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Libro delle Fondazioni - Capitoli 17, 18

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 17

Racconta della fondazione dei monasteri di Pastrana, uno per i frati l’altro per le monache, aperti ambedue nell’anno 1570, voglio dire nel 1569.

1. Nei quindici giorni trascorsi dalla fondazione della casa di Toledo fino alla vigilia di Pentecoste, si era dovuta sistemare la piccola cappella, mettere le grate e provvedere ad altro, il che ci aveva procurato molto da fare (perché, come ho detto, restammo in questa casa quasi un anno). Ero molto stanca per essere stata con gli operai, ma finalmente tutto era ormai terminato. Quella mattina, mentre eravamo nel refettorio per il pranzo, fui presa da così grande gioia al pensiero che ormai non avevo più nulla da fare e che in quella festa avrei potuto gioire qualche momento con nostro Signore, che quasi non potevo mangiare per la felicità di cui l’anima si sentiva piena.

2. Ma non mi fu possibile di goderne a lungo, perché in quello stesso momento vennero a dirmi che chiedeva di me un servo della principessa di Eboli, moglie di Ruy Gómez de Silva. Andai da lui: lo mandava la principessa a prendermi perché da molto tempo avevamo convenuto insieme di fondare un monastero a Pastrana, ma non pensavo che si dovesse fare così in fretta. Ne rimasi afflitta, essendo molto pericoloso lasciare un monastero fondato così di recente fra tante opposizioni: pertanto decisi subito di non andare e lo dissi al servo. Egli mi rispose che non era possibile, perché la principessa stava già là ove si era recata per questo solo motivo, e che sarebbe stato da parte mia un affronto non andarvi. Ciò nonostante decisi di non partire. Gli dissi perciò di andare a mangiare: nel frattempo avrei scritto alla principessa ed egli sarebbe poi ripartito con la mia lettera. Era un uomo assai dabbene, e quando gli ebbi spiegato le mie ragioni, nonostante la sua riluttanza, finì per cedere.

3. Le religiose che dovevano stare nel monastero erano appena arrivate; non vedevo proprio come avrei potuto lasciarle così presto. Andai davanti al santissimo Sacramento per chiedere al Signore la grazia di farmi scrivere alla principessa in modo da non irritarla. Ciò poteva arrecarci molto danno per il fatto che si cominciava allora la riforma dei frati ed era utile, per ogni nostra occorrenza, avere il favore di Ruy Gómez, che godeva di tanta influenza presso il re e presso tutti. Non mi ricordo, in verità, se pensavo a questo, ma so bene che non volevo dispiacerle. Mentre riflettevo sul da farsi, mi fu detto da parte di nostro Signore di recarmi a Pastrana, perché vi sarei andata per qualcosa di più importante della stessa fondazione e che portassi con me la Regola e le Costituzioni.

4. Udito questo, nonostante vedessi che vi erano motivi fondati per non farlo, non osai sottrarmi ad agire come sono solita fare in simili circostanze, cioè attenermi al consiglio del confessore. Così, lo mandai a chiamare, ma non gli dissi nulla di quello che avevo udito nell’orazione, perché in questo modo resto sempre più tranquilla. Supplico solo il Signore d’illuminare i miei confessori conformemente a quel che possono capire in virtù di lumi naturali, e Sua Maestà, quando vuole che la cosa si faccia, gliela pone in cuore. Questo mi è accaduto spesso e così avvenne anche questa volta. Egli, dopo aver considerato attentamente tutto, fu del parere che partissi e pertanto mi decisi ad andare.

5. Lasciai Toledo il secondo giorno di Pentecoste. Dovendo passare per Madrid, le mie compagne e io prendemmo alloggio in un monastero di francescane ove si trovava la signora fondatrice del monastero stesso, che aveva stabilito ivi la sua dimora. Era donna Leonor Mascareñas, ex governante del re, gran serva di Dio, presso la quale io avevo alloggiato altre volte quando mi si era offerta l’occasione di passare da lì, e mi aveva sempre trattato con molta benevolenza.

6. Questa signora mi disse che si rallegrava di vedermi capitare in quel momento, perché v’era là un eremita che desiderava vivamente conoscermi, e la cui vita, come quella dei suoi compagni, le sembrava concordare molto con la nostra Regola. Siccome io allora non avevo che due frati, mi venne in mente che se avessi potuto indurre quest’eremita ad aggiungersi a loro, sarebbe stata un’ottima cosa. La supplicai pertanto di procurarmi un incontro con lui. Egli viveva in un alloggio datogli da questa signora, con un giovane frate chiamato fra Giovanni della Miseria, molto semplice nei riguardi delle cose del mondo, ma gran servo di Dio. Durante il nostro incontro venni a sapere che voleva recarsi a Roma.

7. Prima di proseguire, voglio dire quanto so di questo padre, il cui nome è Mariano de san Benito. Era italiano di nascita, dottore e uomo di grande ingegno e abilità. Mentre stava presso la regina di Polonia, preposto al governo di tutta la sua casa, senza essersi mai voluto sposare, provvisto di una commenda dell’Ordine di San Giovanni, nostro Signore gli ispirò di abbandonare ogni cosa per meglio provvedere alla sua salvezza. Ebbe a soffrire non poche tribolazioni, perché fu accusato ingiustamente d’aver preso parte a un omicidio. Per questo motivo fu tenuto due anni in carcere, senza che volesse né un avvocato né alcun altro che lo difendesse, rimettendosi solo a Dio e al suo buon diritto. Ci furono falsi testimoni che affermarono d’essere stati incitati da lui a compiere il delitto, ma accadde loro come ai vecchi di santa Susanna. Interrogati, infatti, separatamente circa il luogo ove l’accusato allora si trovasse, uno disse che era seduto sul letto, l’altro che stava presso una finestra. In conclusione, finirono col confessare d’averlo calunniato. Egli mi rivelò che gli era poi costato molto denaro sottrarli al meritato castigo, e che quello stesso che gli faceva la guerra era finito nelle sue mani, a causa di una circostanza in cui egli avrebbe potuto dare un’informazione contro di lui, ma che anche allora si era prodigato in tutti i modi a non nuocergli.

8. Questo e altre virtù – essendo egli un uomo integro e casto, contrario ad ogni contatto con le donne – dovettero meritargli da nostro Signore la grazia di conoscere cosa è il mondo, affinché cercasse di liberarsene. Cominciò pertanto a chiedersi quale Ordine avrebbe potuto scegliere ma, esaminando gli uni e gli altri, in tutti ebbe a trovare qualcosa che non conveniva al suo modo di essere, a quanto mi disse. Venne a sapere che presso Siviglia, in un deserto chiamato el Tardón, vivevano insieme alcuni eremiti, sotto la guida di un grande santo conosciuto con il nome di padre Mateo. Abitavano in celle separate. Non recitavano l’Ufficio divino, ma disponevano di un oratorio dove si riunivano per la Messa. Non avevano rendite, non chiedevano né ricevevano elemosine, ma si mantenevano con il lavoro delle loro mani, e ognuno mangiava da solo, assai poveramente. Mi parve, nell’udirlo, di veder rivivere i nostri santi Padri. In questo genere di vita egli trascorse otto anni. Ma, avendo poi il Concilio di Trento ingiunto di aggregarsi a qualche Ordine religioso, aveva deciso di andare a Roma per ottenere un’eccezione in favore dei suoi compagni. Tali erano i suoi propositi, quando avvenne il nostro incontro.

9. Avendomi egli descritto il suo modo di vivere, gli mostrai la nostra Regola primitiva e gli feci osservare che, senza tanta fatica, avrebbe potuto con essa adempiere tutte le sue pratiche, perché erano ugualmente a base della nostra vita, specialmente quella di mantenersi con il lavoro delle proprie mani, che era ciò a cui più teneva. Mi diceva che è la cupidigia a far perdere il mondo e a far disprezzare i religiosi. Siccome ero dello stesso parere, su questo punto fummo subito d’accordo e anche su tutto il resto. Dopo che gli ebbi spiegato quale servizio avrebbe potuto rendere a Dio col vestire il nostro abito, mi disse che ci avrebbe pensato quella notte. Accorgendomi che era quasi deciso, capii che quanto mi era stato detto nell’orazione, «che sarei andata per qualcosa di più importante della fondazione di un monastero di religiose», si riferiva proprio a questo. Ne provai una gran gioia, sembrandomi che, se egli fosse entrato nell’Ordine, si sarebbe reso un gran servizio al Signore. Sua Maestà, che lo voleva tra noi, quella notte gli toccò talmente il cuore, che l’indomani mi fece chiamare, ormai fermamente deciso e, inoltre, stupito del cambiamento improvviso operatosi in lui, tanto più – anche ora a volte me lo ripete – a causa di una donna, come se ciò fosse dipeso da me, e non dal Signore che il potere di mutare i cuori.

10. Quanto sono grandi le sue determinazioni! Questo padre aveva passato tanti anni senza riuscire a decidersi per uno stato fisso (perché quello in cui si trovava non era tale: non vi si pronunciavano, infatti, voti, né si avevano altri obblighi se non di vivere lì in solitudine). Ed ecco che d’un colpo Dio gli toccò il cuore e gli fece comprendere quanto lo avrebbe servito in questo stato, e come egli ne avesse bisogno per proseguire nell’opera intrapresa, cui, infatti, è stato di grande aiuto. Finora tale opera gli è costata ben dure sofferenze e più gliene costerà prima che si sia del tutto affermata (a quanto è dato d’intendere dai contrasti che deve sostenere questo ritorno alla Regola primitiva), poiché a causa della sua abilità, del suo ingegno e della sua santa vita ha influenza presso molte persone che ci favoriscono e ci proteggono.

11. Mi disse, inoltre, che Ruy Gómez gli aveva dato a Pastrana, che era proprio il luogo dove io andavo, un buon romitaggio e un terreno per stabilirvi una comunità di eremiti, e che egli voleva destinarlo a un convento di quest’Ordine e prendervi l’abito. Io gliene fui assai grata e resi lode a nostro Signore, perché dei due monasteri per i quali il nostro reverendissimo padre generale mi aveva inviato la sua autorizzazione, non ne era stato fatto che uno. Da lì inviai allora un messaggero ai due padri di cui ho parlato, l’attuale provinciale e quello che lo era stato prima, pregandoli caldamente di darmi il loro consenso, senza il quale non si poteva far nulla. Scrissi anche al vescovo di Avila, che era don Alvaro de Mendoza, il quale ci aiutava molto, affinché riuscisse a convincerli.

12. Piacque a Dio che dessero il proprio consenso, ritenendo, certamente, che una fondazione in un luogo così appartato non potesse essere loro di alcun danno. Il padre mi promise di recarsi a Pastrana non appena fosse giunta l’autorizzazione. Così me ne partii piena di gioia. Trovai lì la principessa e il principe Ruy Gómez, che mi fecero una grande accoglienza. Ci diedero un appartamento isolato dove restammo più a lungo di quanto pensassi, perché la casa che ci avevano destinato era troppo piccola e la principessa aveva ordinato di demolirne e ricostruirne una gran parte, conservando, sì, le mura, ma rifacendo molte cose.

13. Rimasi lì circa tre mesi, durante i quali ebbi a soffrire molto, per il fatto che la principessa mi chiedeva certe concessioni non rispondenti allo spirito del nostro Ordine. Ero decisa pertanto a venirmene via senza realizzare la fondazione piuttosto che cedere. Il principe Ruy Gómez, avveduto com’era, convinto delle mie ragioni, indusse la moglie a rinunziare alle sue esigenze. Da parte mia permisi alcune cose, perché tenevo di più alla fondazione del convento dei frati che a quello delle monache, rendendomi conto della sua importanza, in seguito rivelatasi chiaramente.

14. Intanto, arrivarono Mariano e i suoi compagni, gli eremiti di cui ho parlato. Ottenuta l’autorizzazione, quei signori acconsentirono che si facesse del luogo da essi destinato ad eremiti un convento di carmelitani scalzi. Mandai a chiamare, perché desse inizio a questa fondazione, il padre fra Antonio de Jesús, il primo dei nostri religiosi, che si trovava allora a Mancera. Io confezionai per i nuovi venuti abiti e cappe, e feci quanto mi era possibile perché la vestizione avvenisse al più presto.

15. In questa circostanza avevo mandato a chiedere altre religiose al monastero di Medina del Campo, perché io ne avevo con me soltanto due. C’era lì un padre, già avanti negli anni – pur non essendo infatti molto vecchio, non era certo giovane – assai buon predicatore, il quale si chiamava fra Baltasar de Jesús. Appena seppe che si faceva quella fondazione, si unì alle monache con il proposito di diventare scalzo, ciò che fece subito dopo. Quando me lo disse, ne resi lode a Dio. egli diede l’abito al padre Mariano e al suo compagno, accolti entrambi come conversi, perché nemmeno il padre Mariano volle essere ordinato sacerdote, protestando di entrare fra noi per essere l’ultimo di tutti, né riuscii a rimuoverlo da questo proposito. In seguito, per ingiunzione del nostro reverendissimo padre generale, gli furono conferiti gli ordini sacri. Fondati, dunque, entrambi i monasteri e venutoli padre Antonio de Jesús, cominciarono a entrare in quello dei frati vari novizi, di alcuni dei quali si riferirà più avanti il merito. Servivano nostro Signore con tale fervore, come – se così vorrà – potrà scriverne chi sappia dirlo meglio di me, certamente poco adatta a questo compito.

16. Per quanto riguarda le religiose, il loro monastero, lì, fu assai favorito dal principe e dalla principessa che aveva una cura estrema di farle star bene e di trattarle con affetto, finché, morto il principe Ruy Gómez o per suggestione del demonio, o forse perché il Signore così permise, – e lui solo ne sa il motivo – sconvolta dal dolore di quella morte, la principessa entrò come suora nel monastero. A causa della sua grande sofferenza, non potevano riuscirle molto gradite le regole della clausura a cui non era abituata. D’altra parte, la priora, in base alle disposizioni del santo Concilio, non poteva darle la libertà che ella desiderava.

17. La principessa finì con l’avere per lei e per tutte le consorelle una tale avversione che, anche dopo aver lasciato l’abito, quando stava ormai di nuovo nel suo palazzo, non cessava di dar loro fastidio. Le povere monache erano in preda a un tale turbamento che io mi adoperai con tutti i mezzi possibili, supplicandone i Superiori, perché si sopprimesse il monastero. Se ne stava fondando uno a Segovia, come più avanti si dirà, dove esse si trasferirono, lasciando tutto quello che la principessa aveva loro dato e conducendo con sé alcune consorelle che ella aveva imposto di accettare senza dote. Presero, andando via, soltanto i letti e certe piccole cose che esse stesse avevano portato lì, lasciando molto afflitti gli abitanti del luogo. Io provavo la più gran gioia del mondo nel vederle in pace, tanto più che sapevo bene come esse non erano in alcun modo responsabili dello sdegno della principessa; anzi, nel tempo in cui vestì l’abito, la servivano come avevano fatto prima. Solo quanto ho detto e lo stesso dolore che la opprimeva ne furono la causa, oltre una serva che aveva portato con sé, sulla quale, a quel che sembra, ricade tutta la colpa. Infine, ne fu causa anche il Signore, che lo permise. Doveva certo vedere che lì quel monastero non era utile: i suoi giudizi sono assai profondi e spesso del tutto contrari ai nostri criteri. Del resto, io non avrei mai osato far questo di mia iniziativa: l’ho fatto in base al parere di uomini santi e dotti.

CAPITOLO 18

Racconta della fondazione del monastero di San Giuseppe di Salamanca, avvenuta nell’anno 1570. Dà alcuni consigli importanti alle priore.

1. Ultimate queste due fondazioni, tornai a Toledo, dove rimasi alcuni mesi, per comprare la casa di cui ho parlato e lasciare tutto in ordine. Mentre ero impegnata in questa faccenda, mi scrisse il rettore della Compagnia di Gesù di Salamanca per dirmi che lì sarebbe stato assai utile un monastero di queste nostre religiose, e me ne esponeva le ragioni. Quel che mi aveva trattenuto fino allora dal fondare là un monastero senza rendite era la povertà del luogo. Ma, considerando che anche Avila è assai povera e che mai le vien meno l’aiuto di Dio, né credo che verrà mai meno a coloro che lo servono, essendoci inoltre nei nostri monasteri una situazione assai tranquilla e ordinata, dato il numero esiguo delle religiose, che si aiutano col lavoro delle loro mani, decisi di accettare. E, recatami da Toledo ad Avila, mi adoperai da lì per ottenere l’autorizzazione del vescovo di Salamanca il quale, informato dal padre rettore del nostro Ordine e saputo che la fondazione sarebbe stata a gloria di Dio, ebbe la bontà di darcela subito.

2. A me sembrava che, ormai in possesso dell’autorizzazione dell’Ordinario, il monastero fosse fatto, tanto la cosa mi pareva facile. Così provvidi subito a prendere in affitto una casa procuratami da una signora di mia conoscenza. C’era qualche difficoltà da superare, perché quello non era il tempo degli affitti e perché era occupata da alcuni studenti, dai quali si riuscì ad ottenere che l’avrebbero lasciata libera, quando si fosse presentato chi doveva entrarvi. Essi ignoravano a che cosa sarebbe servita, perché io avevo una enorme cura di non far trapelare nulla fino alla presa di possesso. Conosco infatti per esperienza i mezzi a cui ricorre il demonio per impedire la fondazione d’uno solo dei nostri monasteri. E sebbene in questo Dio non gli abbia permesso in principio di ostacolarci, perché voleva che si fondasse, dopo sono state tante le difficoltà e così vari i contrasti sofferti, che ancora non sono del tutto rimossi, nonostante siano trascorsi vari anni dalla fondazione mentre scrivo queste cose. Credo, pertanto, che Dio vi sia assai ben servito, se il demonio non lo può soffrire.

3. Munita dunque dell’autorizzazione e sicura della casa, fiduciosa nella misericordia di Dio, non avendo lì nessuno che potesse darmi alcun aiuto in tutto quel che occorreva fare – ed era molto – per sistemare la casa, partii alla volta di Salamanca, portando con me, per maggiore segretezza, una sola compagna. Ritenevo che il meglio da farsi fosse questo: non far venire le consorelle fino alla presa di possesso. Era stata una buona lezione quello che mi era accaduto a Medina del Campo, ove mi ero vista in gran difficoltà. Così, se fosse sorto qualche ostacolo, ne avrei sofferto da sola, con quell’unica compagna che non potevo evitare di prendere con me. Arrivammo la vigilia di Tutti i Santi, dopo aver viaggiato gran parte della notte precedente con un freddo intenso e dormito in un villaggio, ove mi ero sentita assai male.

4. Nel parlare di queste fondazioni, tralascio gli enormi disagi dei viaggi, per il freddo, il sole, la neve che a volte non cessava di cadere tutto il giorno. Di quando in quando ci smarrivamo, oppure mi accadeva di essere colpita da forti mali con attacchi di febbre, perché – gloria a Dio! – è cosa consueta per me avere ben poca salute. Ma vedevo chiaramente che nostro Signore mi dava forza. Infatti a volte, nel momento d’intraprendere una fondazione, mi è accaduto di sentirmi in preda a tanti mali e dolori, da affliggermene molto perché mi sembrava di non essere in grado neanche di stare in cella, se non coricata. Mi volgevo, allora, a nostro Signore, lamentandomi di lui e chiedendogli come voleva che facessi ciò che non potevo fare; in seguito Sua Maestà mi faceva riprendere le forze, pur a fatica, e con l’ardore e lo zelo che egli m’ispirava, sembrava che io mi dimenticassi di me.

5. Per quel che ora ricordo, non ho mai rinunciato ad una fondazione nel timore della sofferenza, anche se ero assai restia ad affrontare viaggi, specialmente lunghi. Ma appena mi mettevo in cammino, la fatica mi sembrava poca, pensando chi fosse colui a servizio del quale si faceva il viaggio e considerando che nella nuova casa si sarebbe lodato il Signore e vi sarebbe stato riposto il santissimo Sacramento. È infatti di una particolare consolazione per me vedere una chiesa di più, specialmente se penso al gran numero di quelle che i luterani distruggono. Non so quali tribolazioni, per grandi che siano, si debbano temere quando a prezzo di esse si procura tanto bene alla cristianità. Se anche molti non tengono presente che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, si trova in tanti luoghi nel santissimo Sacramento, ciò non toglie che tale verità dovrebbe essere per noi motivo di gran conforto. Non c’è dubbio che io lo provi assai vivo molte volte quando, nel coro, vedo queste anime così pure attendere alle lodi di Dio. E la loro virtù si dà a conoscere in mille modi, sia nell’obbedienza, sia nella gioia che procura loro una così stretta clausura e solitudine, sia nella letizia che provano quando si offre ad esse un motivo di mortificazione. Più il Signore dà grazia alle priore per metterle alla prova, più sono contente, al punto che si stancano con maggiore facilità le priore di esercitarle in ciò, che non esse d’obbedire. A questo riguardo i loro desideri sono insaziabili.

6. Mi vengono in mente ora alcune cose in fatto di mortificazione, che forse, figlie mie, potranno servire alle priore, e delle quali parlerò subito, ad evitare di dimenticarle, sia pure allontanandomi dall’argomento della fondazione che avevo cominciato a trattare. Le priore infatti, avendo attitudini e virtù differenti, tendono a condurre le loro religiose per il cammino a cui esse inclinano. Quella che ha grande spirito di mortificazione ritiene facile, come lo sarebbe per lei, qualunque fatica ella imponga per piegare la volontà, pratica che, di fatto, forse anche a lei costerebbe un grande sforzo. Dobbiamo badare molto a questo e non imporre alle altre quello che sarebbe gravoso per noi. La discrezione è molto importante per governare. Nei nostri monasteri è estremamente necessaria, starei quasi per dire «più necessaria che altrove», perché si deve avere maggior cura delle religiose sottoposte alla nostra autorità, sia dal punto di vista interiore, sia da quello esteriore. Altre priore, dotate di grande pietà, vorrebbero che si stesse sempre a pregare. Il Signore, però, in fin dei conti, conduce le anime per vie diverse, e le priore devono considerare che non sono state elette a questa carica per scegliere il cammino delle altre a proprio gusto, ma per guidarle secondo la Regola e le Costituzioni, malgrado i loro personali desideri e la ripugnanza che ne avvertissero.

7. Sono stata una volta in uno dei nostri monasteri con una priora molto amante della penitenza: conduceva tutte per questa strada. Accadeva, talvolta, che l’intera comunità si sottoponesse ininterrottamente alla disciplina per la durata dei sette salmi penitenziali, con orazioni e altre simili austerità. Lo stesso avviene se la priora è molto dedita all’orazione: benché non sia l’ora di attendervi, dopo il Mattutino trattiene lì l’intera comunità, mentre sarebbe assai meglio che tutte andassero a dormire. Se poi – come ho detto – è amante della mortificazione, non concederà alle altre un momento di tregua, e queste pecorelle della Vergine son lì, sempre zitte, come docili agnellini. Non c’è dubbio che ciò m’ispiri una profonda devozione e confusione ma, a volte, mi è anche causa di grande tentazione. Assorte tutte in Dio, le sorelle non se ne rendono conto, ma io temo per la loro salute. Vorrei che osservassero la Regola, cosa che dà già molto da fare, e che attendessero al resto con moderazione. Ciò è assai importante, specialmente per quanto riguarda la mortificazione. Vi facciano attenzione le priore, per amore di nostro Signore, essendo molto importante la discrezione nelle nostre case. Si adoperino a conoscere le varie attitudini delle consorelle perché, se in questo non si comportano con molta prudenza, nuoceranno alle loro religiose e le getteranno nell’inquietudine.

8. Devono, innanzitutto, aver presente che quanto riguarda la mortificazione non costituisce un obbligo: questo è ciò che in primo luogo devono considerare. Anche se l’anima ne abbia un gran bisogno per acquistare la libertà e un alto grado di perfezione, non è cosa da farsi in poco tempo. Le priore, pertanto, devono aiutare progressivamente ogni religiosa, secondo la capacità intellettiva che Dio ha dato a ciascuna, e secondo la sua disposizione spirituale. Sembrerà forse alle priore che qui la capacità intellettiva non abbia nulla a che vedere. Ma s’ingannano, perché vi sono certe anime che prima di arrivare a capire cos’è la perfezione e anche lo spirito della nostra Regola, durano fatica. Forse proprio tali religiose saranno inseguito le più sante, ma intanto non sapranno neppure quando debbano scusarsi e quando no, né conoscono il rispetto di altre piccole osservanze che, una volta comprese, sarebbero forse praticate da loro facilmente. Ma esse non arrivano a comprenderle e, quel che è peggio, non le ritengono neanche un motivo di perfezione.

9. C’è una religiosa, in uno dei nostri monasteri, che, per quanto io posso giudicare, è una delle più grandi serve di Dio che si trovino in essi, sia per il suo spirito interiore e per le grazie di cui la favorisce Sua Maestà, sia per penitenza e umiltà. Eppure non riesce a capire alcuni punti delle Costituzioni. Denunziare le colpe altrui in Capitolo le sembra una mancanza di carità e si chiede come si possa dire qualcosa delle consorelle. Potrei menzionare altre cose dello stesso genere da parte di alcune che sono grandi serve di Dio e che sotto certi aspetti si rivelano evidentemente superiori a quelle che conoscono bene le regole. La priora non deve credere di poter conoscere subito le anime. Lasci questo a Dio, che è il solo a poterlo fare, e cerchi di condurre ognuna dove Sua Maestà la fa andare, supposto, beninteso, che non manchi all’obbedienza né ai punti essenziali della Regola e delle Costituzioni. Quella delle undicimila vergini che si nascose non per questo fu meno santa e martire. Anzi, presentandosi sola al martirio, forse soffrì più delle altre.

10. Orbene, tornando alla mortificazione, per esercitare in essa una monaca, la priora le ordina una cosa che, benché leggera, a lei sembra assai ardua, e pur eseguendo l’ordine, resta così inquieta e provata, che sarebbe stato meglio non avergliela ingiunta. Lo si vede in seguito. Pertanto la priora stia attenta a non volerla perfezionare a forza di braccia, ma proceda con pazienza e per gradi fino a quando non operi in lei il Signore. In caso contrario, ciò che si fa per avvantaggiarla nella perfezione – senza la quale sarebbe ugualmente un’ottima religiosa – non servirebbe ad altro che ad agitarla e ad abbatterla, il che è una cosa terribile. Vedendo quel che fanno le altre, a poco a poco ne seguirà l’esempio, come spesso noi abbiamo visto, e quand’anche ciò non avvenga, si salverà ugualmente senza questa virtù. Io ne conosco una che tutta la vita l’ha posseduta in grande misura e serve il Signore già da lunghi anni in molti modi. Ciò malgrado, presenta certe imperfezioni e spesso prova certi sentimenti che non riesce a dominare: ella lo riconosce e se ne affligge con me. Credo che Dio la lasci in questi difetti senza peccato, non essendovene in essi alcuno, affinché si umili e abbia motivo di vedere che non è del tutto perfetta. Così, alcune saranno capaci di sopportare grandi mortificazioni, e quanto più quelle che vengono loro imposte riusciranno gravose, tanto più ne godranno, perché il Signore ha dato ormai loro interiormente la forza di dominare la propria volontà; altre, invece, non le sopporteranno neppure piccole, e imporgliele sarà come caricare di due staia di grano un bambino, il quale non solo non ne sopporterà il peso, ma ne sarà schiacciato e stramazzerà a terra. Così, figlie mie – parlo alle priore –, vogliate perdonarmi se le cose che ho visto in alcune di voi mi hanno fatto dilungare tanto a questo riguardo.

11. Eccovi un altro consiglio molto importante: quand’anche sia per provare l’obbedienza, non ordinate mai cose che, una volta fatte, possano costituire peccato, sia pur veniale. Ho saputo di alcune che, se fossero state fatte, avrebbero costituito un peccato mortale. Le religiose, almeno, potranno forse salvarsi a causa dell’innocenza, ma non la priora alla quale nessuno può assicurare che i suoi ordini non saranno immediatamente eseguiti. Siccome infatti le consorelle leggono e sentono raccontare ciò che facevano i santi eremiti, sembra loro buono qualunque ordine o, almeno, buona l’esecuzione di esso da parte loro. Ma le religiose devono pur sapere che non possono fare una cosa che è per se stessa un peccato mortale, per il fatto che viene loro comandata, tranne che non si tratti di lasciare la Messa o i digiuni della Chiesa, o altri obblighi di questo genere, dai quali la priora potrebbe aver motivo di ordinare la dispensa. Ma gettarsi in un pozzo o fare altre cose del genere, sarebbe colpevole, perché nessuna deve aspettarsi che Dio opererà per lei un miracolo, come li operava con i santi: ci sono molti altri modi per esercitare la perfetta obbedienza.

12. Tutto ciò che sia esente da questi pericoli è da me approvato. Una volta una consorella di Malagón chiese alla priora il permesso di darsi una disciplina. La priora, alla quale doveva averlo chiesto altre volte, le rispose: «Mi lasci stare». Ma siccome insisteva, riprese: «Se ne vada a fare una passeggiata; mi lasci stare». L’altra, con grande semplicità, passeggiò per alcune ore, finché una consorella le chiese perché passeggiava tanto o qualcosa di simile. Ella rispose che le era stato comandato di farlo. Frattanto suonò il Mattutino, e chiedendo la priora perché quella religiosa non fosse presente, l’altra le disse ciò che accadeva.

13. È necessario, perciò, come ho detto altre volte, che le priore abbiano l’avvertenza, con le anime di cui conoscono la grande obbedienza, di badare a quel che fanno. Un’altra religiosa infatti mostrò un giorno alla priora uno di quei vermi assai grossi, invitandola a vedere quanto fosse bello. La priora le rispose, scherzando: «Ebbene, se lo mangi». Se ne andò e lo fece friggere con ogni cura. La cuoca le chiese perché lo friggesse ed ella rispose: «Per mangiarlo», e così avrebbe fatto, senza che la priora lo sospettasse lontanamente, con grave danno, probabilmente, della sua salute. Godo molto, lo ammetto, quando vedo eccedere le mie figlie nell’obbedienza, perché ho un particolare rispetto di questa virtù, e ho fatto quanto mi era possibile perché l’abbiano anche loro. Ma tutto ciò mi sarebbe servito a poco se il Signore, nella sua immensa misericordia, non avesse concesso a tutte, in generale, la grazia di praticarla. Piaccia a Sua Maestà di far sì che sia sempre più perfetta tale obbedienza fra noi! Amen.