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Libro delle Fondazioni - Capitoli 12, 13, 14

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 12

Vi si tratta della vita e della morte di una religiosa condotta da nostro Signore in questo stesso monastero, chiamata Beatriz de la Encarnación, di tale perfezione nella sua vita e di tale santità nella morte, che è giusto se ne faccia memoria.

1. Una giovinetta che si chiamava donna Beatriz Oñez, lontana parente di donna Casilda, entrò qualche anno prima di lei in questo monastero per farsi monaca. Le rare virtù di cui il Signore l’arricchiva riempivano tutte d’ammirazione. Sia le consorelle, sia la priora affermavano che in tutto il tempo della sua vita non scoprirono mai in lei nulla che si potesse ritenere un’imperfezione, né mai, per nessuna ragione, la videro mutarsi d’aspetto, ma sempre mantenere un’espressione di riservata letizia, segno evidente dell’intima gioia di cui godeva la sua anima. Il suo silenzio era tale che, lungi dal pesare ad alcuno, pur essendo assai rigoroso, non evidenziava nulla di particolare. Non risulta che abbia mai pronunziato una parola meritevole di rimprovero, né la si vide mai ostinarsi a discutere né scusarsi, sebbene la priora, per metterla alla prova, l’incolpasse di ciò che non aveva fatto, come si usa nelle nostre case per esercitare alla mortificazione. Non si lamentò mai di nulla né di nessuna consorella. Qualunque ufficio adempisse, né con l’espressione del suo viso né con le sue parole procurò il minimo dispiacere ad alcuna, né diede motivo di pensare che ci fosse in lei un’imperfezione. Non si è trovato nessun punto d’accusa a suo riguardo nel Capitolo, ove pur le zelatrici rivelano le più lievi mancanze da loro notate. In ogni cosa era straordinario l’ordine che regolava i suoi atti interiori ed esteriori: ciò nasceva dal pensiero sempre presente dell’eternità e del fine per cui siamo stati creati. Aveva continuamente sulle labbra le lodi di Dio e gli accenti della più profonda gratitudine: la sua vita, in conclusione, era una perenne preghiera.

2. Riguardo all’obbedienza, non commise mai una mancanza, pronta com’era ad eseguire con sollecitudine, perfezione e gioia tutto ciò che le veniva ordinato. Grandissima era la sua carità verso il prossimo, tanto da farle dire d’essere disposta a lasciarsi ridurre a pezzi per chiunque, in cambio della salvezza della sua anima e della possibilità di far godere a tutti di suo «fratello Gesù Cristo», come soleva chiamare nostro Signore. Sopportava le sue sofferenze, pur essendo dure, a causa di terribili malattie – come dirò in seguito – e i suoi tremendi dolori così di buon animo e con tanto piacere, come se fossero grandi favori e delizie. Certamente nostro Signore doveva fargliene dono nell’anima, non essendo altrimenti possibile spiegarsi la gioia con cui sopportava i suoi mali.

3. Avvenne che in questa città di Valladolid si portassero al rogo alcuni individui, colpevoli di gravi delitti. Ella, avendo certo saputo che andavano a morte senza quella buona disposizione che era loro necessaria, ne provò profonda afflizione. Si recò con grande pena ai piedi di nostro Signore e lo supplicò ardentemente per la salvezza di quelle anime, chiedendogli in cambio di quanto esse meritavano, o per rendersi ella stessa meritevole di ottenere questa grazia – non ricordo in modo preciso le parole a cui fece ricorso –, di darle nell’intero corso della sua vita tutte le tribolazioni e le sofferenze che ella potesse sopportare. Quella stessa notte ebbe il primo attacco di febbre, e fino alla morte non fece che soffrire. Quei condannati morirono bene e ciò fa pensare che Dio avesse ascoltato la sua preghiera.

4. Le venne, poi, un ascesso intestinale con così atroci dolori, che era proprio necessario, per sopportarli pazientemente, la grazia di cui il Signore aveva arricchito la sua anima. Si trattava di un ascesso interno, contro cui tutti i rimedi della medicina non giovavano a nulla, finché il Signore permise che si aprisse e gettasse fuori l’infezione; così cominciò a star meglio a questo riguardo. Ma, desiderosa com’era di patire, non si contentava di poco; pertanto il giorno della festa della Croce, nell’ascoltare la predica, il suo desiderio crebbe tanto che, finita la cerimonia, scoppiata in lacrime, andò a gettarsi sul letto. Interrogata su che cosa avesse, rispose che pregassero Dio di mandarle molte sofferenze, perché solo con esse sarebbe stata felice.

5. Parlava con la priora di tutto ciò che avveniva nel suo intimo, e questo le era di conforto. Per l’intera durata della sua malattia non diede mai a nessuno il minimo fastidio, né si discostava dalle prescrizioni dell’infermiera, si trattasse anche solo di bere un po’ d’acqua. Per le anime dedite all’orazione, desiderare sofferenze, quando non si hanno, è cosa assai consueta, ma rallegrarsi, stando tra le pene, di soffrirle, non è di molte. Ella, invece, mentre il male aumentava di violenza, tanto che durò ancor poco in vita, con dolori terribili e un ascesso alla gola che le impediva di inghiottire, alla presenza di alcune consorelle disse alla priora (la quale cercava certo di confortarla e incoraggiarla a sopportare così gran male) che non avvertiva alcuna afflizione, né avrebbe cambiato il suo stato con nessuna delle consorelle che stavano in perfetta salute. Aveva talmente presente quel Signore per il quale pativa, che ricorreva a tutti i mezzi possibili perché non si capisse quanto grande fosse la sua sofferenza. Pertanto, tranne quando il dolore aumentava notevolmente d’intensità, si lamentava pochissimo.

6. Le sembrava che non ci fosse sulla terra creatura più miserabile di lei, e così, da tutto quel che il suo comportamento rivelava, era grande la sua umiltà. Si compiaceva moltissimo di parlare delle virtù di altre persone; in materia di mortificazione era perfino esagerata. Riusciva con così abile dissimulazione a sottrarsi ad ogni specie di sollievo che, se non la si osservava attentamente, non si poteva rendersene conto. Sembrava che non trattasse né vivesse più sulla terra, indifferente com’era a tutto. In qualunque modo andassero le cose, le sopportava talmente in pace da apparire sempre inalterata, tanto che una volta una consorella le disse che somigliava a certe persone così gelose del loro onore da preferire, pur morendo di fame, di sopportarlo in silenzio, piuttosto che renderne consapevoli gli estranei. E ciò perché nessuna poteva credere che ella fosse insensibile a certe cose di cui non sembrava minimamente risentire.

7. In tutto quello che faceva, sia nei riguardi del lavoro, sia delle sue occupazioni, aveva un fine così alto da non perderne alcun merito. E diceva alle consorelle: «La più piccola cosa che si faccia, se è fatta per amor di Dio, è di un valore inestimabile. Non dovremmo neppure muovere gli occhi, sorelle, se non in vista di questo fine e di piacere a Dio». Non s’intrometteva mai in cose di cui non avesse avuto l’incarico; così non vedeva i difetti altrui, ma solo i propri. Soffriva tanto per il minimo elogio che le venisse fatto che stava attenta a non lodare le altre in loro presenza, per non procurare ad esse ugual dispiacere. Non cercava mai alcun conforto, sia recandosi in giardino sia in ogni altra cosa creata, perché, a quanto diceva, sarebbe stato indelicato cercare sollievo ai dolori che le mandava nostro Signore. Per questo motivo non chiedeva mai nulla, contenta di ciò che le veniva dato. Diceva anche che per lei sarebbe stata una croce ogni consolazione attinta fuori di Dio. Sta di fatto che io, informatami presso le religiose del monastero, non ne ho trovata alcuna la quale avesse visto in lei la minima cosa che non denotasse un’anima di grande perfezione.

8. Giunto ormai il momento in cui nostro Signore aveva deciso di toglierla da questa vita, aumentarono i suoi dolori e i suoi mali si complicarono: per costatare la gioia con cui li sopportava e lodarne nostro Signore, le consorelle andavano talvolta a vederla. Specialmente il cappellano, gran servo di Dio, confessore di quel monastero, ebbe un vivo desiderio di trovarsi presente alla sua morte perché, confessandola, la riteneva una santa. Piacque a Dio esaudire il suo desiderio. Infatti, benché avesse ricevuto l’unzione degli infermi ed ella fosse ancora presente a se stessa, chiamarono ugualmente il cappellano perché, se quella notte ce ne fosse stato bisogno, la confessasse o almeno l’aiutasse a morire. Un po’ prima delle nove, mentre tutte le consorelle erano da lei insieme con il cappellano, le scomparve ogni dolore: con un’espressione di profonda pace, alzò gli occhi al cielo e le si dipinse in volto una gioia tale che parve illuminarla di una luce splendente. Se ne stava nell’atteggiamento di chi contempla qualcosa che è causa di grande letizia, perché sorrise due volte. Tutte le religiose presenti e lo stesso sacerdote sperimentarono una gioia e un’allegrezza spirituale così intense da non saper dire altro se non che sembrava loro di stare in paradiso. Con questa letizia che ho detto e con gli occhi levati al cielo, spirò, restando lì come un angelo. E possiamo ben credere, in base alla nostra fede e alla sua vita, che Dio l’abbia condotta all’eterno riposo, in ricompensa di quanto aveva desiderato di patire per lui.

9. Il cappellano afferma – e l’ha detto a molte persone – che nel momento in cui si calava il corpo nella sepoltura, egli sentì esalarne un acuto e soavissimo profumo. La sagrestana, inoltre, asserisce di non aver trovato nessuna diminuzione nella cera che bruciò durante gli onori funebri e il seppellimento. Tutto ciò è assai credibile per la misericordia di Dio. Avendo io parlato di queste cose con una padre della Compagnia di Gesù, che ella aveva avuto come confessore e direttore spirituale per molti anni, mi disse che non v’era in questo nulla di straordinario, né egli se ne meravigliava, conoscendo quanto il Signore si comunicasse al suo spirito.

10. Piaccia a Sua Maestà, figlie mie, che noi sappiamo trarre profitto dagli esempi di una così eccellente compagna e di molte altre che nostro Signore manda alle nostre case. Forse ne dirò ancora qualche cosa, affinché quelle che procedono con alquanta tiepidezza si sforzino di imitarle, e affinché tutte insieme lodino il Signore che fa risplendere così le sue grandezze in così deboli donnicciole.

CAPITOLO 13

In cui si racconta come e da chi fu dato avvio al primo convento dei carmelitani scalzi della Regola primitiva. Anno 1568.

1. Prima della mia partenza per la fondazione di Valladolid, si era convenuto con il padre fra Antonio de Jesús, allora priore di Sant’Anna di Medina, convento appartenente all’Ordine del Carmine, e con fra Giovanni della Croce – come ho già detto – che qualora si fosse fondato un monastero della Regola primitiva degli scalzi, essi sarebbero stati i primi ad entrarvi. Ma, non trovando il modo di procurarmi una casa, non facevo che supplicare di questa grazia nostro Signore, perché – ripeto – di questi due padri ero già soddisfatta. Il padre fra Antonio de Jesús, nell’anno trascorso dopo che io avevo trattato di ciò con lui, era stato sottoposto a dura prova dal Signore, per gravi sofferenze che aveva sopportato in modo esemplare. Per il padre fra Giovanni della Croce non c’era bisogno di alcuna prova perché, sebbene fosse fra quelli del panno, cioè fra i calzati, aveva sempre condotto una vita di grande perfezione e di piena osservanza degli obblighi religiosi, Piacque, infine, al Signore, dopo avermi dato il più, vale a dire frati adatti a cominciare l’opera, di provvedere anche al resto.

2. Un cavaliere di Avila, chiamato don Rafael, con il quale non avevo mai avuto rapporti, venne a sapere, non so come – perché la memoria mi fallisce –, della nostra intenzione di fondare un convento di scalzi. Venne a offrirmi una casa di sua proprietà in un piccolo villaggio di pochissime famiglie, mi pare neanche venti – perché ora non me ne ricordo bene –, che serviva a un fittavolo incaricato di raccogliere il grano prodotto dalla proprietà. Io, anche se capii subito quale genere di casa dovesse essere, resi lode a nostro Signore e ringraziai molto il cavaliere. Egli mi disse che era sulla strada di Medina del Campo, proprio quella che dovevo fare per recarmi alla fondazione di Valladolid, essendo quella la via più diretta, e che potevo vederla. Gli risposi che l’avrei fatto e mantenni la parola. Partii infatti da Avila nel mese di giugno con una compagna e con il padre Giuliano d’Avila, che era il sacerdote cappellano di San Giuseppe di Avila il quale, come ho detto, mi assisteva nei miei viaggi.

3. Pur essendo partiti di mattina, siccome non conoscevamo la strada, ci smarrimmo e, poiché il villaggio era poco noto, non si riusciva a saperne molto. Pertanto ci aggirammo tutto quel giorno con molta fatica, perché il sole scottava. Quando credevamo di essere vicini alla meta, c’era altrettanta strada da fare. Non dimenticherò mai la stanchezza e le giravolte di quel viaggio. Arrivammo, così, poco prima di notte. Entrati nella casa, la trovammo in tale stato che non ci arrischiammo a pernottare lì a causa della eccessiva sporcizia che vi regnava e della gran quantità di parassiti estivi. Aveva un ingresso discreto, una camera divisa in due con il suo soppalco, e una piccola cucina: ecco tutto l’edificio del nostro monastero! Considerai che nell’ingresso si poteva fare la cappella, che nel soppalco stava bene il coro e nella camera il dormitorio. La mia compagna, benché assai migliore di me e molto amante della penitenza, non poteva sopportare l’idea che io pensassi di far lì un monastero e mi disse: «Vi assicuro, madre, che non ci sarà nessuna anima, per buona che sia, capace di sopportare questo. Non parlatene più». Il padre che mi accompagnava, sebbene fosse dello stesso parere della mia compagna, quando gli ebbi esposto i miei disegni, non mi fece opposizione. Ci recammo a passar la notte in chiesa, giacché, a causa della grande stanchezza che avevamo, non avremmo voluto passarla vegliando.

4. Giunti a Medina, parlai subito con il padre fra Antonio: gli dissi quale fosse la situazione e che se gli bastato il coraggio di stare lì qualche tempo, poteva esser certo che Dio avrebbe presto sistemato tutto; che l’essenziale era cominciare. (Mi sembrava di aver avuto così presente ciò che il Signore ha poi fatto e che ne fossi così sicura – in certo modo – come lo sono ora che ne vedo la realizzazione, e anche più di quanto finora abbia visto, benché nel momento in cui scrivo, per la bontà di Dio, siano stati fondati dieci monasteri di scalzi). Dissi inoltre al padre Antonio che né il provinciale passato, né il presente (il cui consenso, come ho detto al principio, era indispensabile) ci avrebbero dato la loro autorizzazione se ci avessero visto in una casa assai migliore, prescindendo dal fatto che non avevamo modo di procurarcela, mentre in quel piccolo borgo e in quella misera casa, non vi avrebbero fatto caso. Dio aveva dato a lui più coraggio che a me, e pertanto mi rispose che era disposto a stare non solo lì, ma anche in un porcile. Fra Giovanni della Croce era del medesimo parere.

5. Ora ci restava di ottenere il consenso dei due padri di cui ho parlato, perché era questa la condizione con la quale il nostro padre generale ci aveva dato la sua autorizzazione. Io speravo in nostro Signore di riuscire ad averla, e così, raccomandato al padre fra Antonio di adoperarsi a far tutto ciò che potesse per raccogliere qualche cosa per la nuova fondazione, partii con fra Giovanni della Croce per la fondazione già descritta di Valladolid. Siccome restammo alcuni giorni senza clausura a causa degli operai che lavoravano per adattare al bisogno la casa, ebbi l’opportunità d’informare il padre Giovanni della Croce di tutto il nostro sistema di vita, in modo che conoscesse a fondo ogni nostra pratica, sia riguardo alla mortificazione, sia alla forma di fratellanza e di ricreazione che abbiamo in comune. Questa procede con tanta moderazione, che serve solo a farci conoscere i nostri difetti e a darci un po’ di svago per sopportare meglio il rigore della Regola. Quel padre era così buono che avrei potuto, da parte mia, imparare da lui molto più di quel che egli apprendeva da me. Ma non era questo ciò che io facevo; pensavo solo a informarlo del modo di vivere di noi consorelle.

6. Piacque a Dio che si trovasse lì il provinciale del nostro Ordine, dal quale dovevo avere il permesso. Si chiamava fra Alonso González. Era vecchio, d’indole assai buona e privo di malizia. Nel presentargli la mia richiesta gli addussi tante ragioni, senza escludergli il conto che avrebbe dovuto rendere a Dio se avesse ostacolato una così santa opera. Il Signore, che voleva si facesse quella fondazione, gli toccò il cuore ed egli si mostrò favorevole. Venuti poi la signora donna María de Mendoza e il vescovo di Avila, suo fratello, che è quegli che ci ha sempre appoggiate e protette, sistemarono la cosa con lui e con il padre fra Angel de Salazar, l’ex provinciale, del quale io più temevo. Ma si diede l’occasione che egli avesse bisogno, per un certo affare, dell’aiuto della signora donna María de Mendoza, e credo che questo ci abbia molto giovato; prescindendo dal fatto che, anche se non ci fosse stata questa occasione, nostro Signore lo avrebbe ispirato in nostro favore, come aveva fatto col padre generale, quando era ben lontano dall’aiutarci.

7. Oh, quante cose ho visto, in queste trattative, mio Dio, che sembravano impossibili e che Sua Maestà ha appianato con estrema facilità! E quale confusione è per me, avendo visto quello che ho visto, non essere migliore! Ora che son qui a scriverne, resto sbigottita e vorrei che nostro Signore facesse conoscere a tutti come in queste fondazioni noi, sue creature, non abbiamo fatto quasi nulla. Tutto è stato disposto dal Signore, e l’edificio ha avuto così umili basi che solo Sua Maestà poteva elevarlo all’altezza in cui ora lo vediamo. Sia per sempre benedetto! Amen.

CAPITOLO 14

Continua a parlare della fondazione della prima casa dei carmelitani scalzi. Dice qualcosa della vita che lì essi conducevano e del bene che per loro mezzo Nostro Signore cominciò a operare in quei luoghi, tutto a onore e gloria di Dio.

1. Avuti questi due consensi, mi parve che ormai non mi mancasse nulla. Stabilimmo che il padre fra Giovanni della Croce andasse nella nuova casa e la sistemasse in modo che si potesse abitarla, comunque fosse. Tutto il mio desiderio era che si cominciasse presto, perché temevo molto che sopravvenisse qualche ostacolo. E così si fece. Il padre fra Antonio aveva già raccolto qualcosa di quel che era necessario. Noi l’aiutavamo come potevamo, ma si trattava di poca cosa. Venne a trovarmi a Valladolid, pieno di gioia, e mi elencò quel che aveva raccolto, che era quasi niente. Era provvisto solo di orologi, perché ne aveva cinque, il che mi divertì molto. Mi disse che per avere le ore ben regolate, non voleva esserne sfornito. Credo che ancora non disponesse di qualcosa per dormire.

2. Si tardò poco a preparare la casa perché, pur essendoci il desiderio di far di più, mancava il denaro. Finito il lavoro, il padre fra Antonio rinunziò con ferma decisione al suo priorato e promise di osservare la Regola primitiva. Sebbene gli dicessero di farne prima la prova, non volle acconsentirvi. Se ne andò alla sua casetta con la più grande allegria del mondo. Fra Giovanni era già là.

3. Il padre fra Antonio mi ha detto che, quando arrivò in vista del piccolo villaggio, provò una straordinaria gioia interiore e gli parve di averla finita con il mondo, abbandonando tutto per seppellirsi nella solitudine di quella casa che, sia all’uno sia all’altro, lungi dall’apparire disagiata, sembrava che offrisse grandi diletti.

4. Oh, mio Dio! Come servono a poco gli edifici e gli agi esteriori per l’appagamento dell’anima! Per amor suo io vi supplico, sorelle e padri miei, di andarci piano in fatto di case grandi e sontuose. Teniamo presenti i nostri veri fondatori, che sono quei santi Padri dai quali discendiamo, e che sappiamo essere pervenuti al godimento di Dio attraverso il cammino della povertà e dell’umiltà.

5. Ho proprio costatato, del resto, che vi è più spirito e anche maggiore gioia interiore quando sembra che il corpo non si trovi a suo agio che quando si disponga di un’ampia e comoda casa. Per quanto grande essa sia, che vantaggio ci procura, visto che solo una cella è ciò di cui facciamo uso continuamente? Che essa sia spaziosa e ben costruita, che c’importa? Non dobbiamo certo starvi a contemplare le pareti. Se considereremo che non è la casa in cui abiteremo per sempre, ma il breve tempo com’è quello della nostra vita, per quanto grande essa sia, tutto ci diventerà dolcemente grato, pensando che quanto meno avremo avuto quaggiù, tanto più godremo in quell’eternità dove sono le dimore corrispondenti all’amore con cui avremo imitato la vita del nostro buon Gesù. Se diciamo che son questi i principi per rinnovare la Regola della Vergine, Madre sua, nostra Signora e patrona, non facciamole l’affronto – a lei come ai nostri antichi santi Padri – di non curarci di adeguare la nostra vita alla loro. Se per la nostra debolezza non ci è possibile farlo in ogni cosa, per lo meno dovremmo avere molta cura d’imitarli quando non ne va di mezzo la salute. Infine, tutto si riduce a un po’ di gradevole fatica, qual era questa di questi due padri; e nella ferma determinazione di sopportarla sparisce la difficoltà, perché tutta la sofferenza è solo un po’ al principio.

6. La prima o la seconda domenica dell’Avvento di quell’anno 1568 (non ricordo quale sia stata delle due), si celebrò la prima Messa in quel piccolo andito che posso chiamare di Betlemme, perché non credo fosse migliore della stalla dove nacque Gesù. La Quaresima successiva, recandomi alla fondazione di Toledo, passai di là. Arrivai di mattina. Il padre fra Antonio de Jesús stava scopando davanti alla porta della cappella, con quel viso allegro che egli ha sempre. Io gli chiesi: «Che cos’è questo, padre mio? Dov’è andato a finire l’onore?». Mi rispose con queste parole che esprimevano tutta la sua gioia: «Maledetto sia il tempo in cui vi feci caso!». Entrata nella piccola cappella, rimasi sbalordita costatando lo spirito di devozione che il Signore vi aveva fatto fiorire. E non ero io sola ad esserne impressionata, perché due mercanti miei amici, che erano venuti fin lì da Medina con me, non facevano che piangere. C’erano tante croci e tante teste da morto! Non ho mai dimenticato una piccola croce di legno posta sull’acquasantiera, alla quale era attaccata un’immagine in carta di Gesù Crocifisso che mi pareva ispirare maggiore devozione di qualunque raffinata opera d’arte.

7. Il coro stava nel soppalco che, verso il centro, era un po’ elevato, in modo che i padri vi potevano dire le ore e ascoltare la Messa. Ma, per entrarvi, dovevano abbassarsi molto. Nei due angoli che davano sulla cappella si trovavano due piccoli romitori, dove non potevano stare che stesi a terra o seduti e, ciò malgrado, con la testa toccavano quasi il tetto. Li avevano riempiti di fieno perché il luogo era estremamente freddo. Due finestrelle davano sull’altare, due pietre servivano da guanciali, e ogni religioso aveva lì la sua croce e la sua testa da morto. Seppi che, dopo aver finito il Mattutino, fino a Prima, non si ritiravano in cella, ma restavano là in orazione, ed essa era così profonda che accadeva loro di trovarsi con gli abiti pieni di neve quando andavano a Prima, senza che se ne fossero accorti. Recitavano le Ore con un padre di quelli del panno, che andò a stare con loro, pur non mutando abito, perché era molto malato, e con un altro giovane frate, il quale non aveva preso ancora gli ordini e stava lì anche lui.

8. Andavano a predicare in molti villaggi vicini, i cui abitanti non avevano alcuna istruzione religiosa. Anche per questo mi ero rallegrata che si fondasse lì la casa: mi avevano detto, infatti, che non c’era vicino alcun monastero e che la gente pertanto non aveva modo d’istruirsi, cosa che non poteva non dare una gran pena. In breve tempo si erano acquistati tanta stima che, quando lo seppi, il cuore mi si riempì di gioia. Come dicevo, andavano dunque a predicare a una lega e mezzo o due di distanza, scalzi (perché allora non portavano alpargatas che in seguito fu loro imposto di avere), con la neve alta e il freddo intenso. Dopo aver predicato e confessato, ritornavano assai tardi al convento per prendere i pasti, ma con la gioia che sentivano in sé non vi facevano alcun caso.

9. Quanto al cibo, ne avevano a sufficienza perché gli abitanti dei villaggi vicini li provvedevano di più del necessario. Andavano là a confessarsi alcuni cavalieri dei dintorni, e già offrivano loro posti e case migliori nei luoghi in cui essi abitavano. Fra questi fu un certo don Luis, signore delle «Cinque Ville», che aveva fatto costruire una chiesa per collocarvi un’immagine di Nostra Signora, in verità ben degna d’essere esposta alla venerazione dei fedeli. Suo padre l’aveva inviata dalla Fiandre a sua nonna o a sua madre (non ricordo a quale delle due), per mezzo di un mercante a cui piacque tanto, che se la tenne per molti anni e poi, giunta l’ora della morte, la fece consegnare a chi spettava. È un quadro grande, più bello del quale io non ho visto mai nulla in vita mia, e molte altre persone dicono altrettanto. Il padre fra Antonio de Jesús, recatosi in quel luogo su richiesta di questo cavaliere, vista l’immagine, se ne innamorò a tal punto, e ben a ragione, che accettò di trasferire il monastero. Mancera è il nome del villaggio. Benché non vi fosse acqua di pozzo, e sembrasse che in nessun modo si potesse averne lì, il cavaliere fece costruire per essi un convento piccolo, in conformità della loro professione, li fornì di arredi sacri e regolò tutto assai bene.

10. Non voglio omettere di dire in che modo il Signore li provvide di acqua, che fu un fatto ritenuto come qualcosa di miracoloso. Mentre una sera, dopo cena, il padre fra Antonio, che era priore, stava nel chiostro con i suoi frati parlando della necessità che si aveva dell’acqua, a un tratto si alzò, prese il bastone che aveva in mano e fece in un punto del chiostro, mi pare, il segno della croce, benché non mi ricordi bene se facesse proprio il segno della croce. Comunque, indicò il posto col bastone e disse: «Ora scavate qui». Avevano appena cominciato a scavare, allorché uscì tanta acqua che, ancora oggi, quando si vuol pulire il pozzo, è faticoso vuotarlo. L’acqua è assai buona da bere; è stata adoperata per tutti i lavori del convento e – ripeto – non si esaurisce mai. In seguito i frati, recinto un tratto di terreno per farvi un orto, hanno cercato d’immettervi acqua, costruendo una noria e spendendo molto denaro, ma finora non hanno ottenuto il benché minimo risultato.

11. Ritornando ora a quel che dicevo prima, quando io vidi quella piccola casa, che poco prima era inabitabile, animata da uno spirito tale di devozione che, dovunque mi volgessi, trovavo – mi pare – di che restare edificata, e seppi del modo di vivere di quei padri, della mortificazione e dell’orazione che praticavano e del buon esempio che davano – perché vennero a trovarmi lì un cavaliere di mia conoscenza, che abitava in un villaggio vicino, con sua moglie ed entrambi non finivano di parlarmi della santità dei due padri e del gran bene che facevano lì intorno – non finivo di ringraziare nostro Signore, con una grande felicità interiore, sembrandomi di vedere dato inizio ad un’opera che avrebbe apportato gran profitto al nostro Ordine e reso il dovuto servizio a Dio. Piaccia a Sua Maestà di farli proseguire nella via che seguono ora e le mie speranze si effettueranno. I mercanti che mi avevano accompagnata mi dicevano che per tutto l’oro del mondo non avrebbero non essere venuti lì. Che gran cosa è la virtù, e quanto quella povertà piacque loro più di tutte le ricchezze che possedevano, tanto da restarne con l’anima pienamente soddisfatta e consolata!

12. Ci trattenemmo, quei padri e io, a parlare di alcune cose: in particolare – essendo io debole e dappoco – li pregai molto di non fare pratiche di penitenza troppo rigorose, perché la loro austerità era eccessiva. Siccome mi era costato tanto, di desideri e orazione, ottenere che il Signore mi mandasse persone adatte a dar principio all’opera e vedevo così felici inizi, temevo che il demonio cercasse il modo di troncare i loro giorni prima che si effettuassero le mie speranze. Imperfetta e di poca fede com’ero, non consideravo che era opera di Dio e che Sua Maestà l’avrebbe condotta innanzi. Essi, avendo le virtù che mancavano a me, fecero poco caso al mio invito di tralasciare le loro pratiche. E così me ne andai con l’anima ripiena di consolazione, anche se non rendevo a Dio le lodi che avrebbe meritate per così somma grazia. Piaccia a Sua Maestà, nella sua bontà, che io sia degna di servirlo in qualcosa per il moltissimo che gli devo! Amen. Capivo bene, infatti, che questa era una grazia ben più grande di quella che mi faceva concedendomi di fondare monasteri di religiose.