, avendo esse perduto ogni pudore di fronte a Dio (mentre più degli uomini sono tenute a rispettarlo), non possono meritare la minima fiducia. Infatti non badano a nulla pur di conseguire il loro intento e assecondare quella passione che il demonio pone nel loro cuore. Benché io sia stata tanto miserabile, non sono mai caduta in alcuna colpa di tal genere né ho mai avuto l’intenzione di far del male né, anche se l’avessi potuto, avrei voluto forzare la volontà di qualcuno ad amarmi, perché da questo mi preservò il Signore; ma se mi avesse abbandonato avrei commesso anche riguardo a ciò il male che commettevo riguardo al resto, perché di me non c’è assolutamente da fidarsi.

6. Non appena seppi questo, dunque, cominciai a dimostrargli più amore. La mia intenzione era buona, ma non il mezzo di cui mi servivo; nell’intento di fare il bene, infatti, per quanto grande fosse, non dovevo lasciarmi andare neanche al minimo male. Di solito gli parlavo di Dio; questo doveva giovargli, ma credo che più utile allo scopo fu il fatto che egli mi amasse molto. Per farmi piacere, invero, si decise a darmi l’idoletto, che io feci gettare subito nel fiume. Appena se ne fu liberato, cominciò – come chi si svegli da un lungo sonno – a ricordarsi a poco a poco di tutto quello che aveva fatto in quegli anni e, spaventato di se stesso, dolendosi della sua perdizione, finì con il detestarla. Nostra Signora dovette aiutarlo molto, perché era molto devoto della sua concezione, la cui ricorrenza era da lui celebrata solennemente. Infine, cessò del tutto di vedere quella donna, e non si stancava di render grazie a Dio per averlo illuminato. Morì allo scadere esatto di un anno dal giorno in cui l’avevo conosciuto. Si era adoperato già molto nel servire Dio, perché nel suo affetto per me non scorsi mai nulla di male, quantunque potesse essere forse più puro, ma ebbe anche tali occasioni che, se non avesse tenuto ben presente Dio, l’avrebbe offeso molto gravemente. Come ho già detto, quello ch’io capivo essere peccato mortale, non l’avrei fatto davvero, e ritengo che la costatazione di questa mia fermezza abbia contribuito al suo amore per me. Credo, infatti, che tutti gli uomini preferiscano le donne che vedono inclini alla virtù, e anche per quel che riguarda l’affezione terrena, credo che le donne ottengano da essi di più con questo mezzo, come dirò in seguito. Sono sicura che egli si sia salvato. Morì serenamente e del tutto fuori di quella situazione; sembra che il Signore l’abbia voluto salvare con questo mezzo.

7. Rimasi in quel luogo tre mesi, con grandissime sofferenze, perché la cura fu più forte di quel che consentisse la mia costituzione fisica. Dopo due mesi, a forza di medicine, ero ridotta quasi in fin di vita, e il mal di cuore ch’ero andata a curarmi era molto più forte, tanto che a volte mi sembrava che me lo dilaniassero con denti aguzzi, e si temé che si trattasse di rabbia. A causa della estrema mancanza di forza (non potendo, per la gran nausea, cibarmi di nulla che non fosse liquido), della febbre che non subiva interruzione, spossata oltre ogni dire, perché mi avevano dato una purga ogni giorno quasi per la durata di un mese, ero così consumata che mi si cominciarono a rattrappire i nervi, con dolori talmente intollerabili che non potevo aver riposo né giorno né notte e in più avevo una tristezza molto profonda.

8. Di fronte a questo bel guadagno, mio padre mi ricondusse a casa, dove tornarono a visitarmi i medici. Tutti mi diedero per spacciata perché dicevano che, oltre a tutto il resto, ero anche tisica. Di ciò m’importava poco; i dolori erano il mio tormento, perché li avevo in tutto il corpo, dalla testa ai piedi; quelli dei nervi sono intollerabili, a detta dei medici, e siccome i miei nervi si rattrappivano tutti, certamente – se io non ne avessi perduto il merito per colpa mia – sarebbe stato un duro ma meritorio tormento. Rimasi in questo grave stato circa tre mesi, durante i quali mi pareva impossibile che si potessero sopportare tanti mali insieme. Ora me ne stupisco e ritengo come una somma grazia del Signore la pazienza che egli mi diede, perché si vedeva chiaramente che mi veniva da lui. Mi giovò molto in questo l’aver cominciato a far orazione e l’aver letto la storia di Giobbe nei Moralia di san Gregorio, con la quale il Signore volle forse prevenirmi, affinché io potessi sopportare tutto con rassegnazione. Il mio colloquio era sempre con lui; pensavo spesso, ripetendole, a queste parole di Giobbe: Se abbiamo ricevuto i beni dalla mano del Signore, perché non ne accetteremo anche i mali?. E mi sembrava che mi dessero coraggio.

9. Giunse la festa della Madonna di agosto; il mio tormento durava dall’aprile ed era stato assai maggiore negli ultimi tre mesi. Sollecitai la confessione, perché amavo sempre molto confessarmi spesso. Pensarono che tale richiesta fosse dovuta alla paura di morire e mio padre non mi lasciò confessare per non darmi altro dolore. Oh, esagerato amore della carne che, quantunque si trattasse dell’amore di un padre cattolico fervente – lo era infatti molto, e la sua non certo ignoranza –, avrebbe potuto arrecarmi un grave danno! Quella notte ebbi una crisi che mi fece restare fuori dei sensi quattro giorni o poco meno. In questo frattempo, mi amministrarono il sacramento dell’unzione e, pensando che spirassi da un momento all’altro, non facevano che indurmi a recitare il Credo, come se io potessi capire qualcosa. A volte, dovettero ritenermi proprio morta, tanto che dopo mi trovai perfino la cera sugli occhi.

10. Il dolore di mio padre per non avermi fatto confessare era grande; molte le sue lacrime e le sue preghiere. Benedetto sia colui che si degnò di ascoltarle! Quando già da un giorno e mezzo, infatti, nel monastero era aperta la mia sepoltura in attesa della salma, e in un convento dei nostri frati fuori di città era stato celebrato l’ufficio dei defunti, il Signore si compiacque di farmi riprendere conoscenza. Volli subito confessarmi e mi comunicai con molte lacrime; esse, però, a mio giudizio, non provenivano solo dal dolore e dal pentimento di avere offeso Dio, il che sarebbe bastato a salvarmi, se non bastava il fatto di essere stata tratta in inganno da coloro che mi avevano detto come alcune colpe non fossero peccati mortali, mentre poi ho visto con certezza che lo erano. Continuavo infatti ad avere dolori insostenibili, tanto da perdere spesso la conoscenza, anche se credo di aver fatto una confessione completa, accusandomi di tutto ciò in cui capivo d’aver offeso Dio, giacché Sua Maestà, fra le altre grazie, mi ha concesso anche quella di non aver mai tralasciato di confessare, dopo la mia prima comunione, alcuna cosa che credessi peccato, sia pure veniale. Ma, senza dubbio, la mia salvezza sarebbe stata molto in pericolo, se fossi morta allora, sia per il fatto che i confessori erano ben poco istruiti, sia perché io ero una miserabile, sia per molte altre ragioni.

11. È la pura verità se dico che, giunta a questo punto e considerando come il Signore mi abbia quasi risuscitata, mi sembra d’essere così sbigottita da stare quasi tremando dentro di me. Mi pare che sarebbe stato bene, anima mia, che tu considerassi il pericolo da cui il Signore ti aveva liberato, e se l’amore non bastava a farti cessare di offenderlo, avresti almeno dovuto farlo per timore, potendo egli mille altre volte darti la morte in occasioni più pericolose. Credo di non esagerare molto nel dire «mille altre volte» anche se chi mi ha imposto di essere moderata nel parlare dei miei peccati, debba rimproverarmene: sono già abbastanza abbelliti. Io lo prego per amore di Dio di non togliere nulla di quanto riguarda le mie colpe, poiché in esse si vedono di più la magnificenza di Dio e la sua pazienza verso un’anima. Sia egli per sempre benedetto! Piaccia a Sua Maestà che io muoia piuttosto che cessare mai d’amarlo!