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Libro delle Fondazioni - Capitoli 23, 24

Autore: Santa Teresa d'Avila

CAPITOLO 23

In cui si tratta della fondazione del monastero del glorioso San Giuseppe del Carmine nella città di Siviglia. Vi si celebrò la prima Messa nel giorno della Santissima Trinità dell’anno 1575.

1. Mentre dunque stavo nel borgo di Beas aspettando l’autorizzazione del Consiglio degli Ordini per la fondazione di Caravaca, venne lì a farmi visita un padre del nostro Ordine degli scalzi. Era il maestro fra Girolamo Graziano della Madre di Dio, il quale aveva preso l’abito da pochi anni in Alcalá, uomo di grande dottrina, intelligenza e modestia, la cui vita è tutta improntata a rare virtù, e che nostra Signora sembra aver scelto per il bene del nostro Ordine primitivo. Mentre si trovava in Alcalá, era ben lontano dall’idea di prendere il nostro abito, anche se non da quella di farsi religioso. Infatti egli non condivideva in nessun modo i progetti dei suoi genitori che godevano del gran favore del re e vedevano in lui grandi capacità. Dall’inizio dei suoi studi suo padre lo aveva destinato a seguire i corsi di giurisprudenza. Egli, benché ancora giovanissimo, ne soffrì tanto che, a forza di lacrime, ottenne da lui il permesso di seguire quelli di teologia.

2. Poiché aveva il titolo di Maestro, cercò di entrare nella Compagnia di Gesù, e quei padri lo avevano già accolto, quando, a causa del sopravvenire di una circostanza, lo pregarono di aspettare qualche giorno. Egli mi raccontò che tutto il benessere di cui godeva gli procurava tormento, poiché gli sembrava che quello non fosse un buon cammino per il cielo. Faceva sempre le sue ore di orazione. Il suo raccoglimento e la sua illibatezza erano grandissimi.

3. Aveva preso allora l’abito del nostro Ordine, nel monastero di Pastrana, un suo grande amico, fra Juan de Jesús, anch’egli maestro. Non so se fu per una lettera che questi gli scrisse sull’eccellenza e l’antichità del nostro Ordine, o per qualche altro motivo, fatto sta che s’interessò a tutto quello che riguardava quest’Ordine. Provò piacere nel costatarne la comprovata eccellenza attraverso grandi autori che – com’egli racconta – spesso temeva di trascurare gli altri suoi studi per queste letture. Vi si dedicava anche nelle sue ore di ricreazione. Oh, sapienza e potenza di Dio! Come non è possibile per noi sottrarci alla sua volontà! Nostro Signore vedeva bene quanto bisogno ci fosse in quest’opera, da lui stesso cominciata, di un tale uomo. Io lo lodo spesso per averci accordato una grazia così grande: se, infatti, avessi voluto chiedere a Sua Maestà una persona capace di sistemare tutte le cose riguardanti l’Ordine in questi inizi, non avrei potuto chiedergli tanto quanto ci ha dato con quest’uomo. Sia egli benedetto per sempre!

4. Mentre, dunque, era ben lontano dal pensare di prendere il nostro abito, lo pregarono di recarsi a Pastrana per trattare con la priora di quel monastero – che non era stato ancora trasferito – della accettazione di una postulante. Di quali mezzi si serve la Maestà divina! Se egli avesse voluto lasciare Alcalá per andare lì a prender l’abito, avrebbe probabilmente incontrato l’opposizione di tante persone e forse non l’avrebbe fatto. Ma la Vergine nostra Signora, di cui è molto devoto, volle ricompensarlo della sua venerazione dandogli il suo abito. Penso pertanto che fu lei la mediatrice per ottenergli da Dio questa grazia. Se egli prese l’abito e si affezionò tanto al nostro Ordine è perché questa gloriosa Vergine non volle che, a chi desiderava così vivamente di servirla, mancasse l’occasione per farlo, adoperandosi ella sempre a favorire coloro che si pongono sotto la sua protezione.

5. A Madrid, quand’era ragazzo, pregava spesso davanti a un’immagine di nostra Signora – non ricordo dove –, della quale era molto devoto. La chiamava la sua «innamorata» e le faceva visite assai di frequente. Fu indubbiamente lei ad ottenergli dal Figlio la purezza in cui è sempre vissuto. Egli racconta che a volte gli sembrava di vederle gli occhi gonfi di lacrime per le molte offese arrecate a suo Figlio. Da qui gli nasceva in cuore un vivo slancio e un ardente desiderio di darsi alla salvezza delle anime, insieme con un immenso dolore alla vista delle offese commesse contro Dio. Questo desiderio di fare del bene alle anime è la sua inclinazione particolare. Quando crede di poterne trarre qualche frutto, gli sembra leggera ogni possibile sofferenza. L’ho visto io stessa per esperienza nelle molte prove che ha sofferto.

6. Si recava dunque a Pastrana, guidato da un artifizio della Vergine: egli credeva di andarvi per trattare della vestizione d’una postulante e Dio ve lo conduceva per dare a lui stesso l’abito. Oh, segreti di Dio! Com’egli, senza che noi lo vogliamo, ci va disponendo a ricevere le sue grazie! E quale ricompensa seppe elargire a quest’anima per le buone opere compiute, per il buon esempio che aveva sempre dato e per l’ardente desiderio di servire la sua gloriosa Madre! Tutto ciò è sempre ricompensato da Sua Maestà con grandi premi.

7. Giunto dunque a Pastrana, andò a parlare alla priora per pregarla di accettare quella postulante,e fu come se le avesse parlato per ottenere da nostro Signore che vi fosse accettato lui stesso. Non appena la priora lo vide, ne fu conquistata; in realtà, il suo tratto è così dolce che quasi tutti coloro che l’avvicinano ne restano rapiti: è una grazia di cui nostro Signore lo favorisce. È parimenti amato moltissimo dai religiosi e dalle religiose sottoposti alla sua autorità perché, anche se non perdona alcuna mancanza, avendo estrema cura della perfezione monastica, lo fa con una dolcezza così grande che nessuno, sembra, ha motivo di lamentarsi di lui.

8. Quando la priora lo vide le accadde quello che accadeva agli altri: fu presa dal più vivo desiderio che entrasse nell’Ordine. Ne parlò alle consorelle, facendo loro considerare tutto il vantaggio che ne avrebbero avuto, perché allora erano ben pochi, anzi quasi nessuno, quelli che potessero paragonarsi a lui. Pertanto le esortò a pregare tutte nostro Signore di non lasciarlo partire, ma di fargli prendere il nostro abito. Questa priora è una grande serva di Dio e credo che, quand’anche fosse stata la sola a pregarlo di ciò, sarebbe stata esaudita da Sua Maestà. A più forte ragione egli avrebbe ascoltato le preghiere di tante anime buone com’erano quelle che stavano lì. Tutte infatti presero la cosa molto a cuore, supplicando di ciò incessantemente Sua Maestà con digiuni, discipline, orazioni. E piacque a Dio di concederci questa grazia. Quando, infatti, il padre Graziano si recò al convento dei frati e vide una così perfetta osservanza religiosa e disposizione nel servire nostro Signore, e soprattutto che l’Ordine era della gloriosa Madre di Dio che egli desiderava tanto onorare, cominciò a sentire in cuore il desiderio di non tornare più nel mondo. Il demonio gli mise innanzi molte difficoltà, soprattutto il dolore dei suoi genitori, che lo amavano teneramente e nutrivano grande speranza di essere aiutati da lui a provvedere ai loro molti figli, sia maschi che femmine. Ma egli, rimettendone la cura a Dio, per amore del quale abbandonava tutto, si decise ad esser suddito della Vergine e a prendere il suo abito. E così esso gli fu dato con grande gioia di tutti, specialmente delle monache e della priora, che ne rendevano grandi lodi a nostro Signore, ritenendo che Sua Maestà avesse operato questa grazia per le loro preghiere.

9. Passò l’anno di prova con l’umiltà di uno dei più modesti novizi. La sua virtù si manifestò specialmente quando, essendo da lì assente il priore, rimase come capo, in sua vece, un frate molto giovane, privo d’istruzione e di scarsissimo talento e prudenza per governare una comunità. Non aveva neanche esperienza, essendo entrato da poco. Era di un’esigenza esagerata nel guidare i suoi confratelli, con le mortificazioni che imponeva loro. Tutte le volte che ci penso mi stupisco nel vedere come gli altri potessero sopportarlo, specialmente persone di tal merito; per riuscirvi, ci voleva proprio lo spirito di cui Dio li favoriva. Si è poi visto chiaramente che era affetto da una grande malinconia, e non se ne libera ovunque si trova, così da essere causa di sofferenza anche come semplice religioso; tanto più, poi, come superiore, dominato in tal modo dal suo umore. D’altra parte, è un buon religioso. Dio permette a volte questi errori per perfezionare la virtù dell’obbedienza in coloro che ama.

10. Senza dubbio fu così anche in questo caso, perché in premio di ciò ha dato al padre fra Girolamo della Madre di Dio una straordinaria luce in materia di obbedienza al fine che la insegni ai suoi sudditi, come chi ha avuto, sin dall’inizio, ottima occasione di praticarla. Affinché, inoltre, non gli mancasse l’esperienza di tutto quello di cui abbiamo bisogno, tre mesi prima della professione fu soggetto a gravissime tentazioni. Ma egli, chiamato a essere un buon capitano dei figli della Vergine, si difendeva bene da esse: quando il demonio insisteva di più per indurlo a lasciare l’abito, gli resisteva promettendo a Dio di non spogliarsene mai e di impegnarsi a ciò con i voti. Mi ha dato un’opera scritta da lui mentre era nel vivo di quelle tentazioni, che mi ha ispirato molta devozione e dalla quale si vede chiaramente la forza che il Signore gli dava.

11. Sembrerà fuori luogo, da parte sua, avermi comunicato tanti particolari della sua anima. Può darsi che il Signore l’abbia permesso perché io li scriva qui e lo si lodi nelle sue creature. So infatti che non si è mai aperto tanto né con il confessore né con qualsiasi altra persona. Talvolta, forse, lo induceva a tali confidenze il credere che, data la mia età e quello che udiva di me, io dovessi avere una certa esperienza. Accadeva che mi dicesse queste e altre cose, che non è il caso di scrivere, perché mi farebbero divagare troppo.

12. Mi sono, certo, moderata molto nel parlare di ciò, per non dargli un dispiacere, nel caso che un giorno questo scritto finisse fra le sue mani. Non ho potuto però tacere tutto, né mi è sembrato bene (del resto, se lo vedrà, sarà in un tempo ben lontano) tralasciare di far menzione di chi ha operato tanto per la restaurazione della Regola primitiva. Sebbene non fosse stato lui il primo a propugnarla, giunse in un momento in cui a volte mi sarei pentita di aver dato inizio alla Riforma, se non avessi avuto una somma fiducia nella misericordia di Dio. Mi riferisco ai conventi dei frati, perché quelli delle monache, per la sua bontà, sono sempre andati bene. Non che quelli dei frati andassero male, ma recavano il segno di una prossima fine perché, non formando una provincia a parte, venivano governati dai calzati. C’era ben, fra gli scalzi, chi avrebbe potuto esercitare il governo, come il padre fra Antonio de Jesús, che aveva dato inizio alla Riforma, ma non gli concedevano tale autorità. Inoltre essi non avevano ancora Costituzioni proprie, date dal nostro reverendissimo padre generale. In ogni casa si regolavano come credevano. Se si fossero dovute aspettare le Costituzioni o un governo autonomo, si sarebbero avute gravi difficoltà, perché gli uni la pensavano in un modo gli altri in un altro. A volte la situazione mi procurava una grande sofferenza.

13. Nostro Signore vi pose rimedio mediante il padre maestro fra Girolamo della Madre di Dio, perché lo nominarono commissario apostolico e gli diedero autorità e governo sugli scalzi e sulle scalze. Redasse le Costituzioni per i frati. Quanto a noi, già le avevamo, dateci dal nostro reverendissimo padre generale. Non le scrisse, quindi, per noi, ma solo per loro, servendosi del potere apostolico che aveva e delle eccellenti qualità di cui – ripeto – il Signore lo aveva dotato. La prima volta che li visitò sistemò tutto in modo così perfetto che ben si vide come fosse aiutato dalla divina Maestà e come nostra Signora lo avesse scelto per la salvezza del suo Ordine. Io la supplico con tutto il cuore di ottenere da suo Figlio che lo protegga sempre e gli dia la grazia di progredire nel suo servizio. Amen.

CAPITOLO 24

Prosegue nel racconto della fondazione di San Giuseppe del Carmine a Siviglia.

1. Ho detto che il padre maestro fra Girolamo Graziano venne a trovarmi a Beas. Prima d’allora non ci eravamo mai visti, anche se io lo avessi molto desiderato; avevamo avuto solo qualche scambio epistolare. Quando seppi del suo arrivo me ne rallegrai moltissimo, perché il bene che mi avevano detto di lui mi faceva desiderare di conoscerlo; ma molto più mi rallegrai quando cominciai a trattarlo: mi piacque tanto infatti da farmi ritenere che quanti me lo avevano lodato non lo avessero apprezzato abbastanza.

2. Quando venne, ero molto afflitta, ma, appena lo vidi, mi parve che il Signore mi mettesse davanti agli occhi il bene che per mezzo suo ci sarebbe venuto. Mi sentivo in quei giorni così piena di consolazione e di gioia, che io stessa restavo sinceramente stupita di me. In quel momento la sua autorità era ancora limitata all’Andalusia, ma mentre era a Beas il Nunzio lo mandò a chiamare e gliela affidò anche sugli scalzi e le scalze della provincia di Castiglia. Era tale la felicità di cui mi sentivo inondare il cuore che non finivo mai, in quei giorni, di rendere grazie a nostro Signore, né avrei voluto far altro.

3. Intanto arrivò l’autorizzazione per la fondazione di Caravaca, ma di un tenore diverso da quello che doveva servire al mio scopo. Pertanto fu necessario mandarla di nuovo alla Corte, perché scrissi alle fondatrici che in nessun modo si sarebbe fatta la fondazione se non si esigeva una condizione che mancava. Dunque, si doveva tornare alla Corte. A me riusciva gravosa quella lunga attesa a Beas. Avrei voluto ritornare in Castiglia, ma siccome si trovava lì il padre fra Girolamo che, essendo commissario di tutta la provincia di Castiglia, era anche superiore di Beas, non potevo fare nulla senza la sua approvazione: perciò gliene parlai.

4. Gli parve che, una volta partita io, la fondazione di Caravaca non si sarebbe più fatta. Inoltre gli sembrava che farne una a Siviglia sarebbe stato rendere un grande servizio a Dio, ed era cosa assai facile, essendone stato richiesto da alcune persone influenti e abbastanza ricche da offrire subito una casa. L’arcivescovo di Siviglia, poi, favoriva tanto l’Ordine che egli era convinto di rendergli, con quest’iniziativa, un gran piacere. Si convenne dunque che la priora e le religiose che avevo con me per la fondazione di Caravaca venissero destinate a Siviglia. Io, sebbene per vari motivi mi fossi sempre energicamente rifiutata di fondare monasteri riformati in Andalusia (quando partii per Beas, se avessi saputo che apparteneva alla provincia dell’Andalusia, non vi sarei andata in alcun modo; mi trasse in inganno il fatto che il borgo non fa ancora parte dell’Andalusia, il cui confine credo sia quattro o cinque leghe dopo, ma la provincia sì), vedendo che era tale la decisione del mio superiore, mi arresi subito. Nostro Signore, infatti, mi dà la grazia di ritenere che i superiori vedano sempre giusto. E così fu in questa circostanza, pur avendo il fermo proposito di attendere a un’altra fondazione e vari motivi ben gravi per non andare a Siviglia.

5. Ebbero subito inizio i preparativi del viaggio, perché il caldo cominciava ad essere intenso. Il padre commissario apostolico Graziano andò dal Nunzio, che l’aveva chiamato, e noi a Siviglia, con i miei buoni compagni di viaggio, il padre Giuliano d’Avila, Antonio Gaytán e un frate scalzo. Andavamo in carri ben coperti, essendo questo, sempre, il nostro modo di viaggiare. Arrivate alla locanda, prendevamo una stanza – buona o cattiva, come si trovava – e una consorella riceveva alla porta ciò di cui avevamo bisogno, essendo vietato l’accesso in quella stanza anche a coloro che ci accompagnavano.

6. Per quanto ci affrettassimo, non arrivammo a Siviglia che il giovedì precedente alla festa della Santissima Trinità, dopo aver sofferto nel viaggio un caldo tremendo. Difatti, anche se s’interrompeva il cammino durante la siesta, vi assicuro, sorelle, che avendo il sole dardeggiato in pieno sui carri, rientrare in essi era come entrare in una specie di purgatorio. Le mie consorelle, però, ora pensando all’inferno, ora considerando di fare e di patire qualcosa per Dio, viaggiavano piene di gioia e d’allegria. Le sei religiose che venivano con me erano infatti tali anime che io credo che con loro avrei avuto il coraggio di andare anche in terra di Turchi: non sarebbe loro mancata la forza di patire per nostro Signore, o, meglio, gliel’avrebbe data lui, poiché a questo erano rivolti i loro desideri e i loro discorsi, ben esercitate com’erano sia all’orazione sia alla mortificazione. Dovendo rimanere in una regione così lontana, cercai di sceglierle fra quelle che mi sembravano più adatte, precauzione necessaria, con tutte le sofferenze che si dovettero sopportare. Di alcune – e le più gravi – non parlerò, perché potrebbero compromettere qualche persona.

7. La vigilia della Pentecoste, Dio le sottopose a una ben dura prova, mandandomi una fortissima febbre. Credo che le loro pietose voci di supplica a Dio bastarono ad evitare che il male aumentasse, perché mai, nella mia vita, sono stata colpita da una febbre così violenta, senza che durasse ben più a lungo. Fu tale che sembrava che fossi caduta in letargo, tanto ero fuori dei sensi. Esse mi spruzzavano acqua sul viso, ma il sole la rendeva così calda che offriva poco refrigerio.

8. Non tralascerò di dirvi il cattivo alloggio che incontrammo in quella circostanza. Ci fu data una piccola camera, sotto un tetto di tegole, senza assito. Non aveva finestre, e se si apriva la porta, il sole la inondava tutta. Dovete considerare che da quelle parti il sole non è come in Castiglia, ma molto più molesto. Mi fecero coricare su un letto tale che avrei preferito sdraiarmi per terra, perché era tanto alto da una parte e tanto basso dall’altra, che non sapevo come starci: mi sembrava fatto di pietre aguzze. Cos’è mai la malattia! Quando c’è la salute, per lo meno, tutto si sopporta facilmente. In conclusione, ritenni preferibile alzarmi e andarmene da lì con le mie compagne, perché mi sembrava più tollerabile il sole della campagna che il caldo di quello stanzino.

9. Che sarà degli infelici condannati all’inferno, che eternamente non potranno cambiar luogo! Un cambiamento, anche se si passa da una sofferenza a un’altra, sembra sempre essere di un qualche sollievo. A me è accaduto di avere un dolore assai forte in una parte del corpo, e benché poi venissi attaccata da un altro non meno forte in un’altra parte, il cambiamento mi sembrava un sollievo. Così avvenne in questa circostanza. Per quanto mi ricordi, a me non dava alcuna pena vedermi malata; le consorelle ne soffrivano più di me. Piacque al Signore che il male durasse solo quel giorno in tutta la sua violenza.

10. Poco prima – forse due giorni prima – ci era accaduto un altro incidente che ci procurò una certa tensione, mentre attraversavamo su una chiatta il Guadalquivir. Quando si trattò del trasporto dei carri, non fu possibile farlo dov’era teso il cavo, ma si dovette prendere la corrente di traverso, nonostante che il cavo, manovrato anch’esso di traverso, ci desse un po’ d’aiuto. Ma, o perché quelli che lo tenevano se lo lasciarono sfuggire, o non so per quale altro motivo, avvenne che la chiatta andava col carro alla deriva senza cavo né remi. La vista del barcaiolo pieno d’affanno mi affliggeva molto più del pericolo che correvamo. Noi ci mettemmo a pregare, tutti gli altri a lanciare alte grida d’aiuto.

11. Da un castello vicino ci stava guardando un cavaliere il quale, mosso a compassione, ci inviò prontamente soccorso. In quel momento non si era ancora abbandonato il cavo: i nostri compagni lo trattenevano aggrappandovisi con tutte le loro forze, ma la violenza della corrente era tale da trascinarli tutti e darne perfino stramazzare a terra qualcuno. In questa circostanza mi destò davvero profonda commozione un figlio del barcaiolo, che ho sempre presente alla memoria. Poteva avere, mi pare, dieci o undici anni, e quel che egli soffriva nel vedere il dolore del padre mi faceva render lode al Signore. Ma poiché sempre Sua Maestà alle sofferenze unisce la clemenza, ne diede prova anche qui. La chiatta andò a fermarsi su un banco di sabbia, ove l’acqua da una parte era abbastanza bassa, e così fu possibile portarci aiuto. Ci saremmo trovati a mal partito nel rintracciare la strada, se l’uomo accorso dal castello non ci avesse fatto da guida. Non avevo intenzione di entrare in questi particolari, di così poca importanza; avrei avuto molto da dire se avessi dovuto raccontare le disavventure dei miei viaggi. Mi sono dilungata di più in questa perché me ne è stata fatta insistente richiesta.

12. Assai più penoso fu per me il contrattempo che avemmo l’ultimo giorno della Pentecoste. Ci affrettammo di buona lena per arrivare a Cordova la mattina presto e ascoltare la Messa senza che alcuno ci vedesse. Venivamo condotte ad una chiesa posta al di là del ponte per sicurezza di maggiore solitudine. Già stavamo per attraversarlo, quando ci fu detto che non avevamo l’autorizzazione per far passare di lì i carri, autorizzazione che è rilasciata dal governatore. Da allora a quando ci pervenne trascorsero più di due ore, perché la gente era ancora a letto. Frattanto una quantità di persone si avvicinava per cercare di sapere chi fossero quei viaggiatori. Di questo non ci importava molto, perché non potevano vederci, essendo i carri ben coperti. Venuto ormai il permesso, ecco che i carri, risultando più larghi della porta del ponte, non vi entravano. Fu necessario segarli, o non so a quale altro espediente ricorrere, perdendo così altro tempo. Infine, quando giungemmo alla chiesa, dove il padre Giuliano d’Avila doveva celebrare la Messa, la trovammo piena di gente, perché, essendo dedicata allo Spirito Santo – ciò che noi ignoravamo – v’era gran festa con un discorso.

13. A quella vista provai una grande pena; a mio parere era meglio andarcene senza ascoltare la Messa che entrare in quella baraonda. Il padre Giuliano d’Avila non la pensò allo stesso modo, e siccome egli è teologo, dovemmo aderire al suo parere. Gli altri compagni, forse, avrebbero seguito il mio, e avremmo sbagliato in pieno. Tuttavia, non so se mi sarei fidata solo di me. Scendemmo vicino alla chiesa; anche se nessuno poteva vederci in viso, perché portiamo sempre grandi veli calati davanti, bastava la vista di tali veli, delle cappe bianche di bigello, quali sono le nostre, dei nostri poveri sandali ai piedi per mettere in subbuglio tutti. E così infatti fu. Grazie a quell’apprensione, senza dubbio, mi andò via del tutto la febbre, perché fu certamente grande per me e per tutti.

14. Appena entrammo nella chiesa mi si avvicinò un uomo dabbene, per farci largo tra la gente. Lo supplicai di condurci in qualche cappella. Lo fece, ne chiuse l’entrata e non ci lasciò finché non ci ebbe ricondotte fuori della chiesa. Pochi giorni dopo venne a Siviglia e disse a un padre del nostro Ordine che in premi di quella sua buona opera egli pensava di aver avuto da Dio la grazia di ricevere in eredità o in dono una considerevole ricchezza, che non si aspettava davvero. Vi assicuro, figlie mie, che anche se ciò vi sembrerà nulla, fu per me uno dei peggiori momenti della mia vita, perché il subbuglio che faceva quella gente era tale che sembrava stessero per entrare i tori. Pertanto, non vedevo l’ora di lasciare quel luogo; non essendoci nei dintorni un angolo per passare la siesta, la trascorremmo sotto un ponte.

15. Giunte a Siviglia e preso alloggio in una casa che il padre fra Mariano, avvisato del nostro arrivo, aveva affittato per noi, mi pareva che ormai tutto fosse fatto, perché – ripeto – era grande il favore dato agli scalzi dall’arcivescovo, il quale mi aveva scritto qualche volta dimostrandomi molto affetto. Questo non bastò a risparmiarmi grandi sofferenze perché il Signore così permetteva. L’arcivescovo era molto contrario a monasteri di religiose senza rendite, e a ragione. Il male, o per meglio dire, il vantaggio per la riuscita di quell’opera, fu non averlo avvisato. Se glielo avessero detto prima che io mi mettessi in viaggio, sono certa che non avrebbe dato il suo consenso. Ma sia il padre commissario sia il padre Mariano – il quale era assai contento anche lui della mia venuta –, essendo certissimi che con la sorpresa del mio arrivo gli avrebbero procurato una grandissima gioia, non lo avevano preavvisato. Se, pensando di far bene, avessero agito diversamente, avrebbero forse commesso – ripeto – un grande errore. Nelle fondazioni degli altri monasteri quello a cui anzitutto provvedevo era l’autorizzazione dell’Ordinario, come prescrive il sacro Concilio. Qui non solo la consideravamo per data, ma – ripeto – credevamo di rendere una grande servizio all’arcivescovo, ciò che in fondo era vero, come egli stesso ha poi costatato. Ma Dio ha voluto che nessuna fondazione si facesse senza che in un modo o in un altro io non dovessi molto soffrire.

16. Giunte dunque alla casa che, come ho detto, era stata affittata per noi, pensai di prenderne subito possesso, secondo il solito, per poter dire l’Ufficio divino. Senonché il padre Mariano, che risiedeva a Siviglia, cominciò a trovare scuse per ritardare la fondazione. Egli, per non affliggermi, non voleva dirmi tutta la verità. Ma non essendo, le sue, ragioni plausibili, capii dove stava la difficoltà: nella mancanza d’autorizzazione. Egli mi consigliò di accettare la fondazione di un monastero con rendita, o altra cosa del genere, di cui non mi ricordo. Infine, mi disse che l’arcivescovo non aveva piacere che si fondassero monasteri di monache con la sua autorizzazione, né, in tanti anni di episcopato a Siviglia e a Cordova, l’aveva mai concesso ad alcuno, benché gran servo di Dio. Molto meno si sarebbe indotto a concederla per un monastero senza rendite.

17. Questo era come dirmi di rinunziare al monastero, anzitutto perché, anche se avessi potuto fondarlo con rendite, l’avrei fatto molto a malincuore in una città come Siviglia: infatti, dove li avevo fondati con rendite era in piccole località nelle quali o non si fanno fondazioni, o devono essere fatte così, mancandovi qualunque risorsa. In secondo luogo perché dalle spese di viaggio ci era rimasta solo una blanca né avevamo portato altro con noi eccetto i vestiti che indossavamo, qualche tunica, qualche cuffia e la tela che era servita a coprire bene i carri. Per il ritorno di quelli che ci avevano accompagnato si dovette ricorrere a un prestito: ce lo fece un amico che Antonio Gaytán aveva a Siviglia; quanto al denaro che occorreva per sistemare la casa, lo cercò il padre Mariano. La casa, inoltre, non era nostra: la fondazione di un tale monastero era, quindi, impossibile.

18. Cedendo certamente alle vive insistenze di questo padre, l’arcivescovo ci permise di celebrare la Messa il giorno della Santissima Trinità, e fu la nostra prima Messa a Siviglia. Ci fece anche dire di non suonare campane e neppure di metterne, ma era cosa già fatta. Trascorsi così più di quindici giorni in cui mi sentivo decisa, se non fosse stato per un riguardo verso il padre commissario e il padre Mariano, a tornarmene con le mie monache, senza grande rincrescimento, a Beas, per la fondazione di Caravaca. Molto più ebbi a soffrire durante il protrarsi di questa situazione, che non so bene quanto durò, perché ho cattiva memoria, ma credo più di un mese. Dopo, infatti, la partenza era ben più difficile che nel primo momento, perché la notizia del monastero si era ormai divulgata. Il padre Mariano non mi permise mai di scrivere all’arcivescovo: cercava di addolcirlo a poco a poco e gli faceva inviare lettere da Madrid dal padre commissario.

19. Una cosa calmava i miei scrupoli: il fatto che la Messa si era celebrata con il suo permesso e che sempre, nel coro, recitavamo l’Ufficio divino. Non tralasciava di farmi avere visite da parte sua e i farmi sapere che egli sarebbe venuto presto di persona. Ci aveva mandato un sacerdote della sua curia a celebrare la prima Messa. Da ciò capivo bene che quanto accadeva serviva evidentemente solo a procurarmi l’occasione di soffrire. Io, poi, se soffrivo, non era per me né per le mie monache, ma per il padre commissario, il quale era molto addolorato, perché mi aveva ordinato quel viaggio. E lo sarebbe stato ben più ancora, nel caso di un completo fallimento del nostro progetto, come tutto faceva prevedere.

20. Nel frattempo vennero da me anche i padri calzati per sapere attraverso quali vie si fosse fatta la fondazione. Mostrai loro le patenti, che avevo con me, del nostro reverendissimo padre generale. Questo bastò a tranquillizzarli, ma se avessero saputo quale fosse l’atteggiamento dell’arcivescovo, non credo che ciò sarebbe stato sufficiente. Nessuno però ne era al corrente, anzi tutti credevano che la cosa fosse di suo assoluto piacere e gradimento. Finalmente piacque a Dio che l’arcivescovo venisse a vederci. Io gli mostrai quale torto ci arrecasse. Infine mi disse di fare quel che volessi e come volessi. D’allora in poi non ha cessato, in ogni occasione, di beneficiarci e favorirci.