Libro delle Fondazioni - Capitoli 25, 26
Autore: Santa Teresa d'Avila
CAPITOLO 25
Si continua a parlare della fondazione del glorioso San Giuseppe in Siviglia e di quanto si dovette soffrire per avere una casa propria.
1. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che in una città così fiorente come Siviglia, popolata di gente così ricca, ci sarebbero state minori possibilità ai fini di una fondazione, che ovunque io fossi stata. Erano talmente pochi gli aiuti che, a volte, pensavo che non fosse conveniente fondare un monastero in quel luogo. Non so se dipendesse dallo stesso clima del paese, avendo sempre udito dire che i demoni là riescono meglio a operare le loro tentazioni, certamente perché Dio lo permette. Fatto sta che in questo paese io ne fui così assillata che mai in vita mia mi sono sentita più vile e pusillanime di allora, al punto da non riconoscermi io stessa. Anche se non perdevo la fiducia abituale in nostro Signore, la disposizione del mio spirito era così diversa da quella che sono solita avere da quando mi occupo di queste cose, che capivo come Dio avesse ritirato un po’ da me la sua mano per lasciarmi a me stessa e farmi rendere conto che, se avevo coraggio, non veniva da me.
2. Rimasta dunque a Siviglia da quando ho detto fino a poco prima della quaresima, senza che si facesse parola d’acquistare la casa, mancandoci sia il denaro sia qualcuno che garantisse per noi, come altrove (le aspiranti che avevano più volte promesso al padre visitatore apostolico di entrare nel nostro Ordine e che lo avevano pregato di far venire lì le monache, in seguito dovettero, probabilmente, avere l’impressione che il rigore della Regola fosse eccessivo e che non avrebbero potuto sopportarlo, perché ne entrò una sola di cui parlerò più avanti), era ormai giunto il tempo in cui mi ordinarono di lasciare l’Andalusia, dovendo badare ad altri affari da queste parti. A me dispiaceva molto lasciare le mie consorelle senza casa, pur rendendomi ben conto che la mia presenza lì non serviva a nulla, non potendo disporre in tal luogo della grazia che il Signore mi fa qui, di avere qualcuno che aiuti queste opere.
3. Piacque a Dio che arrivasse allora dalle Indie uno dei miei fratelli che era stato là più di trentaquattro anni, il cui nome è Lorenzo de Cepeda. Affliggendosi ancor più di me del fatto che le monache rimanessero senza una casa propria, ci fu di grande aiuto soprattutto nell’adoperarsi a farci comprare quella in cui ora esse si trovano. Io allora rivolgevo già vive istanze a nostro Signore, supplicandolo di non lasciarmi partire senza prima procurar loro una casa ed esortavo le consorelle a chiederlo tanto a lui, quanto al glorioso san Giuseppe. Inoltre facevamo molte processioni e preghiere a nostra Signora. Confidando in tutto questo e vedendo mio fratello deciso ad aiutarci, cominciai le trattative per l’acquisto di alcune case. Ma, quando sembrava che si venisse ad un accordo, tutto andava all’aria.
4. Mentre un giorno, stando in orazione, chiedevo a Dio, visto che si trattava delle sue spose così vivamente desiderose di compiacerlo, di dar loro una casa, mi disse: Vi ho già esaudite, lascia fare a me. Rimasi piena di gioia, sembrandomi ormai di averla, e così fu. Sua Maestà cominciò infatti con l’impedirci di comprarne una che piaceva a tutti per la posizione in cui si trovava, ma era così vecchia e in così cattivo stato che non avremmo comprato altro all’infuori del posto per poco meno di quanto si è pagata la casa che oggi abbiamo. Pur essendone già stato convenuto l’acquisto e mancando solo la stesura del contratto, non ero affatto contenta. Mi sembrava che ciò non rispondesse alle ultime parole da me udite nell’orazione perché, a quanto mi era parso, esse alludevano a una buona casa. Per grazia di Dio, colui che la vendeva, pur guadagnando molto in quell’affare, sollevò qualche difficoltà circa il tempo convenuto per la stesura del contratto. Potemmo così, senza mancare da parte nostra di parola, rompere l’accordo. Ciò avvenne per la grande bontà di nostro Signore, perché alle religiose di quella casa non sarebbe bastata la vita per vedere la fine dei lavori e avrebbero avuto grandi difficoltà e pochi mezzi per venirne a capo.
5. Contribuì molto a questa soluzione un buon servo di Dio che, quasi subito dopo il nostro arrivo, avendo saputo che eravamo senza Messa, veniva a celebrarcela tutti i giorni, nonostante la grande lontananza dalla sua casa e l’enorme caldo. Si chiama Garciálvarez, persona molto dabbene e stimata nella città per le buone opere che faceva, non occupandosi d’altro. Se egli fosse stato ricco, non ci sarebbe mancato nulla. Conoscendo bene la casa, riteneva una vera pazzia pagarla così cara, e ce lo ripeteva ogni giorno, si può dire, finché ottenne che non se ne parlasse più. Andarono, lui e mio fratello, a vedere quella dove stanno oggi le nostre consorelle. Tornarono così entusiasti, e a ragione, che in due o tre giorni, con l’aiuto del Signore che ne voleva l’acquisto, fu steso il contratto.
6. Ma il trasferirci in essa non ci costò poche difficoltà, sia perché la persona che l’occupava non voleva uscirne, sia perché i frati francescani, che abitavano lì vicino, vennero subito a intimarci di non entrarvi in nessun modo. Se il contratto non fosse stato regolarmente stipulato, avrei ringraziato il Signore di poterlo annullare, perché ci vedemmo esposte al pericolo di dover pagare seimila ducati, cioè il prezzo della casa, senza poterla abitare. La priora, peraltro, non era del mio parere e rendeva lode a Dio della mancata possibilità di rescindere il contratto. Sua Maestà le dava certo maggior fede e coraggio che a me nei riguardi di quella casa, e ne deve avere così per tutto il resto, essendo assai più virtuosa di quanto non lo sia io.
7. Restammo più di un mese con questa pena. Alla fine, piacque a Dio che la priora, io e altre due monache riuscissimo a trasferirci lì di notte, perché i frati non se ne accorgessero fino alla presa di possesso, con molta paura. Quelli che ci accompagnavano dicevano che sembrava loro di veder frati in ogni ombra. Allo spuntar del giorno il buon Garciálvarez, che era venuto con noi, vi celebrò la prima Messa. Così la nostra paura scomparve.
8. Oh, Gesù! Quante paure ho avuto in queste prese di possesso! Mi vien fatto di pensare che se si trema tanto, quando, lungi dal fare il male, ci si dedica al servizio di Dio, che sarà delle persone che hanno di mira il male, essendo contro Dio e contro il prossimo? Non so che guadagno possano averne né che piacere trovarci con un tal contrappeso.
9. Mio fratello non era a Siviglia, essendosi rifugiato in un luogo santo, perché, nella fretta di stendere il contratto, era sfuggito un errore assai pregiudizievole per il monastero. Siccome egli garantiva per noi, volevano metterlo in prigione, senza poi dire che la sua qualità di straniero avrebbe potuto farci avere molte noie. Malgrado tutto, ne dovemmo subire parecchie, finché non diede una certa somma che servì di garanzia. Così, la vendita andò bene benché, per nostra maggiore sofferenza, per qualche tempo si dovesse far fronte a una causa. Restammo chiuse in alcune stanze a pianterreno, mentre mio fratello stava tutto il giorno con gli operai e provvedeva al nostro mantenimento già da molto tempo: siccome non tutti sapevano che lì vi fosse un monastero, per il fatto che stavamo in una casa privata, le elemosine erano poche. L’unica assistenza ci veniva da un santo vecchio, priore della Certosa de las Cuevas, gran servo di Dio. Originario di Avila, apparteneva alla famiglia dei Pantoja. Dio gli ispirò così vivo affetto per noi che da quando arrivammo è sempre stato – e credo che non cesserà di esserlo finché avrà vita – il nostro benefattore in tutti i modi possibili. Siccome è giusto che, leggendo questo scritto, raccomandiate a Dio, sorelle, coloro che ci hanno aiutato con tanta carità, siano vivi o morti, ne parlo qui. A questo sant’uomo dobbiamo molto.
10. Passammo così più di un mese, a quanto credo, perché in fatto di date ho una cattiva memoria, pertanto potrei sbagliare; dovete sempre ritenere approssimativa la mia indicazione; il che, del resto, ha poca importanza. Per un mese dunque mio fratello si adoperò molto ad adattare alcune stanze a cappella e a sistemare ogni cosa in modo che noi non dovevamo occuparci di nulla.
11. Finito tutto, avrei voluto che il santissimo Sacramento si ponesse nella cappella senza richiamare l’attenzione, ripugnandomi molto contristare chiunque, quando è possibile evitarlo. Pertanto lo dissi al padre Garciálvarez, ed egli ne parlò con il padre priore de las Cuevas. Se si fosse trattato dei loro propri interessi, non ne avrebbero avuto maggior cura di quanta ne avevano per i nostri. A loro giudizio, perché il monastero godesse di notorietà in Siviglia, bisognava che la cerimonia avesse la dovuta solennità. Andarono, così, a consultarsi con l’arcivescovo e decisero di comune accordo di portare al monastero da una parrocchia il santissimo Sacramento con grande solennità. L’arcivescovo ordinò che vi partecipasse il clero con varie confraternite e che si ornassero le strade.
12. Il buon Garciálvarez decorò il nostro chiostro che – come ho detto – allora serviva da passaggio esterno, e la cappella con estrema cura; fece erigere bellissimi altari e ricorse a ingegnose invenzioni. Fra le altre sue trovate c’era una fontana da cui sgorgava acqua di fiori d’arancio, senza che noi vi intervenissimo per nulla e neanche ne avessimo espresso il desiderio, anche se poi c’ispirò molta devozione. Ci fu motivo di grande conforto l’organizzazione così solenne della festa, con tale splendido addobbo delle strade, con tanta musica e tanti suonatori, che il santo priore de las Cuevas mi disse di non aver mai visto in Siviglia nulla di simile; da ciò fu evidente che era opera di Dio. Egli, contrariamente alla sua abitudine, prese parte alla processione. L’arcivescovo attese personalmente a collocare il santissimo Sacramento nel ciborio. Vedete con questo, figlie mie, quanto onore fu reso alle povere scalze, per le quali poco tempo prima sembrava che non ci fosse neanche l’acqua, benché il fiume ne abbondi. Il concorso della gente fu enorme.
13. Accadde inoltre un fatto che, a detta di tutti quelli che vi assisterono, destò viva sorpresa. Si erano sparati una quantità di mortaretti con grandi razzi; finita la processione quasi al calar della notte, a qualcuno venne in mente di spararne ancora: non so come, prese fuoco un po’ di polvere e fu causa di enorme stupore che rimanesse illeso chi la portava. La fiamma salì fino alla parte alta del chiostro, i cui archi erano ricoperti di taffettà. Tutti pensarono che la stoffa si fosse ridotta in cenere mentre non subì alcun danno, neppure minimo, benché fosse di color giallo e rosso acceso. E ciò che ritengo ancor più sbalorditivo è che la pietra degli archi, sotto il taffettà, restò nera a causa del fumo, mentre il taffettà che la ricopriva fu immune da danni, come se il fuoco non l’avesse sfiorato.
14. A questa vista tutti restarono sbigottiti e le monache ne resero lode a Dio perché non avevano di che pagare altro taffettà. Il demonio doveva essere così irritato di tutta quella solennità e così deluso di vedere ormai fondata un’altra casa di Dio, che voleva in qualche modo vendicarsi. Ma Sua Maestà non glielo permise. Sia egli benedetto per sempre! Amen.
CAPITOLO 26
Continua a parlare della fondazione del monastero di San Giuseppe nella città di Siviglia. Dice alcune cose di grande rilievo riguardanti la prima religiosa che vi entrò.
1. Potete ben immaginarvi, figlie mie, quale sia stata quel giorno la nostra gioia. Ero felice soprattutto di vedere che lasciavo le consorelle in una casa così comoda e ben situata, che il monastero era conosciuto e che ospitava religiose fornite di dote con cui si poteva pagare, in gran parte, il prezzo della casa: per piccola che fosse stata la dote di quelle che ne avrebbero completato il numero, si sarebbe estinto il debito. Ma la mia gioia più grande era il pensiero che, dopo aver tratto dei vantaggi dalle sofferenze di quella fondazione, me ne andavo nel momento in cui si poteva avere un po’ di riposo, perché questa festa ebbe luogo la domenica precedente alla Pentecoste dell’anno 1576. Il lunedì successivo partii, visto che cominciava a esserci già un gran caldo e che volevo evitare, possibilmente, di viaggiare durante quelle feste, per trascorrere a Malagón, ove avrei desiderato potermi fermare qualche giorno: per questo mi ero data gran fretta.
2. Dio non permise che ascoltassi nemmeno una sola volta la Messa nella nostra cappella. La mia partenza raffreddò molto l’entusiasmo delle consorelle, le quali ne provarono vivo dolore, perché eravamo state insieme tutto quell’anno e insieme avevamo sofferto tante tribolazioni di cui – come ho detto – tralascio le più gravi. Esse furono tali che, escludendo la prima fondazione, quella di Avila – che non trova confronti –, nessuna, credo, mi è costata tanto come questa, perché si trattò, per la maggior parte, di sofferenze interiori. Piaccia alla divina Maestà di esservi sempre fedelmente servito! Se questo ne è il risultato, come spero che sarà, tutto il resto è niente. Sua Maestà infatti vi ha già condotto anime di gran virtù. Di quelle che avevo portato con me ne restarono cinque, dei cui meriti vi ho già detto qualcosa, in verità la più piccola parte di quel che ci sarebbe da dire. Ora voglio parlare della prima, perché sono sicura che vi farà piacere ascoltarmi.
3. È figlia di genitori religiosissimi; il padre è originario della montagna. Ancora assai piccola, all’incirca di sette anni, una zia l’aveva chiesta alla madre per tenerla con sé, non avendo figli. Quando la ebbe nella sua casa, ove la colmava di attenzioni, dimostrandole così l’amore che era giusto nutrisse per lei, le tre donne di servizio di quella casa se ne adombrarono. Esse, prima dell’arrivo della bambina, evidentemente avevano sperato di ereditare i beni della padrona. Ma era chiaro che ella, affezionandosi alla nipote, avrebbe nominato lei sua erede. Decisero di impedire tale pericolosa eventualità architettando una trama diabolica. Accusarono la bambina di voler uccidere la zia e di aver dato, a tal fine, non so quanti denari a una di esse perché le comprasse un po’ di sublimato corrosivo. Quando lo dissero alla zia, siccome tutt’e tre affermavano la stessa cosa, ella non esitò a crederlo, e la madre della bambina, donna di grande virtù, fece altrettanto.
4. Andò a prenderla e la ricondusse a casa, persuasa che venisse su con pessime inclinazioni. Beatriz de la Madre de Dios – questo è ora il suo nome – mi raccontava di aver passato più di un anno in cui ogni giorno la madre la picchiava violentemente, la torturava e la obbligava a dormire sulla nuda terra, per farle confessare la sua orribile colpa. Poiché la fanciulla insisteva a dichiararsi innocente, affermando di non sapere neanche che cosa fosse il sublimato, la madre, vedendo che aveva il coraggio di persistere nel diniego, la giudicò ancora più perversa. Quella povera donna era desolata nel costatare la sua ostinazione, ritenendola ormai incorreggibile. Fu molto se, per sottrarsi a quei tormenti, la bambina non finisse per confessarsi colpevole. Ma, siccome era innocente, Dio le diede la forza di dire sempre la verità. Inoltre egli, che protegge chi è innocente, mandò a due di quelle donne un male così orribile, che sembravano affette da rabbia. Esse allora fecero chiamare segretamente dalla zia la bambina e le chiesero perdono; infine, vedendosi in punto di morte, ritrattarono tutto; altrettanto fece la terza, morendo di parto. Così tutt’e tre spirarono fra i tormenti, come punizione di quello che avevano fatto soffrire a un’innocente.
5. Questo io non lo so soltanto da lei, perché sua madre, dopo che la vide farsi suora, tormentata dal rimorso dei maltrattamenti a cui l’aveva sottoposta, me lo raccontò con maggiori particolari relativi ai suoi molti martiri. Non avendo ella altri figli ed essendo così buona cristiana, Dio permise che diventasse il carnefice della propria unica figlia, che pur amava moltissimo. È una donna assai sincera e profondamente religiosa.
6. Quando la fanciulla ebbe poco più di dodici anni, la lettura di un libro sulla vita di sant’Anna le ispirò una grande devozione per i santi del Monte Carmelo, perché vi si dice come la madre di sant’Anna, che mi pare si chiamasse Emerenziana, andasse spesso a trovarli. Da ciò prese tanta affezione a quest’Ordine di nostra Signora che, promettendo subito di entrarvi come religiosa, fece voto di castità. Appena poteva si ritirava gran tempo in solitudine e si dedicava all’orazione. Durante questa, Dio e nostra Signora le concedevano grandi grazie particolari favori. Ella avrebbe voluto subito farsi suora, ma non osava decidersi a causa dei suoi genitori; né, d’altronde, sapeva dove trovare l’Ordine da lei desiderato. Ed è cosa da notare che, essendoci in Siviglia un monastero carmelitano della Regola mitigata, ella non lo venisse mai a sapere, finché non ebbe notizia di questi nostri, cioè molti anni dopo.
7. Giunta a un’età in cui si poteva farla sposare, i suoi genitori predisposero per lei un progetto di matrimonio, benché fosse ancora molto giovane. Essi non avevano che quella figlia, perché tutti i suoi fratelli erano morti e non era rimasta che lei, la meno amata. Quando le accadde ciò che ho detto aveva ancora un fratello il quale la difendeva, sostenendo che non bisognava credere a quell’accusa. Presi dunque ormai tutti gli accordi per il matrimonio, essendo i suoi genitori lontani dal pensare che ella avesse altre aspirazioni, quando glielo dissero rispose che aveva fatto voto di non sposarsi e che in nessun modo vi avrebbe mancato, neppure se l’avessero uccisa.
8. Fosse il demonio che li accecasse, o Dio che lo permettesse per fare di lei una martire, sta di fatto che essi attribuirono il rifiuto a qualche sua cattiva azione. Avendo, poi, già data la loro parola, al pensiero dell’offesa che si recava all’altro, le diedero un’infinità di percosse e le inflissero una quantità di supplizi, fino a farla pendere dall’alto, tanto che fu un miracolo se non morì strangolata. Le salvò la vita Dio, il quale la riservava a grandi cose. Ella mi ha raccontato che, tenendo presente quello che aveva sofferto sant’Agnese, il cui esempio le fu richiamato alla memoria dal Signore, godeva di patire qualcosa per lui e non cessava di fargliene offerta. Si pensò che sarebbe morta, perché rimase tre mesi a letto senza potersi muovere.
9. È incredibile che una ragazza che non si staccava mai dalla madre, il cui padre, come poi seppi, era tanto vigilante, potesse apparire ai loro occhi così colpevole. Inoltre aveva sempre dimostrato d’essere assai virtuosa, onesta e talmente caritatevole, che quanto poteva procurarsi era da lei destinato alle elemosine. Ma allorché nostro Signore vuol dare a qualcuno la grazia di soffrire, dispone di molti mezzi per farlo. Comunque, dopo alcuni anni, Dio volle che i genitori arrivassero a conoscere la virtù della loro figlia, tanto da concederle quanto voleva per farne elemosine. Le persecuzioni si cambiarono in dimostrazioni di affetto, anche se a lei, per il vivo desiderio che aveva di essere religiosa, tutto ciò riuscisse gravoso, ragion per cui era sempre crucciata e afflitta, com’ella stessa ebbe a dirmi.
10. Tredici o quattordici anni prima che il padre Graziano si recasse a Siviglia, quando ancora non c’era idea lì di carmelitani scalzi, accadde che, mentre ella stava con suo padre, sua madre e due vicine, entrasse da loro un frate del nostro Ordine vestito di bigello e a piedi nudi, come lo sono oggi i nostri padri. Dicono che avesse un aspetto fresco e venerabile, anche se era tanto vecchio che la sua lunga barba sembrava fatta di fili d’argento. Si mise vicino a lei e cominciò a dirle qualche parola in una lingua che non fu intesa né da lei né da nessuno. Finito di parlare, le fece tre volte il segno della croce, dicendole: «Beatriz, Dio ti renda forte!». E se ne andò. Finché restò lì, nessuno si mosse, essendo tutti come sbigottiti. Il padre le domandò chi fosse, mentre ella aveva creduto che si trattasse di una persona conosciuta da lui. Si alzarono subito per richiamarlo, ma non lo si vide più. Beatriz ne rimase assai consolata; gli altri, invece, erano fuori di sé dallo stupore, vedendo in ciò qualcosa di soprannaturale; così, come si è detto, presero ormai a stimarla molto. Durante i lunghi anni trascorsi dopo tale avvenimento, credo quattordici, ella attese sempre a servire il Signore, supplicandolo di esaudire il suo desiderio.
11. Mentre l’attesa le procurava gran pena, giunse là il padre maestro fra Girolamo Graziano. Un giorno che era andata in una chiesa [del convento] di Triana ove abitava suo padre, per ascoltare una predica, senza sapere chi fosse il predicatore, che era appunto il padre maestro Graziano, lo vide uscire per ricevere la benedizione. Non appena scorse il suo abito e i suoi piedi nudi, le venne subito in mente il vegliardo da lei visto, perché l’abito era lo stesso, anche se l’aspetto e l’età erano assai diversi, in quanto il padre Graziano non aveva ancora trent’anni. Mi ha raccontato che, a causa della straordinaria gioia da cui fu presa, rimase come tramortita. Benché avesse sentito dire che in Triana era sorto un convento, non sapeva che fosse di quell’Ordine. Da quel giorno in poi cercò subito di confessarsi dal padre Graziano, e anche questo Dio volle che le costasse molto, perché almeno dodici volte, se non più, vi andò senza la volesse confessare. Siccome era giovane e di bell’aspetto – non doveva avere allora neanche ventisette anni –, egli si rifiutava d’ascoltarla: riservato com’è, rifuggiva dal trattare con tali persone.
12. Finalmente un giorno Beatriz, anch’ella molto riservata, mentre stava piangendo nella chiesa, si sentì chiedere da una donna che cosa avesse. Le rispose che da tanto tempo cercava di parlare con quel padre che allora stava confessando, senza potervi riuscire. Quella, pertanto, la condusse da lui e lo pregò di ascoltarla. In tal modo, Beatriz riuscì a fargli la sua confessione generale. Egli, vedendo un’anima così ricca, ne provò grande consolazione e la confortò a sua volta col dirle che probabilmente le carmelitane scalze sarebbero venute a Siviglia, e che egli si sarebbe adoperato perché l’accogliessero subito fra loro. E fu così: quello che anzitutto mi ordinò, infatti, fu di ricevere lei prima d’ogni altra, perché era molto soddisfatto della sua anima, preavvisando poi lei del nostro arrivo. Ella prese tutte le precauzioni perché non ne venissero a conoscenza i suoi genitori, altrimenti non avrebbe avuto modo di entrare nel monastero. Pertanto il giorno della Santissima Trinità congedò le donne di servizio che solevano accompagnarla (quando usciva per confessarsi sua madre non andava con lei, essendo molto lontano il convento degli scalzi dov’ella si recava sempre per la confessione e dove faceva grandi elemosine anche a nome dei suoi genitori); si era messa d’accordo con una gran serva di Dio che venisse a prenderla e disse alle sue accompagnatrici (essendo tale persone ben conosciuta in Siviglia per le sue virtù e le sue buone opere) che ella le avrebbe raggiunte subito. Così, la lasciarono andare. Prese quindi il suo abito e il suo mantello di rozzo panno; io non so come potesse muoversi con quel peso, ma la gioia che aveva le rendeva tutto facile. Temeva solo qualche eventuale impedimento, se si fosse capita la ragione di quel carico così inconsueto, essendo solita uscire in ben altre condizioni. Che cosa non fa l’amore di Dio! Ella ormai, lungi dal preoccuparsi dell’onore del mondo, era in pensiero solo per il timore d’essere ostacolata nel compimento dei suoi desideri. Le aprimmo subito la porta e io mandai immediatamente ad avvertire la madre. Giunse come fuori di sé, ma poi disse di riconoscere la grazia che Dio faceva a sua figlia. E così, sia pure a fatica, vi si rassegnò, non abbandonandosi a quegli eccessi cui si lasciano andare altre madri, che non vogliono più parlare alle figlie, ma rimanendo inalterata. Cominciò anche lei a darci generose elemosine.
13. La sposa di Gesù Cristo cominciò allora a godere della felicità tanto a lungo desiderata. Era così umile e disposta ad assumersi il carico di tutti i lavori, che bisognava faticare per toglierle di mano la scopa. Pur essendo abituata nella sua casa a ogni sorta di comodità, tutto il suo riposo era lavorare. La grande gioia che le inondava il cuore non tardò a farla ingrassare notevolmente. I suoi genitori ne furono così contenti, che ormai gioivano di vederla lì.
14. Due o tre mesi prima della sua professione, affinché non godesse di tanto bene senza qualche patimento, ebbe fortissime tentazioni, non perché non volesse farla, ma perché le sembrava un impegno assai difficile. Dimentica ormai di tutti gli anni di sofferenze che le era costato il bene di cui si trovava in possesso, si sentiva così tormentata dal demonio che non riusciva a difendersi. Ciò nonostante, facendosi una gran forza, riportò su di lui una tale vittoria che proprio in mezzo ai suoi tormenti prese tutti gli accordi relativi alla sua professione. Nostro Signore, il quale certamente non attendeva che questa prova della sua fermezza, tre giorni prima della professione, la visitò consolandola in modo assai particolare e mise in fuga il demonio. Ne restò così piena di gioia che in quei tre giorni sembrava fuori di sé per la felicità, e ben a ragione, perché la grazia da lei ricevuta era stata assai grande.
15. Essendole morto il padre pochissimo tempo dopo il suo ingresso nel monastero, anche sua madre prese in esso l’abito, dando tutto quello che aveva. Ora madre e figlia, entrambe con grandissima gioia ed edificazione di tutte le religiose, attendono a servire colui che le ha favorite di così straordinaria grazia.
16. Non era passato ancora un anno quando venne da noi un’altra ragazza, anche lei contro il volere dei suoi genitori. Così il Signore va popolando questa sua casa di anime tanto desiderose di servirlo, che non può esser loro d’ostacolo il rigore della Regola né della clausura. Sia egli per sempre benedetto e lodato! Amen.